ARTERIOSCLEROSI
(IV, p. 674; App. III, I, p. 134)
L'a., o aterosclerosi per ricordare il termine che fa riferimento anche alla caratteristica lesione ateromasica, continua a occupare, per le sue conseguenze d'organo, il primo posto tra le cause di morte (per cardiopatia ischemica, encefalopatia vascolare, ecc.) nei paesi più industrializzati: da qui il particolare interesse per gli studi epidemiologici relativi ai suoi fattori di rischio (ipercolesterolemia, ipertensione, fumo di sigarette, diabete mellito: cfr. ERICA Research Group, 1988), per gli aspetti genetici (A. G. Motulsky, 1989) e per gli aspetti istopatologici posti in evidenza dai più recenti metodi di indagine: tra questi la microscopia elettronica a trasmissione e a scansione.
La base anatomica dell'a. consta di lesioni della parete arteriosa, che sono di diverso tipo. Di interesse clinico è la placca rilevata (sinonimi: p. arteriosclerotica, p. ateromasica, p. fibrosa, p. fibroateromasica, ateroma), costituita da componenti noti ormai da quasi un secolo: il cappuccio fibroso di Jores, sovrastante una poltiglia, in massima parte necrotica (ateroma propriamente detto), in cui si trovano detriti di cellule e lipidi (soprattutto colesterolo e suoi esteri). Tale placca può subire complicazioni: acute, per fissurazione o ulcerazione del cappuccio fibroso e conseguente trombosi (aggravante la stenosi del lume vascolare, o completamente obliterante) ovvero per emorragia entro la placca stessa (che bruscamente ne accresce le dimensioni e quindi la stenosi luminale), o croniche, per es. per calcificazioni più o meno diffuse (visibili queste anche in occasionali radiografie).
Le lesioni asintomatiche, del tutto inavvertite, sono principalmente le strie lipidiche (fatty-streaks), i rilievi gelatinosi, i microtrombi; almeno le prime sono fortemente influenzate dai principali fattori di rischio oggi noti: dall'ipercolesterolemia, dall'ipertensione, dal fumo di sigaretta, dal diabete mellito, ecc. Studi epidemiologici su tali fattori di rischio sono stati condotti in molti paesi, compresa l'Italia (cfr. ERICA Research Group, 1988), mentre si accresce sempre più l'interesse anche per gli aspetti genetici della malattia (A. G. Motulsky, 1989). Le strie lipidiche sono lesioni intimali, in genere visibili a occhio nudo dopo apertura dell'arteria, pianeggianti o lievemente rilevate, come risulta chiaramente dalle immagini stereoscopiche della microscopia elettronica a scansione. Sono costituite da un accumulo di cellule 'schiumose' (foam-cells), che si raccolgono nello strato subendoteliale dell'intima, in parte di origine miocellulare. Le cellule muscolari lisce infatti, sotto stimoli di crescita (quale il cosiddetto platelet derived growth factor o "fattore di crescita piastrinico"; v. accrescimento: Fisiologia, Fattori di accrescimento, in questa App.), migrano nell'intima dalla media, ove di norma risiedono, moltiplicandosi e trasformandosi in cellule di tipo 'sintetico' (da cellule di tipo 'contrattile' quali erano; G. R. Campbell e altri, 1988). Giunte nell'intima, accumulano lipidi e secernono la matrice intercellulare della placca (glicosaminoglicani, collagene, elastina). Oggi si sa che in parte però le cellule schiumose subendoteliali derivano invece da monociti circolanti, che aderiscono alle cellule endoteliali (alla loro superficie luminale) e che penetrano quindi nella parete ove fagocitano i grassi ossidati (D. Steinberg, 1988). Una volta divenuti foam-cells, tali macrofagi in parte tornano nel torrente sanguigno, in parte degenerano, muoiono e vanno a costituire la suddetta poltiglia (ateroma).
Da molti autori si ritiene che le strie lipidiche, o almeno molte di esse, possano evolvere e divenire placche rilevate (fibrolipidiche o fibroateromasiche) variamente stenosanti il lume, e ciò specialmente nelle coronarie (dove si verifica coincidenza topografica tra strie lipidiche e placche rilevate, H. C. Stary, 1989). Altri autori invece ritengono che strie lipidiche e lesioni rilevate differiscano ab initio anche per localizzazione e ciò specialmente nell'aorta, come avevano osservato molti anni orsono C. J. Schwartz e J. R. A. Mitchell (1962). Due studi ad ampio raggio, uno internazionale promosso dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, uno promosso dai patologi degli Stati Uniti, dovrebbero tra qualche anno dare risposta a tale questione. Se l'inizio della lesione clinicamente rilevante non fosse rappresentato dalle fatty-streaks, occorrerebbe valutare l'importanza di altre lesioni: da quelle (micro) trombotiche a quelle 'insudative' (gelatinose, M. D. Haust). Le lesioni (micro) trombotiche, dapprima proposte da C. v. Rokitanski (1856), quindi riprese da J. B. Duguid (1946) e poi da J. Frazier Mustard (1967), consistono nell'incorporazione nella parete di piastrine adese e fibrina; oggi si ritiene che esse contribuiscano senz'altro al progredire delle lesioni (cfr. H. C. Stary, 1989) più che al loro instaurarsi. Le lesioni gelatinose, insudative, riportano in primo piano il tema (già proposto nel 19° secolo da R. Virchow e poi ripreso da R. Roessle) dell'a. come arterite che si svolge nei domini della dis-reattività (J. M. Munro e R. S. Cotran, 1988). Questo tema acquista nuovo rilievo oggi che si riconoscono, mediante immunocitochimica e microscopia elettronica, linfociti T (G. K. Hansson e altri, 1988) nelle lesioni arteriosclerotiche iniziali e in quelle avanzate, e che si constatano le impressionanti reattività arteriose degli organi trapiantati, nei quali si riscontrano lesioni arteriose stenosanti che appaiono spesso del tutto sovrapponibili a quelle dell'arteriosclerosi. Le lesioni gelatinose consistono in un rilievo edematoso intimale da alterata permeabilità endoteliale: per 'insudazione' si forma una specie di 'pomfo' sottoendoteliale (R. Roessle), nel quale ristagnano varie componenti plasmatiche, tra cui le lipoproteine.
Ma ormai l'intera dottrina relativa all'inizio delle lesioni di parete deve essere riletta alla luce delle osservazioni ultrastrutturali fornite dalla microscopia elettronica a trasmissione e a scansione.
Accanto alle lesioni iniziali (strie lipidiche, rilievi gelatinosi, ecc.) cominciano infatti a conoscersi a livello ultrastrutturale lesioni inapprezzabili in microscopia ottica: come per esempio variazioni di spessore del glycocalyx (o guscio glicoproteico di superficie) delle cellule endoteliali (cfr. G. Weber e altri, 1973; 1987), alterazioni degli organuli intracitoplasmatici delle cellule endoteliali, verificabili proprio in quelle parti della parete arteriosa in cui si sviluppano abitualmente le lesioni che solo successivamente diventano visibili (R. Mora e altri, 1987), ecc. Fenomeni che vanno integrando, accanto al concetto di 'lesioni' delle cellule endoteliali, quello di 'disfunzione' o addirittura di una 'attivazione' delle medesime. Senza dire delle modificazioni, ancora non tutte note, e che si vanno via via scoprendo, impresse nella parete, già nella norma, dal flusso sanguigno.
Ricordiamo infatti che la parete vascolare (arteriosa, venosa) non è un tubo rigido di plastica e neppure un tubo di gomma capace solo di modificazioni passive: ma è flessibile (per esempio con i movimenti del braccio), contrattile oltre che selettivamente permeabile, grazie al monostrato endoteliale che dall'interno la riveste (E. Bassenge e R. Busse, 1988). La contrattilità, come la dilatabilità, dipende dallo strato muscolare (tonaca media) regolato dall'innervazione (avventizia; G. Burnstock, 1985), mediando variamente l'endotelio (intima) con i suoi vari fattori rilassanti e contrattili (R. F. Furchgott, 1983; P. M. Vanhoutte, 1989). Ma, come sopra accennato, la parete non consiste soltanto nelle sue strutture anatomiche e in queste loro funzioni: essa è in qualche modo anche in funzione del contenuto del vaso. Impensabile la parete senza il flusso sanguigno che la percorre e la modella, come insegna la più classica patologia: quando manchi il filtro dei capillari, come per esempio negli angiomi arterovenosi, le vene divengono simili ad arterie, le arterie acquisiscono struttura simile a quella delle vene.
E proprio anche nella norma si comincia oggi a sapere che il flusso ha una funzione in qualche modo morfogenetica: le aree ad alto shearstress tendono a fibrosi, le aree a basso shear-stress divengono edematose, con reattività (per es: fibre da stress) evidenti in microscopia elettronica a trasmissione nel citoplasma delle cellule endoteliali ovvero con modificazioni anche della forma delle cellule stesse quali compaiono in microscopia elettronica a scansione, ecc. (V. S. Repin e altri, 1984; Y. Yoshida e altri, 1988). Per non dire di certe strutture di parete dal significato ancora non tutto chiarito quali l''ispessimento intimale diffuso', e quelli 'eccentrici', cui i recenti studi su centinaia di coronarie umane (H. C. Stary, 1989) attribuiscono rilievo anche nel determinare la localizzazione delle lesioni nelle coronarie stesse.
Quali che siano l'origine delle lesioni clinicamente rilevanti e le ragioni della loro localizzazione nei vari punti della parete, è oggi accertato inoltre che le placche hanno tempi di inizio e di evoluzione diversi a seconda dei distretti arteriosi (per es. quello carotideo nei confronti del cerebrale, il coronarico rispetto a quello della mammaria interna, ecc.) per motivi non ancora ben conosciuti. È così per esempio che l'a. delle arterie cerebrali intracraniche si sviluppa con un ritardo di lustri rispetto a quella delle carotidi al collo (decade lag di J. Moossy, 1977; cfr. anche P. McGarry e altri, 1985, e G. Weber e altri, 1988) e che l'arteria mammaria interna si usa per i by-pass aorto-coronarici, giacché non presenta a., che è già avanzata invece nelle coronarie.
L'approccio diagnostico alle lesioni di parete e al loro diveni re (progressione ed eventuale regressione anche in rapporto con diete e farmaci, ecc.) ha ricevuto innovativo contributo dapprima dal le arteriografie, quindi dalle metodiche di analisi, innocue e non invasive, quali l'Eco-Doppler e l'NMR, che consentono di esten dere e moltiplicare le indagini e di cogliere le lesioni ben prima che abbiano dato segni clinici.
Fatto già noto, e che tali metodiche diagnostiche hanno reso più evidente, è che l'emergenza clinica dell'a. suole verificarsi nello spazio di minuti dopo un silenzio di decenni nei quali le lesioni della parete arteriosa si vanno lentamente costituendo, determinando stenosi del lume arterioso fino a raggiungere un punto critico, allorché vengono a occupare il 70% circa del lume stesso. Tanto per il tempo prolungato in cui si vengono costituendo tali lesioni e che a lungo si accompagna a dilatazione compensatoria del vaso (S. Glagov e altri, 1987; H. C. Stary, 1989) quanto anche per il modo di inizio e di sviluppo delle lesioni stesse, che si esplica in un processo patologico caratterizzato da una reattività simil-flogistica della parete agli stimoli aterogeni generali e locali (R. Virchow, 1856; R. Roessle, 1943; J. M. Munro e R. S. Cotran, 1988), si può oggi ragionevolmente prospettare la possibilità di prevenzione o di rallentata progressione delle lesioni stesse o, addirittura (come anche nell'uomo appare possibile: cfr. D. Blankenhorn, 1989, e B. Lewis, 1988), di una regressione delle lesioni di parete, con diminuzione della stenosi del lume, e maggior afflusso di sangue agli organi vitali (R. W. Wissler e D. Vesselinovitch, 1984), con diminuita incidenza quindi degli effetti clinici maggiori come, per la cardiopatia coronarica, hanno documentato anche ampie indagini epidemiologiche e cliniche recenti (Consensus Conferences, 1985, 1986, 1987).
Il discorso sull'aterogenesi si fa dunque oggi sempre più ricco e complesso: per comprenderlo non può più essere ignorato, tra l'altro, lo sconfinato e in parte nuovo panorama di biochimica molecolare su lipoproteine, apoproteine, DNA, ecc. (v. per esempio A. M. Gotto Jr., 1988; S. H. Humphries, 1988), ovvero quello sulla innervazione della parete vascolare, che le più recenti metodiche immunocitochimiche dischiudono alle ricerche morfo-funzionali. Si ricordino qui soltanto gli influssi di sostanze neurotrasmettitrici, il cui effetto sul tono del vaso dipende dalla presenza e dalla integrità delle cellule endoteliali, i cui fattori rilassanti e contrattili agiscono a loro volta diversamente a seconda della integrità della parete o della presenza in essa di lesioni arteriosclerotiche (D. G. Harrison e altri, 1987).
In conclusione, e per completezza, può essere aggiunto che secondo gli studi degli ultimi anni, tanto nelle lesioni iniziali quanto in quelle avanzate, il decorso può presentare caratteristiche differenti: fasi di evoluzione progressiva, fasi di stato e anche un andamento regressivo; una 'storia naturale' insomma inserita ormai senza più dubbi nel contesto di una complessa e articolata reattività biocellulare che distacca definitivamente le lesioni di parete dal concetto di 'scorie inerti' depositate con gli anni su una struttura, quella arteriosa, già ritenuta anch'essa inerte o priva di reattività.
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