ARTEMIDE ("Αρτεμισ, Artĕmis)
Come Apollo fu la massima divinità solare dei Greci, così A. fu la divinità lunare per eccellenza; altre dee i Greci ravvicinarono alla luce dell'astro notturno (come, per esempio, Era ed Ecate), ma nessuna il cui culto abbia, in progresso di tempo, guadagnata tanta diffusione ed importanza come quello di A. Fin dai tempi più antichi, a cui possa risalire la nostra conoscenza della mitologia greca, A. ci appare come una divinità panellenica; impossibile ci è perciò indicare con sicurezza dove il suo culto e la sua figura siano comparsi per la prima volta; come anche non sappiamo il significato del suo nome, che gli antichi cercavano di spiegare con etimologie a base omofonica od etiologica, tutte ugualmente arbitrarie, fra le quali, tuttavia, alcuni dei moderni sarebbero disposti ad accettare quella che collega il nome della dea col verbo ἀρταμέω "taglio a pezzi", con riferimento all'aspetto di A. quale divinità mortifera, cui si offrivano anche sacrifici cruenti. Chiari sono invece gli epiteti che accennano alla natura luminosa della dea; li troviamo già nella poesia omerica, e risalgono evidentemente all'età micenea: aureo è il suo trono (Χρυσόϑρονος), aurea la sua conocchia (Χρυσηλέκατος), auree le briglie con le quali essa guida il suo carro celeste (Χρυσήνιος).
L'origine e la natura lunare di A. non poteva non condurre ad un ravvicinamento mitologico della sua figura con quella di Apollo, la divinità dell'astro diurno. A. è infatti nata insieme con lui da Latona nell'isola di Delo (v. apollo), ed è venerata insieme col fratello e la madre, in tutte le principali sedi del culto apollineo, come a Delo e a Delfi; anche ad essa si attribuisce l'ameno soggiorno nel paese degl'iperborei (v. apollo); anch'essa adopera, come il fratello, l'arco e le frecce (onde gli epiteti di ‛Εκηβόλος "lungi saettante", di 'Ιοχέαιρα "colei che ama, o che scaglia, gli strali"; ed anche per essa, trionfatrice di giganti e di mostri, si canta il peana. Un'altra tradizione, però, collocava la nascita della dea in Ortigia (cioè, "il luogo delle quaglie"); onde A. stessa era soprannominata 'Ορτυγία: l'Ortigia del mito fu poi localizzata ora in Efeso ora a Calidone, ora a Siracusa.
È noto quanta importanza si ascriva all'astro lunare presso i popoli primitivi, in grazia dei molteplici influssi ch'esso esercita, o sembra esercitare, così su alcuni fenomeni naturali terrestri come su certi aspetti e certi fatti della vita vegetale, animale ed umana: tale importanza e siffatti influssi continuarono ad ascrivergli, in generale, anche i popoli antichi più progrediti in civiltà, il greco compreso; sicché è facile intendere come la dea che i Greci identificarono con la luna sia venuta in rapporto con tutte quelle forme della vita e della natura terrena, sulle quali pareva riflettersi l'attività lunare.
Regno di A. sono, sulla terra, le ombrose montagne, deserte e ammantate di boschi, dove scorrono freschi ruscelli o stagnano limpidi laghetti; e ciò perché alla luna si ascriveva un benefico influsso sulla vegetazione boschiva, specialmente in grazia delle virtù fertilizzanti della rugiada, di cui essa si riteneva la dispensiera. E nei boschi di cui è signora, A. si trattiene a cacciare; armata di arco e di frecce, preceduta da veloci cani, attorniata e seguita da un coro di ninfe, essa insegue le fiere e le colpisce coi suoi dardi infallibili; talvolta si ferma in qualche amena radura o in riva di un laghetto per danzare con le sue compagne e per bagnare nelle acque il suo corpo bellissimo. Essa è dunque la dea dei monti, dei boschi, della caccia, delle fresche acque dei fiumi e dei laghi (Ποταμία, Λιμναία); in quanto libera le campagne dai mostri nocivi dell'agricoltura, è anche dea delle messi; ma essa anche ama le giovani fiere selvagge, e spesso si fa vedere accompagnata da leopardi e leoni.
Per riflesso, evidentemente, della natura dell'astro ch'essa impersona, Artemide, fu concepita come bellissima e solitaria: ella è concepita sempre sola, schiva della compagnia degli altri dei, rifuggente da qualunque rapporto amoroso: ché dell'amore odia tutte le manifestazioni fisiche come disdegna e respinge quelle sentimentali. A. è pertanto "la pura" (ἁγνή) per eccellenza; e, come dea della castità, protegge i casti giovani e le pure giovanette. A questo suo aspetto si ricollega la saga di Ippolito, a lei devoto e invano amato da Fedra; e quella di Atteone, ch'essa fece sbranare dai suoi cani, perché aveva osato contemplarla nel bagno. A. è, in più largo senso, la dea dei giovinetti e delle fanciulle: quest'ultime specialmente le sono devote; partecipano come canefore alle feste del suo culto, e le dedicano qualche ricciolo dei loro capelli, un gioiello o uno dei loro giocattoli; quando si sposano, le offrono in voto (ad Atene, per esempio) la loro tunica virginale (onde l'epiteto di Χιτωνία). Questa forma di venerazione della dea può spiegarci come A. estendesse la sua protezione anche alle giovani spose: essa veglia sull'entrar della sposa nella casa del marito, essa l'aiuta e la salva nella difficile ora del parto; e, sotto questo aspetto, essa porta gli epiteti di Λοχεία e Εἰλείϑυια (Ilizia). Va peraltro osservato che il legame di A. con le funzioni sessuali della donna potrebbe attingere le sue origini (come nel caso dell'Era greca o della Giunone romana) nella connessione che gli antichi vedevano fra queste manifestazioni e le fasi lunari.
Dalle acque dei boschi e dei monti A. allarga la sua azione a quelle del mare: il centro del culto di A., come dea della pesca e della navigazione, era nell'isola di Creta, ov'essa era venerata in figura e col nome di Βριτόμαρτις ("la dolce fanciulla") o di Δίκτυννα ("inventrice delle reti"); da Creta questo culto si diffuse nelle isole e nella terraferma greca, collegandosi di solito con quello di Apollo Delfinio. Ma essa è anche, come Apollo, la dea della morte che arriva fulminea, per punizione o per vendetta, addosso a coloro che hanno sfidato o provocato la sua ira: tale è il caso dei Niobidi. Essa è infine anche la dea che veglia su coloro che amministrano la giustizia; come tale venerata nelle città e nei fori con gli epiteti di 'Αγοραία ed Εὔκλεια.
Ad A. è sacro il sesto giorno di ogni mese, e, fra i mesi, quello in cui cade l'equinozio di primavera, e che porta il nome di Artemisio presso gli Ionî e i Dorî, di Elafebolione in Attica (dall'animale a lei sacro). Sacro le è appunto, fra gli animali, il cervo (onde l'epiteto di 'Ελαϕία); ma anche, come dea dei boschi, della caccia, della pastorizia, le sono sacri la capra, il capro, il cignale.
Fra i culti locali di A., tengono il primo posto quelli dell'Arcadia, la regione prediletta della dea per la sua natura selvaggia, pei suoi monti ammantati di boschi, ricchi di selvaggina di ogni specie. Ivi A. era soprannominata senz'altro "la bellissima" e considerata, insieme con Zeus Liceo, capostipite del popolo degli Arcadi. Negl'innumerevoli santuarî della regione, essa è salutata ‛Υμνία, come dea dell'allegrezza e dei canti della primavera, ‛Ιέρεια; ‛Ηγεμόνη, come la dea che guida per le vie difficili e pericolose. Fra i culti, pure assai importanti, della Laconia e della Messenia, vanno specialmente ricordati quello di Karyae, nell'alta valle dell'Eurota, dove A. era venerata, con l'epiteto di Καρυᾶτις, insieme alle sue vergini Ninfe (le Καρυάτιδες); quello di A. Κορυϑᾶτις, il cui santuario sorgeva non lungi da Amicle; quello di A. Δερρεᾶτις, sul Taigeto, quello infine di A. Λιμνᾶτις, nel borgo di Limne, al confine fra la Laconia e la Messenia. Questo culto ci richiama a quello di A. 'Ορϑία Λυγοδέσμα, praticato a Sparta, nel quartiere di Limnae: in origine esso consisteva principalmente in sacrifici umani di carattere espiatorio, ai quali Licurgo avrebbe sostituito il noto rito della flagellazione di fanciulli. Nell'Elide, A. aveva il culto alle foci dell'Alfeo, narrando il mito che essa era stata amata da quel dio fluviale; al posto di A. subentrò poi, nella saga, la ninfa Aretusa, il cui culto passò di qui in Sicilia, a Siracusa, ove fu localizzato in Ortigia, l'isola di A., presso il santuario di A. Ποταμία. In Etolia A. era venerata specialmente con l'epiteto di Λαϕρία; in Beozia era famoso il tempio di Aulide, ov'era localizzata la saga del sacrificio d'Ifigenia. Nell'Attica, finalmente, sotto tre aspetti era festeggiata la dea: nella festa primaverile delle Elafebolie si venerava A. 'Αγροτέρα, la dea, cioè, della natura selvaggia, della caccia, dell'impeto guerriero, e ad essa si offriva, il sesto giorno di Boedromione, il sacrificio anniversario della vittoria di Maratona. Nelle feste Munichie, il sedicesimo giorno del mese omonimo, si pregava A. Μουνιϕία, il cui culto era localizzato nella penisoletta omonima del Pireo: ad A. era infine dedicata la festa della Brauronie, che originariamente era propria del culto della dea nel villaggio attico di Brauron (A. Βραυρωνία), e che di qui passò poi in Atene, dove, sull'acropoli, sorgeva appunto il santuario detto Brauronio: a Brauron si custodiva un'immagine di A. Ταυροπόλος che si diceva essere stata portata dalla Tauride da Oreste e Ifigenia; di quest'ultima si mostrava nel tempio la tomba, e là si appendevano le vesti delle donne morte di parto. Alla festa delle Brauronie partecipavano pertanto essenzialmente le donne; anche nel santuario dell'acropoli erano in gran numero le vesti muliebri dedicate alla dea: ivi le fanciulle fra i cinque e i dieci anni venivano consacrate alla dea e prestavano servizio, in veste gialla, nei riti del tempio, col soprannome rituale di "orse" (ἄρκτοι).
Del tutto distinte dalle forme greche del culto di A. sono alcune forme asiatiche di esso, specialmente quelle di Efeso e di Magnesia sul Meandro. Al culto di A. Efesia, nella valle inferiore del Caistro, si ascriveva origine antichissima; l'avrebbero fondato le Amazzoni, prima della migrazione ionica in quella regione: quivi A. era adorata non come dea virginale, ma come divinità matronale, la cui azione fecondatrice si esercitava sulla vita della terra, degli animali e degli uomini. Da Efeso, dove aveva sede e rituale magnifici, questo culto si diffuse per tutte le città greche dell'Asia, fino a diventare uno dei massimi culti nazionali degli Ionî, e poi anche in diverse località della Grecia propriamente detta. Simile alla A. di Efeso, per significato e forma del culto, fu la A. Λευκοϕρυηνή di Magnesia sul Meandro. E va ancora ricordato il culto persiano di A. (Περσία, Περσική), cioè di una divinità detta Anāhita ('Αναΐτισ), che i Greci identificarono con Artemide. Questo culto raggiunse grande rinomanza e diffusione specialmente per opera di Artaserse II. La dea Anāhita era venerata anch'essa come divinità fecondatrice; e, quale protettrice della fecondità muliebre, era servita nel culto dalle ierodule e onorata col rito della sacra prostituzione.
Bibl.: L. Preller, Griechische Mythologie, 4ª ed. di C. Robert, I, Lipsia 1887, pp. 296-335; Schreiber, art. Artemis, in Roscher, Ausführliches Lexicon für griech. u. röm. Mythologie, I, Lipsia 1884-1890, pp. 558-594; Wernicke, art. Artemis, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, coll. 1336-1412; O. Gruppe, Griech. Mythol. u. Religionsgesch., II, Monaco 1906, p. 1265 segg.
Iconografia. - Fin dai suoi primordî l'arte classica rappresentò A., ma non ne creò, come potrebbe credersi, un "ideale" unico e tipico, determinato e distinto da caratteristiche fisse e, cioè, suscettibile di modificarsi soltanto per effetto della generale evoluzione artistica: alla dea, invece, furono prestati culti sostanzialmente diversi fra loro, ed è ovvio che, variando il carattere della divinità, varia anche l'aspetto che la fede popolare le attribuisce e cui l'artista dà forma, ne variano gli atteggiamenti e gli attributi. Nelle rappresentazioni figurate si rispecchia dunque la molteplicità della natura di A., concepita ora quale vergine cacciatrice, impetuosa amante delle solitudini agresti, ora protettrice della flora e della fauna e quindi della fecondità o dei parti o dei neonati, ora dispensatrice di vita e di luce, ora in relazione con divinità dell'oltretomba, ora presiedente con Apollo alle arti, ora audace combattente contro i Giganti, ora partecipe d'imprese apollinee (strage de' Niobidi, ratto del tripode, ecc.). In conseguenza è qui inerme, lì armata di arco, faretra e frecce o di lancia o d'ascia, qui impugna una lunga face o regge una patera, lì suona la cetra, qui stringe amorosamente al seno una bestiola, lì si avventa feroce contro la preda della caccia; e, mentre a volte il suo vestito si uniforma alla foggia dell'età in cui fu creato il simulacro, conferendole aspetto grave e severo, altre volte indossa il breve chitone della cacciatrice e porta gli alti calzari o è addirittura ricinta da una pelle ferina; ora ha sul capo il polos, altrove il diadema, altrove i suoi riccioli sono trattenuti da bende o stretti nella cuffia. Le primitive immagin, che risalgono ad età antichissima, risentono l'influsso orientale. Già nell'arte preellenica esiste una divinità armata di arco, faretra e corta spada (intaglio nel Museo di Berlino, Furtwängler, Ant. Gemmen, tav. II, n. 24), Britomartis-Dictynna, la quale, verosimilmente identificandosi con altre divinità analoghe della civiltà cretese-micenea a loro volta derivate da culti asiatici, era per sincretismo considerata vergine e protettrice della maternità, cacciatrice e signora di belve e costituì il prototipo da cui fu derivata l'A. ellenica. In una pittura vascolare beota del sec. VIII a. C.A. inerme è fiancheggiata da leoni e uccelli, ha una protome taurina sotto il braccio destro ed un pesce sul vestito; e, più spesso alata, dominatrice di bestie diverse (leoni, pantere, capre, uccelli, ecc.), che trattiene per le zampe o la coda oppure afferra per il collo, appare in monumenti figurati diversi dei secoli VIII e VII e nella ceramografia sino a quasi tutto il VI, immutata meno che nei particolari artistici dovuti ai più perfetti mezzi d'espressione. E se la provenienza e lo stile delle opere che riproducono questo tipo di A. detta Taurica o Persica o πότνια, ne attestano la generale diffusione nel mondo greco (sulla celebre arca istoriata, che il tiranno Cipselo di Corinto dedicò in Olimpia, A. figurava alata in atto di ghermire un leone e una pantera, quale più o meno appare sulla coeva lamina di bronzo sbalzato da Olimpia, fig.1), pure esso fu oggetto di speciale culto in taluni santuarî (Efeso, Sparta, Corfù). Una minuscola lastra d'avorio intagliato venuta alla luce negli scavi inglesi al tempio spartano di A. Orthia, riproduce probabilmente il simulacro stesso del culto nel sec. VII (fig. 2): non già la dea taurica, ma un idolo rude mancante d'attributi e privo affatto di grazia e bellezza nella sua legnosa rigidità, che del ceppo sgrossato ha pur tutti i caratteri, e nei tratti del volto esagerati e come tumidi; un po' goffo, anzi, e impacciato per l'erto polos e il chitone stretto alla vita, nelle cui minuzie si è compiaciuto d'indugiare il primitivo artefice, non capace di rappresentare il movimento. Ed è pur questo un prezioso documento per la conoscenza di una di quelle opere del più alto arcaismo, cosiddette dedaliche, delle quali ricorrono numerose quanto vaghe menzioni negli scrittori antichi; mentre di tali vetusti idoli (fig. 3), venerati fino a tarda epoca e spesso circonfusi di pie leggende per essersi perduto nelle nebbie del mito il ricordo della loro origine, e dei loro autori, spesso non sopravvive più che il nome vago e per noi privo di significato. Così si si diceva caduto dal cielo l'idolo antichissimo di A. Efesia, πολύμαστος o multimammia, che appunto per tale credenza mantenne, in onta all'evoluzione artistica, il carattere di xoanon anche nelle riproduzioni rielaborate dei periodi più tardi: era, più che un simulacro antropomorfico, un cilindro di legno nero, con parti aggiunte di avorio e d'oro, rastremato in basso e differenziato in forma umana soltanto nella metà superiore del corpo; divinità della natura, della fecondità di animali e piante, materializzava concetti più asiatici che ellenici ed era adorna di elementi simbolici, animaleschi e mostruosi. Anche l'ateniese Endeo (fine del sec. VI a. C.) scolpì un'immagine della dea efesia e, più tardi, la riprodusse in un dipinto Timarete, figlia di Micone; a noi restano, oltre alle riproduzioni in pitture, gemme e monete, tarde repliche statuarie, inevitabilmente alterate nei tratti del viso e negli accessorî naturalistici, ma tuttavia fedeli nel ripetere le tipiche linee tradizionali, imitando fin la policromia dell'originale crisoelefantino con l'uso di materiali diversi: di queste la migliore, eseguita in età imperiale romana, è nel Museo Nazionale di Napoli (tav. cxxxix; Guida Ruesch, n. 665). E come i Greci della Ionia adottarono l'idolo orientale della dea Ma, impersonando in esso la loro A., e presto ne trapiantarono l'immagine ed il culto nelle isole e fin nella madre patria continentale, così la stessa "gran dea efesia" fu accolta anche in celebri santuarî romani e venerata sotto immutata specie come Diana Nemorense e sull'Aventino. Ma già all'alba del sec. VI appare la greca A. immune da ibridi contatti con barbariche divinità dell'Asia e caratterizzata da precisi attributi, quali l'arco e la faretra o la face (figura 4). A prescindere da monumenti di minor conto, tale aspetto è meglio esemplificato da una mirabile scultura del maturo e raffinato arcaismo (inizî del sec. V), che conosciamo per tre repliche statuarie di età romana, una pittura murale romana ed incisioni monetali augustee, ciò che vale ad attestare la celebrità dell'originale; più completa è la copia del Museo Nazionale di Napoli (tav. cxxxx; Guida Ruesch, n. 106), malgrado le dimensioni ridotte e le alterazioni stilistiche introdotte dal copista, che, pure imitando, modificava il modello in base alle sue conoscenze della natura. La dea, vestita di chitone ionico e di ricco peplo addoppiato, ha sul capo un diadema adorno di rosette a rilievo; porta a tracolla il balteo con la faretra sospesa dietro le spalle e, mentre si avanza lestamente, solleva con la destra un lembo della veste; nella sinistra protesa reggeva l'arco: in questa agile figura, dotata già di grazia, se pur non scevra ancora di certa leziosità convenzionale nel gesto e nella posa, si è voluto riconoscere il simulacro crisoelefantino creato dagli scultori Menecmo e Soida di Naupatto per il tempio di Calidone (460 a. C.), che, donato ad Augusto, fu portato per alcuni anni a Roma sul finire del sec. I a. C. Tipi stilisticamente non dissimili ricompaiono con speciale frequenza nei rilievi arcaistici e neo-attici, che son dovuti agli ultimi scultori lavoranti più spesso a Roma, i quali, non più dotati d'ispirazione né di stile personale, riproducevano artificiosamente opere dell'estremo arcaismo: tale è, nei rilievi con la triade delfica (Apollo, A. e Latona) e la Vittoria, l'A. che regge la fiaccola e porta imbracciato l'arco come semplice attributo, poiché si vuole alludere alla sua natura di Letoide protettrice delle arti in questi rilievi, il cui originale era l'offerta votiva di un corego vincitore in gare liriche o drammatiche; tale l'A. cacciatrice che trae per la zampa un cerbiatto, scolpita dall'ateniese Sosibio sulla sua grandiosa anfora marmorea ora a Parigi; e gli esempî potrebbero moltiplicarsi. L'evoluzione ulteriore del tipo artistico della dea cacciatrice vestita di lungo chitone, però dorico, con kolpos, armata di arco e faretra o di fiaccola, in atto di avanzare velocemente, ci è mostrata da una creazione plastica della fine del sec. V, che dové certo godere di gran fama a giudicare dal numero delle repliche (la più nota, già Colonna, è ora nel Museo di Berlino: Beschreibung n. 59, un'altra al Museo Nazionale Romano) e delle varianti superstiti: non più gesti convenzionali, né compassata stilizzazione di rigide piegoline, né volto insulso per lo stereotipato sorriso, ma libertà di movimenti ed efficacia di realtà nel panneggio e vivacità di espressione dimostrano con qual diverso successo l'arte matura riesca a trattare lo stesso tema. Altrettanto copiato e, quanto al vestito, analogo, benché statico e di età posteriore (sec. IV), è il tipo meglio noto da una statua del Museo di Dresda (Hettner, n. 279). che rappresenta la dea con la destra levata verso la faretra e l'arco nella sinistra. Intanto la pittura vascolare, che per la sua ricchezza costituisce una tradizione meno discontinua, permette di seguire tutte le fasi di tale sviluppo (fig. 5), mentre è da osservarsi che la grande arte plastica del sec. V poco contribuì a fissare o evolvere l'ideale di A., la cui figura emerge invece nel secolo successivo fra le altre divinità giovanili dell'Olimpo, e con queste è prediletta nell'età ellenistica. Giovino in tal senso gli esempî della metope selinuntina col mito d'Atteone, della colossale statua scoperta di recente ad Ariccia (ora nel Museo Nazionale Romano), che nella sua severa ed imponente grandiosità manca di ogni carattere tipico, al segno che altri la ritengono piuttosto Kore, di una statua attica della metà del sec. V, la cui replica più integra nella villa Albani (Helbig, Führer, n. 1933) è identificabile solo pel cerbiatto che regge sul braccio sinistro (la mano destra si appoggiava alla lancia o ad una lunga fiaccola); fra le divinità del fregio fidiaco della cella del Partenone (lato orientale) si dubita se riconoscere A. in una figura vestita di ampio chitone e manto, la quale tiene nella sinistra una fiaccola (forse piuttosto Demetra), oppure in altra non caratterizzata da attributi e le cui chiome sono racchiuse nel κεκρύϕαλος (da taluni ritenuta Peithò): ambedue hanno una certa gravità matronale; nel fregio del tempio di Basse (Arcadia) A. appare col chitone cintato a croce sui seni nell'atto di condurre, priva d'attributi, i cervi del carro suo e di Apollo. Si è pensato per altro che nel rilievo del Partenone sia rappresentata l'A. Brauronia, cui era dedicato un santuario sull'acropoli di Atene; era questo un culto di origine vetusta, che si ricollegava nella tradizione religiosa all'idolo della dea custodito da Ifigenia in Tauride e da Oreste riportato nel demo attico di Brauron; e poiché l'A. Tauropolos nel Chersoneso era considerata Lucifera, l'Artemide Brauronia fu assimilata a Selene e per tale sua connessione con le fasi lunari venerata quale protettrice dei parti. Sappiamo di un primitivo simulacro della dea nel santuario ateniese e di uno marmoreo posteriore ed infine di uno, stante, opera di Prassitele (345 a. C.), del quale seduce il ritener copia un marmo del Museo del Louvre (da Gabii, tav. CXXXIX, 8): la fresca e spigliata figura di adolescente che indossa un molle chitone, rialzato alla cintola sì da raggiungere appena il ginocchio, si affibbia sulla spalla destra la clamide diploide: tenue azione di genere, ben adatta alla dea che si appresta alle sue abituali imprese di caccia e simbolicamente allusiva alle vesti, che spose e puerpere ateniesi solevano offrire in dono all'idolo, la luminosa vivacità del volto, la soave armonia della posa, l'abilità tecnica dell'esecuzione conferiscono specialissimo fascino a questa scultura, che pei suoi caratteri stilistici può attribuirsi, nell'originale, a Prassitele, benché da alcuni sia riferita ai suoi seguaci. Ma accanto al tipo con lunga veste già da tempo coesisteva quello amazzonio con corto chitonisco, che da prima troviamo nella ceramografia e menzionato nella tradizione letteraria (celebre di questo genere era l'A. Soteira di Stronghilione, riprodotta anche su monete della Megaride) e che si fissa e si precisa nel secolo IV, persistendo come prediletto nell'arte posteriore: assimilata alla tracia Bendis, ecco A. con breve chitone ricinto dalla nebride sui fianchi e sul busto, con l'himation ravvolto sul braccio, gli alti calzari e spesso col berretto frigio, armata di lancia, affiancata non di rado dal cane (p. es. Berlino, Beschreibung, numero 62); eccola silvestre divinità della natura feconda in chitonisco slacciato, sì da rivelare il seno, a reggere una bestiola nella nebride sciattamente annodata (Dresda; Hettner, n. 148); ecco infine l'immagine più tipica della cacciatrice concitata. Basti ricordare la vivace e slanciata figura del Museo del Louvre (detta A. di Versailles, tavola CXL), che, vestita di doppio chitonisco cinto in vita dal manto ritorto, avanza con moto violento, tenendo nella sinistra l'arco (il restauro ha falsato il gesto) e cavando con l'altra una saetta dalla faretra; il cane è stato sostituito presso A. dal cervo, altro animale a lei sacro: l'immagine si è voluta far risalire ad un originale attico di Leocare o Eufranore (sec. IV); comunque sia, essa fu imitata e variata nell'età ellenistica, poiché ricompare in ogni classe di monumenti (per esempio, un rilievo antoniniano da originale ellenistico nel Museo Mussolini in Campidoglio: Helbig, Führer, n. 1013, dove A. appare alata con le chiome al vento), talvolta in repliche statuarie, complicate dal gruppo accessorio di un cane che azzanna un cerbiatto atterrato (Dresda: Hettner, n. 177; Napoli: Ruesch, n. 239 ecc.) Nel grandioso fregio dell'ara di Pergamo A. combatte contro un Gigante, avventandosi con foga impetuosa e scoccando una freccia dall'arco, ma il suo aspetto non differisce troppo da quello già descritto, anche se reso con la prodigiosa maestria e l'efficace verismo dell'arte più perfetta (sec. II a. C.). Né mutano le sue precipue caratteristiche tipologiche in una figura statica, le cui linee ci sono state tramandate, oltre che da alcune copie plastiche (p. es. nel Museo Chiaramonti in Vaticano: Helbig, Führer, n. 67), da riproduzioni su monete e lucerne fittili romane, e che fu creata verosimilmente dal messenio Damofonte sull'inizio del sec. II a. C. come simulacro di A. Laphria per Patrasso e forse anche per Messene: di proporzioni esili e slanciate nel breve chitone, la dea, che ha daccanto il cane, appoggia sul fianco la destra, reggendo nella sinistra l'arco e, come per momentaneo riposo, abbandona mollemente il corpo flessuoso. Affatto diversa invece, per lo spirito cui s'informava, era un'altra A. colossale, scolpita dallo stesso Damofonte pel tempio di Despoina a Lykosura in Arcadia: stante, in abito di cacciatrice, presso il trono di Demetra, la dea, pur fresca e giovanile nell'aspetto, reggeva in una mano una torcia, due serpenti nell'altra ed aveva ai suoi piedi un cane; le parti, per sventura oggi frammentarie, delle figure costituenti il maestoso gruppo sono tuttavia interessantissime così dal punto di vista stilistico - per quanto rivelano dell'arte di questo tardo scultore - come da quello tipologico e religioso. Prevale, dunque, dal sec. IV in poi la rappresentazione della snella cacciatrice, il cui aspetto, non più soprannaturale né divino, ma idealmente umano, conciliava i gusti e le tendenze artistiche dell'ellenismo, dando modo agli scultori, ben edotti d'ogni espediente tecnico, di esercitare il loro virtuosismo nel rendimento così delle agili membra come delle stoffe, crespe e diafane nel chitonisco, nel mantello grevi e cadenti, o agitate dal vento in arditi svolazzi.
Molte sono le figurazioni mitologiche, in rilievi e in pitture vascolari, in cui A. compare; alla lotta contro i Giganti, alla quale essa partecipa armata talvolta dell'arco talvolta delle faci, si è già accennato; normale è la sua presenza nella strage dei Niobidi, che A. insieme con Apollo, colpisce con le sue frecce; altra scena molto frequente è quella della punizione di Atteone.
Bibl.: Da consultarsi principalmente gli art. Diana di P. Paris, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq., II, Parigi 1892; Artemis di A. Baumeister, in A. Baumeister, Denkm. d. klass. Altert., I, Monaco e Lipsia 1884; id., di Th. Schreiber, in Roscher, Lex. d. griech. u. röm. Mytologie, I, Lipsia 1884-86; id. di K. Wernicke, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., II, Stoccarda 1896, (senza fig.). Inoltre: D. Le Lasseur, Les déesses armées, Parigi 1919 (specialmente per le rappresentazioni primitive e i rapporti con l'Oriente). Nel testo si sono dati tra parentesi i nn. di catal.: le cit. abbreviate si riferiscono: per Napoli alla Guida illustr. del Museo Naz., composta da varî per cura di A. Ruesch, I, Antichità, 2ª ed., Napoli 1911 (con bibl.); per Roma a W. Helbig, Führer durch die öffentl. Sammlungen klass. Altert., 3ª ed., rifatta da Amelung, reisch, Weege, voll. 2, Lipsia 1912-13 (con ampia bibl. e molte notizie); per Berlino alla Beschreibung d. antik. Skulpturen, Berlino 1891; per Dresda a H. Hettner, Die Bildwerke d. Königl. Antikensamml., 2ª ediz., Dresda 1869. Per A. Orthia, v. gli art. di R. M. Dawkins, in Annual of the British School at Athens, XIII-XVI (1906-10); per l'A. Laphria arcaica e quella tarda, C. Anti, in Annuario della R. Scuola archeol. di Atene, II (1916), p. 161 segg.; pei rilievi arcaistici, oltre ai lessici cit., E. Loewy, Neuattische Kunst, Lipsia 1922, fig. 23 seg. (bibl.); pel tipo Colonna, bibl. in Helbig, n. 29; per l'A. di Dresda, W. Klein, Praxiteles, Lipsia 1898, p. 307 seg., fig. 55; per una rielaborazione del tipo, H. Brunn-F. Bruckmann, Denkm. griech. u. römischen Skulptur, tav. 123, cfr. anche Helbig, n. 1557; per la statua di Ariccia, da ultimo E. Pfuhl, in Jahrb. d. Archaeol. Inst., XLI (1926), p. 1 segg.; per l'A. di Versailles, W. Amelung, in Revue archéol., II (1904), p. 2 segg.; per l'A. di Gabii, W. Klein, op. cit.; H. Brunn-F. Bruckmann, tav. 59; pel gruppo di Lykosura, G. Dickins, in Annual, XIII (1906-07), p. 357 segg., tav. XII s.; per altre rappr. del tipo amazzonio, G. Calza, in Ausonia, X (1921), p. 160 segg.