Vedi SARDA, Arte dell'anno: 1966 - 1997
SARDA, Arte (v. vol . II, p. 40)
Un disegno di volto umano sull'ansa d'un vaso del Neolitico Antico dalla grotta Verde di Alghero (circa 6000 a.C.) costituisce la prima testimonianza, per quanto oggi si conosce, di arte preistorica in Sardegna. Due millenni dopo, nel Neolitico Medio e nella facies detta di Bonuighinu-Mara, le espressioni d'arte o forse meglio d'artigianato artistico si fanno più frequenti e significative. Oltre ai semplici lavori che vedono la realizzazione di grotticelle artificiali, in questo periodo vengono lavorate per la grotta di Sa Ucca de su Tintirriolu piccole stele di pietra collocate dietro l'ingresso; si interpretano come idoli aniconici di esseri (0 di un essere) sotterranei cui si rende culto.
L'arte scultorea raggiunge già in questa fase un grado di notevole creatività nel foggiare oggetti in pietra. La tecnica litica si esprime al meglio nel lavoro d'una decina d'anelloni (armille, braccialetti e pendagli a seconda delle dimensioni), oggetti di prestigio o di potere personale largamente diffusi nell'Europa centro-occidentale e nel Vicino Oriente, dove forse bisogna individuarne il modello. Ancora più raffinati sono una mezza dozzina di vasi con piedi, coppe e piatti, in marmo e pietra, di perfetto taglio e abbelliti da motivi lineari; due esemplari da Bingia Béccia e Ludosu sono decorati con teste animalesche rese con stile geometrico. Sono manufatti per lo più di produzione locale, imitati da prototipi egeo-elladici e del Vicino Oriente, dove appaiono sin dal VI millennio a.C. Ma il tocco più fine lo mostrano una ventina di idoli in varie pietre locali (tranne uno in alabastro) provenienti per la maggior parte da tombe ipogeiche, alcuni da abitati e uno da una grotta sacra (S'adde-Macomèr). Alte tra i 7 e 18 cm, le figurine sono caratterizzate da uno stile volumetrico, a masse tondeggianti che esplicano l'ideale d'un essere «carnoso», simbolo di abbondanza e di prosperità. Lo stereotipo prevalente è quello d'una figura stante con le mani distese lungo i fianchi sino a toccare le cosce; a parte sta un idoletto di Su Monte che mostra la mano sinistra ripiegata sull'addome. Si nota anche il tipo in posizione seduta (Su Cungiàu de Marcu, Decimoputzu) con le mani piegate al petto come se volessero raggiungere il seno indicato da cerchietti incisi; a differenza di tutte le altre la statuina ha rappresentati i piedi. I disegni dei particolari anatomici e della decorazione sono precisi e rigorosi ma tenui nel tratto, così da non diminuire il prorompente volume del corpo che indica la sessualità femminile elevata a valore sacro. Un defunto d'un ipogeo di Cùccuru s'arrìu stringeva un idolino in una mano, ricavandone nello stesso tempo protezione e possibilità di rigenerarsi oltre la morte. L'insieme di queste statuine «obese» dal fisico idealizzato e funzionale in quanto simbolizzava e magicamente evocava l'abbondanza della natura, trova rispondenze tipologica e stilistica in esemplari del mondo elladico e tessalico e di Malta, più o meno contemporanei.
Accanto agli idoletti di collocazione più propriamente funeraria si trova una scultura in granito da Sa Màndara-Samassi di medie dimensioni (alt. cm 41,9) che fanno pensare a un idolo di culto. La forma è quella d'un idolo-bètilo, la cui testa, di stile «rotondo» come nelle statuine precedenti, mostra una zona di capelli che scendono a parrucca sulla nuca; nel viso è scolpito il segno a Ô (arcata sopraccigliare e naso) e due puntini esprimono gli occhi. Il corpo, ricavato in un blocco ovale liscio nella parte inferiore, sotto il collo cinto da un collarino, è variato dal disegno d'una cintura decorata con motivo di zig-zag in sequenza.
Sono possibili confronti con idoli di Arnesano-Lecce e della Tessaglia. Tra gli idoli «obesi», ma con impronta «naturalistica», rientra la «Venere» di Macómèr, una statuina di basalto (alt. cm 14) contraddistinta da una forte accentuazione del seno e dei glutei, ossia dall'erotismo proprio delle «venerette» paleolitiche; la testa prende un aspetto quasi animalesco.
La cultura di Bonuighinu conosce anche l'artigianato artistico, fittile e ceramico. Nella plastica in terracotta i ceramisti realizzano figurine del tipo «obeso», aventi stesse caratteristiche e uguale significato simbolico e sacro di quelle in pietra, nelle forme eretta (Polu, Meana), seduta (Conca Illonis, Cabras) e accosciata, forse in atto di partorire (Cùccuru s'arrìu). Ritornano i riscontri con plastiche del mondo elladico, tessalico e del Vicino Oriente. Le ceramiche, di buona fattura in genere e di perfetta finitura quelle di lusso per mensa e rituali, dimostrano gusto artistico, sia nell'aspetto formale sia soprattutto in quello dell'ornato, ottenuto con tecniche diverse e con finezza puntigliosa. Il decoro si segnala per la fantasia, la scelta dei temi e il rigore geometrico nel comporli, già quando i vasi (olle globulari, ciotole emisferiche e carenate) accolgono motivi lineari (scacchiera, serie di triangoli, festoni, zig-zag, cerchi concentrici, rombi), ottenuti a punteggio, tratteggi e graffito. Ma il tono estetico sale specie in alcune forme vascolari (da grotta Rifugio, Oliena; grotta del Bagno, Cagliari; Puisteris, Mògore; Tatinu, Santadi) nelle quali si realizzano, insieme a quelle lineari, composizioni figurative di animali (ariete, bue) e antropomorfe che richiamano la divinità femminile.
Una elegantissima spatola con testa ornata da una schematica faccina umana da Sa Ucca e tre minuscoli idoli dalla grotta di Monte Meana-Santadi ripetono soggetto e forma delle statuine di pietra stanti col polos, ma in uno stile che dal «rotondo» sfuma verso quello «planare» della successiva cultura di Ozieri ai suoi primordi. È nei lunghi tempi di questa cultura, che occupa l'età del Neolitico Recente (3300-2500 a.C. circa), che l'arte raggiunge il suo acme.
Nell'architettura si realizzano le prime forme del megalitismo: dolmen e allées couvertes. Ma la maggiore attività la producono corporazioni di artigiani che, spostandosi in quasi tutta l'isola, mettono il loro estro al servizio dell'architettura sotterranea, scavando le varie roccie per costruirvi grotticelle destinate a tombe singole e familiari, quando non comunitarie (le «domus de janas», «case di fate» per la leggenda popolare).
E notevole l'arte degli scalpellini nel definire la forma e l'assetto dispositivo e compositivo dei vani sepolcrali e cerimoniali, con tendenza a delimitarli in quadro, in cerchio e in semicerchio a seconda delle varie maestranze e del gusto dell'epoca durata poco più di quattrocento anni, ma tenendo sempre fermo il concetto escatologico di riprodurre nella casa del morto quella del vivo proiettata nell'eternità.
Se tale ideologia la si intuisce negli ipogei più semplici a cominciare da quelli monocellulari, diventa di chiara evidenza nelle tombe architettonicamente elaborate e complesse per numero e qualità di vani come, p.es., nella grotticella detta «Tomba del Capo», del gruppo di 20 «domus de janas», in località S. Andrea Priu-Bonorva, con ben 18 ambienti elegantemente scolpiti. In questo come in altri sepolcri del tipo «palaziale» (S. Pedru-Alghero, Noeddale e tomba II di Mesu 'e montes-Ossi, OreddaSassari) della casa vengono imitati nella roccia tetti conici e a doppio spiovente con la trama di travi, pilastri, lesene e cornici, porte e finestrelle aperte e finte, pavimenti con focolari e altri elementi, indicativi della vita umana concepita in un continuum di reale e metafisico.
Completa l'arredo architettonico l'addobbo ornamentale-simbolico nel quale abili decoratori, scultori e pittori impegnano il meglio delle loro qualità artistiche. Su pareti, pilastri, portelli, porte finte (che significano l'oltretomba), nello stesso soffitto risaltano, evocando simboli e immagini del sacro a protezione e come rigenerazione dei defunti, segni lineari e figurazioni in bassorilievo, incisi e dipinti. La tematica è costituita da spirali semplice e doppia, aperta e chiusa, talvolta a coppie sovrapposte legate da un elemento verticale, da zig-zag, scudi, cerchi ed ellissi, da clessidre che alludono all'idolo femminile e soprattutto da schemi di protomi e di corna bovine, ora di profilo naturalistico (curvilineo), ora di taglio rigidamente geometrico e astratto (ortogonale); più remoti i primi, di epoche successive - Subneolitico e anche Eneolitico - i secondi. Di grande interesse è, nell'ipogeo di Littoslongos-Ossi, il procedere dall'esterno verso l'interno dello schema taurino (che vuole significare la divinità maschile rappresentata in quadruplice, triplice e doppio elemento corniforme sovrapposto), collocato al di sopra dei portelli dei singoli vani quasi a guardia della tomba e come soggetto sacro della stessa. Sono di particolare interesse anche i disegni delle tombe dipinte (settantaquattro allo stato attuale): fra tutte spicca quella di Mandra Antine, Thiesi. È un vero capolavoro pittorico per la gamma dei colori usati nel ravvivare gli schemi taurini da cui pendono oscilla sopra la porta finta e nell'affresco del soffitto con spirali, comete e semicerchi.
L'ideale femminile schematico dipinto in questo ipogeo come quelli scolpiti nelle grotticelle di Littoslongos e di Montessu, Villa Perùccio, portano il discorso su consimili statuette in marmo e altro materiale litico per le quali gli scultori del Neolitico Recente e del Subneolitico-Eneolitico sperimentarono al massimo il loro genio artistico. Si tratta d'una cinquantina di piccole sculture rappresentanti la Dea Madre, la metà rinvenute in ipogei, le restanti in caverne naturali, in capanne ed edicole dei villaggi e come corredo votivo del santuario megalitico di Monte d'Accoddi, Sassari. Tutte convergono verso un tipo iconico stante, frontale, con le braccia ripiegate sotto il seno, all'altezza della stretta vita a cui aderiscono formando un angolo retto. È lo schema dell'idolo «cicladico» diffuso in tutto il Mediterraneo col culto della «dea nuda». Nudo è infatti il corpo delle figurine, condensato in una formula geometrica astratta, talvolta vivacizzata dal colore rosso. I segni fisionomici si riducono al naso, che bipartisce simmetricamente la figura, e talora agli occhi. Si distinguono due tipi: uno col busto «planare» compatto, l'altro con la placca del busto traforata cosicché le braccia appaiono disarticolate dal petto.
Il secondo tipo è numericamente il triplo del primo, al quale appartiene, esemplare di grande equilibrio geometrico, la statuetta marmorea (alt. cm 42,2) di Turrìga-Senorbì. Un elaborato esempio del tipo a placca traforata è il maggiore del gruppo di statuine (alt. cm 30) dall'ipogeo di Porto Ferro, Alghero. Comparazioni degli idoli sardi con quelli cicladici (ma non mancano richiami anche a statuette di Creta, del continente greco, della Romania e dell'Anatolia) consentono di vederli prodotti in corrispondenza al graduale succedersi delle serie delle Cicladi. Ci si riferisce al percorso cronologico dal tipo «Louros», fase Grotta-Pelos (Antico Cicladico I: c.a 2700 a.C.), al tipo «canonico» di prima e tarda maniera Spedos (Antico Cicladico II) sino alla fine della fase Keros-Syros (24002300), per terminare con gli idoli dalla maniera Dokathismata e «post-canonica» dell'Antico Cicladico II-III (fase Filakopì I: 2400/2300-2100 a.C.). Per seicento anni gli artigiani delle culture di Ozieri e di Abealzu-Filigosa si sono applicati a scolpire le immagini della Dea Madre, passando dalla concezione naturalistica dell'idolo «obeso» a quella metafisica e spiritualizzata dell'idolo «schematico».
Nella stessa epoca altri artigiani lavoravano alla scultura a grandi dimensioni, legati alla concezione (per taluni religiosa) del megalitismo, senza però raggiungere la finezza della piccola plastica litica. Vengono tagliati ora rozzamente, ora con cura, menhir aniconici e sub-antropomorfi, questi ultimi in non pochi casi segnati da tratti fisionomici elementari (p.es. un menhir di Corte Semmucu, Gùspini), e da serie di coppelle sovrapposte sull'asse di lunghezza del monolito bipartendolo simmetricamente (Perda Fitta, Serramanna; Su Furconi de Luxìa Arrabiosa, Pompu), e sparse irregolarmente sulla superficie in almeno tredici pietre. Si tratta di monumenti fatti oggetto di culto (fallico, solare, ecc.) e di natura funeraria quando si associano a tombe, megalitiche o meno, come nello spettacoloso complesso di Pranu Muttedu, Goni. Qui oltre sessanta pietre fitte convergono in due allineamenti verso una tomba dal perimetro rotondo in costruzione a secco con padiglione d'ingresso e celle sepolcrali scolpite finemente in blocchi separati di roccia al modo delle grotticelle artificiali, integrate da un muretto di medie e piccole pietre (una sorta di mausoleo principesco preceduto da un'ampia area cerimoniale in cerchio). Altri menhir fronteggiano e circondano sepolture minori a peristalite circolare contenente una o più camerette tondeggianti composte a filaretto e con copertura a falsa volta. Il tutto forma un disegno architettonico e simbolico correlato a uno spazio sacro-funerario altamente evocativo e di intensa suggestione come l'ambiente naturale che lo circonda.
Gli artigiani dei menhir hanno intagliato le pietre foggiandole anche in forma di stele di grandi e medie dimensioni, di profilo ogivale, variate da coppelle (S. Michele, Fonni; Sos Séttiles, Oniferi) o plurimammellate (in ipogeo di Serra is aràus, S. Vero Milis) e di aspetto antropomorfo femminile espresso dagli essenziali segni del naso a forte listello e dalle mammelle (Ganna Arrele VII, Làconi). A loro si deve inoltre la scultura di pietre-altari tondeggianti, forniti di profonde e capaci couvettes per libagioni, nel contorno (S. Maria Navarrese, Baunéi) o di microcoppelle forse di significato astrale (Nurtài, Tortoli).
Il fertile terreno civile della cultura di Ozieri spinge figuli e vasai a emulare gli artigiani della pietra. Una trentina di idoletti in argilla più o meno depurata, a parte alcuni che si rifanno a prototipi balcanici e peninsulari italiani (Gonagòsula-Olìena, Binza Manna-Ploaghe, S. Basilio-Ollolài), ne ripetono per lo più il repertorio formale e stilistico di ispirazione prevalentemente cicladica e il percorso cronologico delle statuette femminili litiche. I territori che ne hanno restituito in maggior numero sono quelli di Oristano e Logudoro (Mara di Cabuabbas), ma in minore quantità provengono anche dal Sulcis, dalla Barbagia e dal Sassarese. La provenienza da zone ad agricoltura avanzata sta a indicare che è stata soprattutto la cultura contadina a sollecitare la produzione. Tutti i pezzi ritrovati rappresentano la Dea Madre in posizione eretta, tranne una figura da Gribàia, accosciata come gli idoletti del Kurdistan. La massima parte è (o appare) figurata nuda, se si eccettuano due idoletti, uno, intero, da Cùccuru s'arrìu, vestito di corsetto scollato, e l'altro da Conca Illonis di cui rimane l'estremità inferiore del corpo coperta da un gonnellino a pieghe. Una statuina da Sa Ucca è abbellita da una collana che scende dal collo tra le vistose mammelle. Da Cùccuru, S'arrieddu e Conca Illonis provengono tre idoletti maschili, stilisticamente simili a quelli femminili: in uno è in evidenza il pube a bottone, coperto negli altri da uno spesso panno ritorto intorno ai lombi. L'emergere della figura maschile accanto alla dominante presenza della donna, è un annunzio di tempi che cambiano verso una società in cui l'uomo prende il sopravvento simbolico e di fatto (i tempi appunto del primo Eneolitico).
Ai ceramisti e ai ceramografi del Neolitico Recente si devono le più belle e fantasiose stoviglie di tutti i periodi della preistoria sarda. Soprattutto nei pezzi rifiniti a stralucido nero e rosso essi hanno composto con equilibrio geometrico, adattando la decorazione all'architettura vascolare, un tessuto vario, spesso ricco di movimento (gusto «curvilineo» talvolta «baroccheggiante»), di temi lineari, vegetali e antropomorfi. In tazze di uso domestico o cultuale da Cùccuru, Serra is aràus, Serrùgiu, Sa Ucca, Monte d'Accoddi, sono incise finemente silhouettes femminili dal corpo schematicissimo a «clessidra» e con abito formato da giacca e gonna scampanata e trapunta. Mostrano la testa sunteggiata in un cerchio semplice o radiato o in un triangolo, i capelli irti e scarmigliati all'indietro, collo, mani e piedi filiformi. Le braccia con mani aperte e dita divaricate si levano in alto in atteggiamento di preghiera (o di epifania), o sostengono un grande disco. Le figurine, che richiamano schemi incisi e dipinti su ceramiche neolitiche dell'area balcanico-danubiana, di Malta e delle Cicladi, si dispongono in sequenza, isolate oppure unite per le mani come se danzassero in un coro cerimoniale (piatto di Monte d'Accoddi). Il senso compositivo della scena rispecchia la realtà di un'azione collettiva rituale.
Lo spirito dell'età eneolitica (2500-1800 a.C. circa) manifesta una svolta culturale e storica. Si afferma una struttura sociale originale sul modello del chiefdom. La lunga e pacifica stagione neolitica nella quale si era stabilito un rapporto privilegiato tra la donna e l'ambiente (e la dea femminile lo sottolineava) si trasforma in un'epoca conflittuale a dominio maschile: l'arte riflette necessariamente il mutamento.
A parte l'interesse nuovo per l'architettura militare (recinti fortificati di Monte Baranta-Olmedo e di Monte Ossoni) e il più ampio impegno nel megalitismo funerario (allées couvertes e prime tombe di giganti), sono soprattutto i prodotti artistici scultorei e pittorici che esplicano visivamente la nuova società. Nel più remoto momento dell'Eneolitico (aspetto culturale di AbealzuFiligosa) scultori al servizio dei capi li raffigurano nelle sembianze di prestigiosi antenati-eroi, in grandi statuemenhir litiche, collocate in prossimità dei mausolei megalitici. Una cinquantina di tali immagini, alte da 1,30 a 2 m, sono state rinvenute nei territori di Làconi, Nurallào, Meana e Silanus, a prevalente economia pastorale. Sulla faccia anteriore spianata dei monoliti intagliati in forma ogivale sono scolpiti con la martellina tre particolari iconografici in rilievo: in alto lo schema di viso umano nel tradizionale segno a T, nel mezzo, occupando il più ampio spazio, un soggetto antropomorfo capovolto (simbolo degli Inferi) e un pugnale verso il basso. In una statua si osserva una sorta di elmo, in un'altra sono scavate cuppelle e un'altra ancora mostra il disegno d'una porta finta simboleggiante la regione sotterranea. I menhir figurati di Meana e Silanus anziché il pugnale recano la mazza manicata di guerra. Si tratta dunque di raffigurazioni di grandi personaggi armati cui non mancano i riscontri iconografici in analoghe società contemporanee in Corsica, Lunigiana, arco alpino, Mezzogiorno della Francia e altrove.
Lo stile asciutto e severo, di pure linee schematiche, osservato nelle statue-menhir armate, si ripresenta in soggetti e scene a base di antropomorfismo e in relazione al mondo funerario, scolpite o dipinte in ipogei e grotte naturali. Nelle grotticelle artificiali di Moseddu (Cherèmule) e di Sas Concas (Oniferi) sono rappresentati sulle pareti, a varia altezza, soggetti antropomorfi schematici maschili, isolati o magicamente intrecciati con forte movimento. I più sollevano le braccia nel gesto dell'orante, altri appaiono capovolti quasi fossero anime dei trapassati che discendono negli Inferi. Capovolti figurano anche nell'ipogeo n. 8 di Sos Furrighesos (Anela) e nel n. 6 di Ponte Secco (Sassari). Soggetti e stile filiforme collegano i Sardi a petroglifi delle regioni nelle quali sono di casa le statue-menhir armate o meno ed è presente il megalitismo. Alla stessa area di cultura artistica si riferiscono soggetti antropomorfi asessuati o meno, dal profilo corporeo «curvilineo» (quelli degli ipogei lo hanno rigidamente ortogonale), recentemente osservati in un anfratto di Luzzanas (Ozieri). Sinora costituiscono un unicum pittorico del genere. Insieme a motivi di cerchi concentrici ravvivano la volta della cavità, funeraria o di culto, eseguiti con ocra di tono cangiante dal ruggine al color marrone e al rosso cupo.
A partire dall'Eneolitico e per l'intero arco temporale del Bronzo Antico e Medio (aspetti culturali Bonnànnaro e Sub-Bonnànnaro: 1800-1300 a.C.) l'inclinazione artistica degli artigiani paleosardi va scemando in ogni settore sino a perdersi quasi del tutto. Concentrate nella costruzione di opere di controllo e di difesa del territorio isolano, suddiviso in cantoni tribali (pseudonuraghi, protonuraghi e nuraghi definiti) e monumenti sepolcrali di prestigio per i capi («tombe di giganti» con prospetto segnato nel mezzo da stele arcuata), privilegiando cioè l'architettura nel suo aspetto tecnico più che decorativo, le comunità si riducono, sul piano dell'arte, a poche espressioni figurative e simboliche essenziali. Segni sessuali maschili e femminili vengono scolpiti in bassorilievo nelle «tombe di giganti» e nei pressi sono collocati, ben rifiniti nella pietra basaltica, bètili conici fallici (nuraghe Corbos e Sa pedra longa, Silanus) o con mammelle (Santu Antine, Sédilo). Nel più antico dei «gigantinus» di Tamuli (Macomèr) i monoliti betilici lisci e mammellati figurano in tre coppie di sei pietre con la funzione di tradurre così l'iterazione ierogamica delle divinità paterna e materna che proteggono i morti e congiungendosi simbolicamente li rigenerano. In altre «tombe di giganti» i defunti sono custoditi da bètili troncoconici plurioculari (gli occhi sono indicati da numerose cavità intorno al sommo del masso elegantemente scolpito).
Il movimento culturale e il salto di produzione economica (potenziamento della metallurgia e della metallotecnica), avutisi nelle età successive del Bronzo Recente e Finale (1300-1100/1100-900 a.C.) risvegliano l'interesse e la pratica via via progressiva dell'attività artistica, che negli ultimi tempi si sviluppa intorno ai centri direzionali di corti aristocratiche e ai templi, possessori della ricchezza e organizzatori del tutto.
Già è arte applicata la grande architettura, progettata e sostenuta da conoscenze impiantistiche divulgate, che si esplica vistosamente, anche come segno di potere, nei monumentali nuraghi-castelli (Su Nuraxi, Barùmini; S. Antine, Torralba; Losa, Abbasanta; Orrùbiu, Orroli; Sa domu'e s'orku, Domusnovas). È sensibilità artistica insieme a perizia tecnica convenienti all'onore riservato ai defunti antenati, rivelano le «tombe di giganti» dell'epoca, caratterizzate dalla presenza nella facciata, perfettamente rifinita a conci squadrati come il resto del monumento, di un fregio a dentelli. Valga l'esempio della tomba n. 2 di Madau-Fonni, ora restaurata, nella quale la struttura sepolcrale è coronata da una sovrastruttura «a barca» tersa e ben ordinata a filari; ha un valore simbolico (la barca per il trasporto dei morti nell'aldilà) come simbolica è la figura di pianta del mausoleo in forma di protome taurina (segno del Dio Toro). Se poi si guarda ai pozzi sacri, soprattutto a quelli di recente fattura (S. Vittoria, Serri; Predio Canopoli, Pérfugas; S. Cristina, Paulilàtino), emerge la grande maestria, supportata da estro artistico, dei muratori-scalpellini. Di ritmo perfetto li definirono gli scrittori classici, paragonandoli alle thòloi micenee. Il pozzo di S. Cristina rappresenta il culmine dell'architettura dei templi delle acque. È così equilibrato nelle proporzioni, sofisticato nei politi paramenti dell'interno (nitida la parabola della tromba, studiata nella composizione geometrica delle membrature), così razionale da non credere, a prima vista, che sia opera vicina al 1000 a.C. È che l'abbia espressa l'arte nuragica prima che si affermassero nell'isola importanti civiltà storiche.
E in questi edifici di culto dell'acqua, tipici dell'antico mondo sardo, che l'addobbo decorativo aggiunge preziosità alle essenziali, ma ammirevoli, linee architettoniche. Qui intervenivano gli scultori con lavori in rilievo e di grafia, talvolta ravvivando la nuda pietra delle facciate templari con tocchi di pittura. Sull'alto del prospetto del pozzo di S. Vittoria spiccava in tutto tondo una «compatta» testa taurina a significare la divinità riconosciuta anche sotto i veli dell'acqua di vena. Le superfici del frontone del pozzo di S. Anastasia, coronato da un cornicione con fregio di «foglie» stilizzate sovradipinte di rosso, e di quelli di Su Tempiesu (Orune), foggiato a timpano, e di Lochele o Nurdòle (Orani), si abbellivano di un tessuto grafico geometrico, ottenuto a forte incisione, motivato da bozze mammellari, cerchi concentrici, zig-zag, raggiera e altro, lo stesso disegno che i ceramisti applicavano nei loro migliori prodotti, veri pezzi di lusso.
Questa diversificata attività artistica, originatasi nel Bronzo Finale, si spiegherà più intensamente e in modo diffuso nei primi tempi dell'Età del Ferro, nel periodo culturale detto «geometrico» e nelle successive stagioni dell'«orientalizzante» sino alle soglie dell'«arcaico» (900-550 a.C.). In tale periodo si definisce lo statuto aristocratico-eroico, fondato sull'amè, e si affermano le personalità fino quasi a essere titolate al culto. Il clima politico e il potere conseguente sono sorretti da una visione antropocentrica del piccolo mondo sardo, del valore-uomo in sé e nelle sue manifestazioni esterne. L'arte lo registra e, recuperando l'antropomorfismo presente già nel Neolitico e nell'Eneolitico, poi sommerso dall'aniconico durante i lunghi secoli dell'Età del Bronzo, lo replica, ma in moduli nuovi, con aderenza al reale (in funzione di prestigio o per il consenso ai capi e al loro contorno) attraverso un iconismo antropomorfo ostentatore ed enfatico.
Preparata da saggi non molto impegnativi (bètilo con testa umana in rilievo di Golgo, Baunéi, del Bronzo Finale; guerriero che dà la scalata a un nuraghe in un cippo forse funerario da Cannavadosu-Cabras), la scultura erompe, in forme auliche, con la grande statuaria in pietra di Monte Prama (Cabras). Venti e più statue in arenaria, scolpite «a massa» da artigiani del luogo (il «cantone» più ricco e potente tra i numerosi dell'isola), stavano erette su tombe a pozzetto, ostentando il loro status symbol principesco e militare. Si tratta infatti di guerrieri (arcieri, opliti) o di personaggi ritratti in servizi paramilitari e cerimoniali (pugili con guanto armato). Il corteo di immagini, talune di statura superiore all'umana, talvolta dipinte in rosso, composto nello heròon dinastico, è la manifestazione della società degli àristoi nel suo fulgore (trapasso dall'VIII alla prima metà del VII sec. a.C.). La costruzione geometrica delle figure, l'aspetto severo del viso, la
fine decorazione (come d'addobbo) delle vesti di gala, l'astrazione, concorrono a realizzare il segno stilistico del tutto coerente all'umore del tempo, l'Orientalizzante, governato, non solo in Sardegna, da potenti oligarchie principesche di estrazione e di base guerresca.
Maturi e persuasi di poter tradurre in proprio suggerimenti artistici di plastica levantina durante il Bronzo Finale, tra la fine del IX sec. È il 500 a.C. i bronzisti nuragici crearono con fervida fantasia e abile mestiere un grande numero di statuine di bronzo. Èsse vengono prodotte in una gamma figurativa che consente di apprezzare il valore in senso di operosità metallurgica, aspetto economico fondamentale dell'epoca accanto al «primario» agricolo-pastorale. Nello stesso tempo consentono di cogliere le componenti, i comportamenti, i gusti, i costumi, le tradizioni, in sostanza la vita della società indigena e la sua dinamica interna non chiusa agli afflati del circostante mondo mediterraneo.
Dalle differenti formule concettuali dei gruppi di Uta e Abini, si evincono cifre (o stilemi) asiatico-continentali, etrusche o greche orientalizzanti e arcaiche, siro-fenicie. Tali prestiti vengono accolti criticamente dagli artisti nuragici che li riplasmano secondo la propria identità culturale. Dapprima e nel periodo del rigoglio si nota un adeguamento dell'arte ai dettami e al servizio esclusivo della classe aristocratica. Dopo, essendosi questa indebolita e infine caduta, soggetti e stili vengono riformati aprendo la produzione alle suggestioni e alla domanda di immagine del ceto popolare nel senso più ampio. In una parola, tra il IX e la metà del VII sec., l'iconografia dei bronzetti rispecchia e ostenta soltanto il potere militare. Successivamente, sino alla fine del VI sec. È forse anche oltre, i moduli sono quelli di una sorta di «arte proletaria». Pertanto si raffigurano una pleiade di personaggi di genere, i loro riti e cerimoniali, il mestiere, le espressioni di ilarità e di dolore, le segrete aspirazioni di gente umile che si scioglie dalla soggezione agli àristoi e vuole rendere conto del proprio operato unicamente alle divinità. I ramai volgono la loro attenzione artistica agli animali domestici e selvatici. Raffigurano buoi, pecore, capre, maiali, cinghiali, mufloni, daini, cervi, uccelli da cortile e liberi, in stili conformi a quelli delle immagini umane, ora in forme naturalistiche ora ultraschematizzate, ma sempre con occhio rivolto al reale.
Ostentano un certo status anche gli oggetti dell'artigianato artistico, come le navicelle bronzee, dallo scafo lineare o «baroccheggiante», che ripropongono, laddove sono ornate da varie figure animalesche, le sequenze di formule stilistiche e concettuali rintracciabili nelle statuette antropomorfe e zoomorfe, cui si adeguano pure per ciò che concerne la cronologia. Espressione del lusso e del ceto elevato è anche un sofisticato miniaturistico tripode, che evoca archetipi ciprioti, dalla grotta sacra di Su Benatzu (Santadi). Si includono nel genere artistico oggetti del corredo domestico e d'ornamento: vasi con anse figurate, pugnali con l'elsa decorata, spilloni a capocchia modanata, bottoni con fregi, modellini di cassapanca, di pissidi, ceste e corbe, di faci, di veicoli, specchi.
Questo fecondo movimento artistico degli antichi Sardi dura sino a quando i Cartaginesi, dopo vari tentativi, occupano militarmente la Sardegna, cancellando la libertà del suo popolo, tranne che nelle montagne dell'interno. Con la perdita dell'indipendenza, l'arte, che ne rappresentava i valori vitali, declina progressivamente e infine si spegne.
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(G. Lilliu)