PERGAMENA, Arte (v. vol. VI, p. 42, s.v. Pergamo)
Scultura. - Numerose e importanti ricerche hanno portato una messe di risultati, cui non risponde la coerenza delle interpretazioni: artisti quali Nikeratos (v.), Phyromachos (v.) e Antigonos, o monumenti come il c.d. Principe ellenistico (v.) e il Grande Altare (o Altare di Zeus), restano oggetto d'una intricata diatriba.
La scoperta dell'iscrizione che assegna a Phyromachos il ritratto di Antistene (v. S 1970, p. 569, s.v. Ostia·, p. 613, s.v. Phyromachos) ha dato corpo alla personalità del bronzista, ma l'iconografia così recuperata è stata utilizzata in disparati confronti, per cui non c'è accordo sulla restituzione del suo Asclepio come figura stante (Kranz, 1989) ovvero seduta (Andreae, 1990), né sull'età che va dalla fine del IV (Himmelmann, 1990) alla prima metà del II sec. (Andreae). Limitandosi ai dati di fatto, un figlio di Phyromachos, di nome Asklapon, lavora a Rodi intorno al 220, mentre è da escludere la pertinenza a Phyromachos recentemente ribadita (Andreae, 1990) di un discepolo, il pittore Herakleides, attivo intorno al 167 (v. vol. III, p. 1150, s.v. Herakleides, 6°). L'equivoco è nato dalla lettura in Plinio (Nat. hist., XXXV, 146): «Heraclides Macedo, Milon Souleus, Pyromachi statuarii discipuli», anziché discipulus: lezione quest'ultima parimenti attestata dai codici, e di cui si è dimostrata la necessità nell'economia del passo (Moreno, 1994, I, p. 267, nota 522). Il solo allievo esterno alla famiglia che rimane a Phyromachos, è l'asiano Milon, di cui non abbiamo altra notizia. Nel II sec. Phyromachos viene già citato in un riassunto scolastico su papiro (Laterculi Alexandrini) a conclusione della serie dei grandi bronzisti, dopo Mirone, Policleto e Lisippo: nella sequenza che conosciamo dalla letteratura artistica (Quint., Inst., XII, 10, 6), Mirone rappresenta l'arte della pentekontaetìa, Policleto il tempo della guerra del Peloponneso, Lisippo, con la sua eccezionale longevità, le tre contigue generazioni «di Filippo, di Alessandro e dei diadochi»; resta dunque a Phyromachos di aprire la fase immediatamente successiva, che proprio nella visione introdotta a Pergamo da Xenokrates segna il superamento del classico.
Il c.d. Principe ellenistico è stato recentemente riscattato alla plastica pergamena per una certa affinità dell'anatomia con quella dei Giganti del Grande Altare (Himmelmann, 1989), ma l'identificazione contestualmente pretesa con Attalo (prima della salita al trono quale Attalo II) non è risolutiva, né ha trovato riconoscimento definitivo la somiglianza già constatata con il ritratto monetale di Flaminino (Balty, 1978). Il dato prosopografico diventa incisivo per il massimo problema della plastica pergamena: se la statua potesse essere riconosciuta è quella dedicata a Flaminino in Roma «con lettere greche» per il trionfo del 194 (Moreno), si conquisterebbe un caposaldo per mantenere alta la data del Grande Altare, mentre chi vi ravvisa Attalo quale principe può scendere fino al 159, avallando la costruzione dell'Ara negli anni successivi al 166.
A sua volta è la cronologia del Grande Altare a indiziarne il significato. La relazione tradizionalmente stabilita con gli eventi tra il 190 e il 188 porta all'interpretazione filoromana, laddove il riferimento alla crisi col Senato tra il 168 e il 166 (v. greca, arte: Scultura) richiederebbe una lettura in funzione antiromana (Andreae, 1990; Börker, 1990; Th.-M. Schmidt, 1990), incompatibile con i nuovi elementi riassunti qui di seguito.
Un sostegno alla datazione successiva al 166 si è cercato nella ceramica rinvenuta entro le fondazioni del monumento (Kunze, 1990). Ma la recente ricostruzione del sistema di montaggio delle sculture escogitato dall'architetto ha dimostrato che all'interno del fregio inferiore il livello del suolo è rimasto praticabile finché non è stato innalzato il piano superiore (Hoepfner, 1991): i frammenti discussi servirebbero se mai a datare la fase finale, non l'inizio della fabbrica. La cronologia stessa dei vasi non è in termini assoluti (D. Bdhr, Neue Ergebnisse zur pergamenischen Westabhangkeramik, in IstMitt, XXXVIII, 1988, pp. 97-199). Il principale argomento si fonda sull'originalità e la tarda datazione della corona di alloro a gruppi di tre foglie, nella decorazione di una classe di vasi pergameni presente nelle fondazioni (Andreae, 1990), ma è compromesso dall'evidenza dello stesso disegno su uno degli scudi dipinti nella Tomba di Lyson e Kallikes a Lefkadià, datata circa al 200 (v. greca, arte: Pittura; S. G. Miller, The Tomb of Lyson and Kallikes, Magonza 1993): presumibilmente i due fratelli titolari sono caduti nella battaglia di Cinoscefale (197 a.C.).
Infine la principale valenza della Gigantomachia - il produrre la percezione di un'infinita continuità nell'illusiva espansione dell'immagine - non è esclusiva degli scultori del Grande Altare, ma immediatamente partecipata a tutta l'estrema ondata di pionieri della forma plastica, che si manifesta nel Mediterraneo tra la pace di Apamea (188) e la caduta della Macedonia (168): il portentoso ventennio che vede a Rodi i primi gruppi omerici (v. rodia, arte ellenistica) e i ritratti degli Scipioni (poco dopo il 188: v. Scipione africano), in ambiente alessandrino il Posidone del tipo di Milo (attestato prima del 180 da una moneta), nel Peloponneso i colossi di Licosura (183-168) e a Roma gli aeroliti di Timarchides (179). Opere dalle quali non è possibile allontanare la Gigantomachia del Grande Altare, dove quel movimento appare allo stato nascente, come frutto originale della contingenza storica che qui viene riepilogata.
Filetero (282-263 a.C.). - A differenza di altri centri dell'ellenismo asiano e di Alessandria, un indirizzo locale si profila a Pergamo soltanto dopo il 282, che segna la parziale emancipazione politica di Filetero: in tal modo il programma figurativo sorpassa la «maniera classica» del tempo dei diadochi, sviluppando fin da principio forme eccentriche, gesti irregolari, figure prive di ancoraggio centrale, squilibrate e abbracciate al vuoto. Lo spazio, che era stato una tecnica o un metodo di costruzione, è adesso una sfida: per gli artisti pergameni occasione di cattura del riguardante.
I risultati della lunga gestazione che altrove accompagna l'emanciparsi della plastica dalla suggestione dei grandi maestri, vengono concentrati presso Filetero dagli esponenti delle due fondamentali correnti d'età classica, ateniese e sicionia: confluendo con la tradizione della vicina Ionia, queste producono l'immediata e sorprendente maturità delle creazioni pergamene, il «barocco» destinato a universale affermazione.
La nascita di uno stile è propiziata dalla speculazione teorica: prende vita in Pergamo, a opera dell'ateniese Xenokrates e poi di Antigonos di Caristo, una storia dell'arte greca che seleziona tra le personalità del passato i riferimenti per la produzione presente. Nella successione delle «invenzioni» attribuite ai diversi bronzisti, viene privilegiato Lisippo (v.), il che spiega nell'incipiente plastica pergamena l'enfasi dei valori di slanciata proporzione, agile movimento e vibrante modellato.
La nota originale è nella gara con la scuola locale di retorica, che trova in Egesia l'esponente del gusto immaginoso e colorito, poi definito «asiano»: si evita il periodare classico, per utilizzare proposizioni brevi fortemente ritmate, giochi di parole, assonanze e ardite metafore. È come Egesia ritiene di non contraddire, ma di sviluppare coerentemente la prosa di Gorgia, così gli scultori giunti a Pergamo traggono dalle stele attiche le premesse per le loro formule di pàthos, volte a esprimere insondate profondità dell'animo umano.
Ciò che essi ricavano dalla «maniera» ha lo stesso valore dirompente delle parola di Egesia. Nel campo della scultura significa il superamento della concezione raccolta, unitaria e organica della figura umana, per una moltiplicata articolazione: un'esuberanza che apre impensate combinazioni, rispondenze e contrasti. Prevale il senso dell'eminenza delle parti. Nell'anatomia di ciascuna figura viene forzata la struttura interna, per farla emergere, scheletro e muscoli, attraverso un'epidermide tesa nella sua elasticità: caso limite, il cavallo dell'Artemisio. Nelle pose e nelle movenze si espandono gli arti in ogni direzione, fino alla dilatazione centrifuga come nel Fauno Barberini e nel Cavaliere dell'Artemisio. Nei gruppi si esaltano le componenti periferiche, così da procurare l'invasione dello spazio dello spettatore da parte del mondo figurato. L'arte sfida la vita, vi entra con le sue sorprese, licenze e libertà.
Il più anziano degli artisti la cui attività è attestata a Pergamo è Xenokrates (v.), considerato allievo di Teisikrates, discepolo a sua volta di Eutikrates (figlio di Lisippo), del quale parimenti si diceva che Xenokrates era stato apprendista. Plinio affermava che Xenokrates aveva superato l'uno e l'altro per la vastità della produzione: una notizia che non si addice alla crisi della plastica in Atene dopo il 293 - il «cessavit ars» dello stesso Plinio (Nat. hist., XXXIV, 52) - bensì si esalta nell'eccezionale disponibilità economica del signore di Pergamo. Si può attribuire a Xenokrates l'immagine stessa di Filetero, quale ci è giunta dall'erma del Museo Nazionale di Napoli (v. vol. III, p. 670, s.v. Filetero), dove lo stile grande e piano che illustra i re combattenti - Demetrio Poliorcete, Seleuco, Pirro - si concilia con l'autenticità dei ritratti degli Ateniesi. Una spontaneità di notazioni fisionomiche che assume, di fronte alle statue regali, la dialettica di un realismo democratico, l'esigenza di dichiarare l'umanità del personaggio, la sua vicinanza al cittadino, che rimane, sul modello attico, una costante degli Attalidi.
Impulsi imprevedibili vengono dalla storia. All'avvento dei Galati in Asia, alcune schiere sono affrontate nel 277 da Filetero, che accoglie la richiesta di aiuto degli abitanti di Cizico. Al monumento celebrativo della vittoria si riferisce probabilmente la base trovata in quella città con le firme congiunte degli ateniesi Nikeratos e Phyromachos: un'idea dell'opera ci viene dalla stele di Cizico al museo di Istanbul, con Eracle che abbatte un capo barbarico.
A Pergamo, con il gruppo eseguito in collaborazione per il Santuario di Atena, i due artisti si pongono tra i primi interpreti di quell'immedesimazione con le glorie elleniche che diventerà caratteristica degli Attalidi. Fonti apparentemente eterogenee ci aiutano a ripopolare il frammentario basamento con il ciclo eroico dedicato ai pretesi precedenti del dominio di Filetero, in particolare a quegli esponenti dei Demaratidi di Sparta e degli Alcmeonidi di Atene, che per varie congiunture si erano trasferiti in Asia, trovandovi riconoscimento politico (v. nikeratos).
Nikeratos e Phyromachos firmano congiuntamente un altro monumento a Delo, dove verso il 263 la Galatomachia di Filetero viene rappresentata dal solo Nikeratos. L'epigramma sul plinto è denso di allusioni al prestigio politico e militare del vincitore, equiparato a un sovrano. Siamo all'apogeo dell'affermazione di Filetero, a distanza dai successi sui Celti del 277 - che il poemetto evoca con un avverbio temporale, τότε, allora - nel momento in cui il figlio di Attalo istituì a Delo le feste in proprio nome, le Filetàireìa. Fondamentale è il rapporto su cui s'insiste nell'epigrafe tra le opere poetiche e plastiche dedicate al «signore»: la coerenza tra la sfera letteraria e figurativa a Pergamo si farà sempre più stretta.
Di Phyromachos, oltre alla collaborazione con Nikeratos a Cizico, a Delo e a Pergamo, conosciamo l'Antistene eseguito inizialmente ad Atene, e replicato dall'artista dopo il trasferimento presso gli Attalidi; la scoperta a Pergamo di una copia romana, ricorda l'importanza che il ritratto ha avuto nella formazione dell'indirizzo locale: nella mimica e nella capigliatura del filosofo, si riconosce il precedente dei Galati nei donarì di Attalo I; alla costruzione del Tempio di Asclepio da parte di Filetero si può collegare l'esecuzione della statua di culto del dio da parte del bronzista (per altra interpretazione v. phyromachos).
Eumene I (263-241 a. C.). - Nel 263 a Filetero succede il nipote Eumene I, la cui intraprendenza giunge alla rottura con Antioco I: nella battaglia di Sardi i Pergameni vincono l'esercito siriaco affermando la propria indipendenza, e allargando il dominio territoriale. L'intera valle del Caico diviene possesso di Eumene I; la costa meridionale è occupata in direzione della foce dell'Ermo.
Nikeratos lavora a una statua di Eumene I, dedicata dagli Eumenèstai, addetti alla celebrazione delle feste in suo onore.
Phyromachos è ancora nell'elenco pliniano degli artisti che hanno collaborato alla celebrazione delle guerre di Eumene I (altri intendono di Eumene II, v. phyromachos) e di Attalo I: Epígonos, Phyromachos, Stratonikos (v.), e Antigonos.
Degli altri tre, Epigonos (frutto di una congettura per Isigonus della tradizione manoscritta) è meglio noto al tempo di Attalo I.
Stratonikos, toreuta e bronzista, e come tale autore secondo Plinio di «filosofi», è il probabile artefice del Bione di Boristene (il c.d. Filosofo di Anticitera), originale correlato all’Antistene di Phyromachos.
Antigonos di Carisio, bronzista egli stesso, è anche il continuatore di Xenokrates nel regesto degli artisti greci, e lo storico della filosofia che conforta Phyromachos e Stratonikos nell'illustrazione della galleria dei cinici.
Attalo I (241-197 a. C.). - Eumene I scompare senza aver assunto il titolo di re. Il mutamento costituzionale, fecondo di committenze artistiche, si verifica con Attalo I. Attorno al 238 la tribù celtica dei Tolistoagi muove contro Pergamo, e giunge a imboccare la valle del Caico, ma viene fermata non lontano dalle sorgenti.
Nell’occasione Attalo si fa acclamare basilèus, promuovendo di sé un'immagine politicamente motivata, come quella pretesa dai Seleucidi. Egli si presenta quale sovrano di un regno di frontiera che combatte per la libertà degli Elleni, come in altri tempi era toccato agli Ioni e agli Ateniesi. In questa visione si pongono i ricchi donarì innalzati nel giro di quindici anni sull'acropoli di Pergamo entro la terrazza del Tempio di Atena, e i nuovi monumenti dedicati a Delo e a Delfi.
Scomparso Phyromachos dopo le prove compiute al servizio di Eumene I, diviene artefice di questa avvampante stagione Epígonos, il primo scultore di cui conosciamo la cittadinanza pergamena. La sua presenza è implicita nel Donario Circolare, iniziale attestazione di vittoria sui Galati da parte di Attalo I: la dedica ricorda solo l'episodio del Caico. Nella discussione sulla pertinenza o meno a tale basamento del Galata Capitolino e del Galata Ludovisi, la conclusione positiva è sembrata giungere (ma non senza fondate obiezioni) dalla ricomposizione di quelle figure in un nesso talmente esteso in profondità da non poter trovare luogo sulle altre basi rinvenute nel Santuario di Atena (Coarelli, 1979). Inoltre il Galata morente, giacendo sulla sua tromba spezzata, viene a coincidere con la definizione pliniana (Nat. hist., XXXV, 88) del tubicen di Epigonos, che s'impone così come uno degli autori del gruppo. Non è soltanto la donna trafitta dal suicida a fissare con occhi spenti lo spettatore. Anche il trombettiere ferito, come è stato rivelato dal restauro (Martellotti, 1985), aveva il capo meno inclinato che nell'attuale sistemazione museale, e pertanto verosimilmente non guardava il suolo fittizio del combattimento, bensì i visitatori del santuario dall'alto del suo basamento. Rimane infine la possibilità che l'altra struggente invenzione attribuita da Plinio a Epígonos, il fanciullo accanto alla madre uccisa, facesse da pendant alla donna morente del Galata Ludovisi.
Nel 235-234 i vasi metallici di Stratonikos (stratonikèia) sono ancora celebrati a Delo.
I soggetti bellici vengono ripresi da Epígonos in un'epopea più vasta. La firma del bronzista compare sul Donario di Epigenes offerto a Attalo I dal suo generale intorno al 228, e sul Grande Donario dedicato personalmente dal sovrano ad Atene nel 223: otto scene concatenate sul lato meridionale della terrazza, dove resta la fondazione di quasi venti metri. L'artista accompagna l'ammirazione del riguardante in una creatività cumulativa, che procedendo nella narrazione addensa le allusioni a quanto precede. Si comincia dallo scontro del 238 alle sorgenti del Caico (che già aveva dato luogo al Donario Circolare), passando alla sconfitta degli stessi Tolistoagi, alleati di Antioco Sparviero (citata nell'iscrizione del Donario di Epigenes); seguiva la battaglia contro Antioco Sparviero presso un santuario di Afrodite non lontano da Pergamo; le altre tre vittorie sul medesimo principe in Frigia, in Lidia e in Caria; quella sui generali di Seleuco III; e l'ultima contro un dinasta asiatico, Lisia, sostenuto dagli strateghi siriaci nel 223.
A uno degli scontri con le composite armate dei Seleucidi apparteneva l’Orientale di cui abbiamo copia della testa al Museo Nazionale Romano: le labbra tumide, i corti baffi spioventi e le rughe della fronte stabiliscono la continuità iconografica rispetto ai Galati del Donario pergameno, fosse o meno il Donario Circolare. Ma rispetto alla prospettiva rotatoria dei «manieristi», ancora adottata in quel caso, lo spostamento longitudinale imposto al visitatore dal percorso narrativo, determina per ciascun episodio un punto di vista obbligato: il caduto si piega sul fianco sinistro, e da questo lato soltanto la figura può essere osservata. L'aspetto più impressionante è il trattamento asimmetrico della bocca e degli occhi che conferma a Epigono la fama di saper affrontare il tema del morente. Al di là delle ragioni dello scorcio, la mimica facciale è bloccata dalla paresi conseguente a un trauma cranico, per cui a sinistra l'angolo delle labbra è inerte, la guancia ferma, le palpebre impossibilitate a stringersi, il sopracciglio abbassato.
Immediato è il confronto con il volto del c.d. Fauno Barberini, dove gli occhi sono serrati dal sonno, e simili sono la nettezza dei tratti fisionomici, l'ampiezza della fronte e la mobile cornice della capigliatura. Rispetto ai Galati, si accresce la potenza delle masse, si accentua la deviazione degli assi e la varietà di direzione delle membra, fino all'esplosione dell'unità figurativa.
Nella generale assonanza dell’Arianna del Vaticano col Fauno Barberini, la dormiente inaugura, col panneggio attorto in un rotolo, il senso di verità casuale ed effimera (benché magistralmente controllata dall'autore) che trionfa nella c.d. Fanciulla d'Anzio, nella quale potrebbe riconoscersi (Moreno) la Fennide di Delfi, che aveva vaticinato il successo degli Attalidi sui Galati.
La simbologia espressa dai primi donarî a Pergamo, veniva rafforzata agli occhi dei Greci dall'investitura delfica. Non lontano dal Tempio di Apollo, Attalo I contraccambiò con un'eccezionale consacrazione il remoto avallo offerto dalla Pizia alla regalità che egli aveva assunto. Fece sistemare una terrazza, secondo il criterio urbanistico con cui andava strutturando Pergamo, e la coronò con una Stoà che spiccava per grandezza tra i precedenti edifici devozionali. Essa è già ricordata in un'iscrizione dell'autunno 223: data che corrisponde alla conclusione del Grande Donano in Pergamo. Le novità figurative colpivano non meno della rivoluzionaria architettura. In direzione del tempio, svettava su un alto pilone l'immagine del dedicante. Davanti al colonnato correva un basamento lungo 27 m, con la dedica ad Apollo. Sarcofagi con battaglie di Romani e Galli echeggiano la Galatomachia di Delfi, dove ricorrevano schemi già sperimentati nei gruppi di Pergamo.
I rilievi ostentano un barbaro visto di spalle che ha un'impostazione simile al Galata Ludovisi, e aggiungono il Barbaro Inginocchiato sotto la stretta di un legionario: la testa è probabilmente documentata in tutto tondo da un frammento al Vaticano. Se la chioma è in linea con l'iconografia del trombettiere di Epigono o del comandante suicida, la barba introduce un motivo alieno al costume dei Tolistoagi: la deformazione della fronte appare progredita anche a confronto con l’Orientale del Grande Donario; la netta apertura della bocca risponde piuttosto al grido del Galata di Delo.
Il regno di Attalo I si prolunga fino al 197, consentendo per il donario delfico una datazione abbastanza avanzata da accogliere l'evoluzione iconografica e stilistica. Come il Donario di Attalo I a Delo, esso si pone a mezza strada tra i primi monumenti di Pergamo e il Grande Altare, dove i Giganti, afferrati per i capelli dalle divinità, segnano l'ulteriore sviluppo patetico della Galatomachia di Delfi.
La Stoà di Attalo I a Delfi è il luogo per collocare idealmente l'originale in bronzo della Fennide (che potrebbe essere identificata con la c.d. Fanciulla d'Anzio, dalla copia nel Museo Nazionale Romano): opera di un artista in debito con la tradizione attica, ma nutrito di cultura asiana. La giovane Pizia poggia sulla gamba sinistra, e il fianco sporge a secondare l'azione del braccio. La torsione si conclude con l'inclinazione laterale della testa, lo sguardo concentrato nel rituale. Sul vassoio c'è la fronda di alloro, una benda di lana, le tracce di un bruciaprofumi. La ponderazione innova il retaggio classico, con la gamba destra scartata che quasi stacca il piede da terra, e la spalla che scende verso la gamba libera ad accrescere la generale rotazione. Il panneggio domina sulla struttura corporea ed esprime i valori fondamentali. La spirale montante si svolge tutta per le pieghe del chitone e del mantello dal piede destro alla spalla opposta. L'imbarazzo tra lo stare e il camminare si riflette nel complicato avvitamento delle stoffe. L'instabilità è suggerita dallo squilibrio del chitone. La rapidità nel girarsi del busto si rivela nella discesa della spallina. All'irregolarità del drappeggio risponde la casuale pettinatura. I capelli sono legati avanti in un nodo, dal quale spuntano riccioli capricciosi, come nel provvisorio assetto dell'Afrodite al bagno di Doidalsas. La bocca esprime il palpito del respiro. Le palpebre sono calate per un moto istantaneo, sorpreso dall'artista sul volto giovanile a esprimere devozione, ingenuità e candore. È il momento in cui Fennide dà inizio alla pratica oracolare che avrebbe segnato il fato degli Attalidi, bruciando farina d'orzo sulla fiamma alimentata da foglie di alloro.
La visione centrifuga che anima il Fauno Barberini ispira l'autore del Cavaliere dell'Artemisio, dedicato al vincitore d'una gara nella categoria dei più giovani: concorsi ippici vengono praticati a Pergamo fin dall'inizio delle feste Nikephòria, intorno al 220. Nel destriero il movimento degli arti allontana l'attenzione dal fulcro della rappresentazione, indirizzandola all'esterno con bruschi slanci e scatti. La proiezione è espressa non solo dai contorni, ma dall'analisi della struttura fisica. Lo scheletro affiora e spinge sotto la pelle nelle giunture, nel costato, nella potente impalcatura della testa. La superficie del bronzo rivela lo sforzo dei fasci muscolari affusolati, la rigidità dei tendini, l'elasticità del tegumento che inguaina il potente organismo, senza ombra di adipe. Nel muso affilato la bocca è aperta, le froge dilatate dal respiro ansante. L'interesse dello scultore si affina sulle linee orizzontali a significare lo slancio verso la meta: le orecchie tese indietro si adeguano alla proiezione aerodinamica della massa. Lo sviluppo longitudinale propone la veduta dal fianco sinistro, verso cui si volge il ragazzo: gambe e braccia ruotano dilatando la composizione nello spazio in cui circola la vita reale, e che la scultura effettivamente invade. Il panneggio è sorpreso nei vividi svolazzi della corsa. L'artista ha affidato al vento l'estrema espansione dell'immagine.
La galoppata ricorre nel fregio fittile del museo di Napoli proveniente da Pompei, con scene di combattimento contro i Galli; decorazione che deriva a sua volta da Galatomachie pergamene, come il Fregio di Civitalba. Sul cavallo lanciato nello schemá di quello dall'Artemisio, appare un barbaro piegato in avanti, che allenta le redini per accelerare la fuga.
Come segno di vittoria, più appropriato al contenuto dell'originale, il soggetto si ritrova sui denari romani di Lucio Calpurnio Frugi, monetiere nel 90 durante la guerra sociale.
Nel Cavaliere dell'Artemisio, come sulla moneta, il rapporto tra la figuretta in arcione e il corsiero è talmente ridotto da far intendere che l'interesse si è allargato ad altro che non il soggetto umano, fino a esprimere la nostra pochezza comparata alla potenza della natura. Ma per un paradosso retorico, insieme alla primordiale subordinazione si afferma il contrario. È il ragazzo che finalizza con la ragione l'energia dell'animale. Alla luce della sensibilità stoica, è questo il valore affidato alla statua: a fronte del Fauno Barberini abbrutito dal vino, il giovinetto si erge a esempio morale. La ricerca fisionomica fa rientrare il monumento nella categoria del ritratto dinastico, per l'evidente somiglianza col Filetero·. più avanzato è l'ammorbidimento della demarcazione superiore del viso, ma non vi è ancora la continuità di modellato tra la fronte e la radice dei capelli, che si svilupperà nella Gigantomachia.
Quanto di più simile conosciamo al Cavaliere dell'Artemisio è il Galata di Delo al Museo Nazionale di Atene, nato dalla stessa esigenza di verità anatomica e di spasmodica tensione; l'atteggiamento ricorda il Barbaro Inginocchiato dei sarcofagi, e può essere in relazione col Donario di Attalo I, attestato nell'isola: vicino sorgeva il Donario di Epigenes, ripetendo l'alternanza dei corrispondenti monumenti a Pergamo. Il cavallo di Epigenes sollevava soltanto una zampa anteriore, e non era accompagnato al suolo da altre figure. Il monumento di Attalo I è più ampio, per cui vi era almeno un caduto accanto al cavallo del sovrano. Il Galata di Delo è stato colpito sopra il ginocchio destro. Il dolore l'ha abbattuto. Il peso insiste sull'arto piagato. La bocca si apre in un grido. L'accentuazione dell'anatomia rientra nella tendenza pergamena ad accrescere la vigoria del soggetto. Incavi e rilievi distinguono le masse, come nel Galata Ludovisi. La ricerca è sempre quella degli opposti: la gravità che trascina a terra, e la volontà umana che richiama la muscolatura a un estremo impegno. Ma rispetto al trombettiere di Epigono, la situazione è mutata per lo scatto di cui il combattente ancora dà prova. Come nel Cavaliere dell'Artemisio l'artista è attento ai moti di un corpo individuale, valorizzando in funzione espressiva le particolarità fisiche: vi sono sproporzioni nella robustezza degli arti rispetto al tronco, nella forma e nel relativo volume di elementi anatomici tra loro vicini. Sopra il ginocchio è annotata la contrazione del ramo interno del tricipite, per il dolore della piaga. Il tipo si ripete nella Galatomachia di un'urna etrusca del Museo Archeologico di Firenze, per un barbaro inseguito da un cavaliere, e per un altro minacciato dal personaggio appiedato che domina la scena.
La diretta discendenza sicionia si conclude a Pergamo con il Satiro Danzante di Thoinias (v.): lo scultore era figlio di Teisikrates, epigono di Lisippo attraverso l'insegnamento di Eutikrates, che a sua volta era stato maestro di Xenokrates, il primo bronzista identificato a Pergamo. L'opera è stata recentemente ricostruita con le repliche in marmo, e le derivazioni in terracotta e bronzo, grazie alla base iscritta rinvenuta nella capitale degli Attalidi, con le tracce della statua (v. skirtos). Come Epígonos e gli altri scultori impegnati nei gruppi di battaglia o nei soggetti dionisiaci, Thoinias fornisce giustificazioni naturalistiche per la proiezione radiale degli arti, parimenti dettata da una sfida teorica, dalla volontà di coinvolgere nella scultura lo spazio in cui vive lo spettatore: ma nella coerenza con cui allo stesso tempo chiude in alto la composizione, riporta a Pergamo una componente classica.
L'offerente è Dionisodoros, ammiraglio di Attalo I alla battaglia di Chio nel 201, che aveva fermato l'ambizione in Oriente di Filippo V di Macedonia: di ritorno dalla missione dedica al suo re e a Dioniso la statua di cui ci è pervenuto il basamento. Nel 198 Dionisodoros conduce la flotta nel golfo Maliaco, e sbarca alle Termopili per partecipare alle trattative con il Macedone condotte da Flaminino. All'inizio del 197 Attalo viene a concludere accanto al Romano l'attività politica: «nel desiderio di sostenere Tito con la sua eloquenza, si sforzò più di quanto non gli consentisse l'età [...] trasportato poi in Asia con la sua flotta, vi morì» (Plut., Flam., 6). I fatti che ne seguirono, determinanti per la cultura figurativa in tutto il mondo ellenistico, sono illustrati dai più celebri monumenti dell'arte pergamena.
Eumene II dall'avvento all'insurrezione dei Galati (197-168 a.C.). - La scelta di Attalo I a favore di Flaminino fu mantenuta dal figlio Eumene II, che sostenne nel 195 i Romani contro Nabide di Sparta. L'anno seguente, in occasione del trionfo, sarebbe stata innalzata in Roma dai Pergameni la statua di Flaminino, che si è voluto riconoscere (Moreno) nel bronzo del Museo delle Terme (v. principe ellenistico). Alla maniera ellenica la nudità dà al Romano una statura universale. D'altra parte l'intensità del volto corrugato brucia la residua idealizzazione delle effigie dinastiche dell'ellenismo. Acutezze fisionomiche proprie della ritrattistica asiana convivono con la gelosa individualità del cittadino repubblicano e cori la velata accettazione di motivi della tradizione classica. Per l'attualità del personaggio, l'autore non si perita di far rivivere il mito e la storia: la posa del trionfatore rammenta immagini di Alessandro (v. aetion), di Meleagro (v. vol. IV, p. 984, s.v. Meleagro), e di Eracle (v. ercoli farnese). Tra l'irruenza dei primi donarì e la disciplina della ripresa attica, la statua di Flaminino rappresenta un miracoloso equilibrio. L'apoteosi non annulla la tensione realistica, e la registrazione delle irregolarità nel corpo e nel viso avviene entro un'alta stilizzazione. Ragioni ideali controllano la casualità del personaggio che ha fermato la storia restaurando la libertà degli Elleni. Dall'alto del suo distacco meditativo, Flaminino è l'eroe messianico del poema di Licofrone.
La stessa sintesi di realismo e astrazione vige nel Fregio d'armi del recinto di Atena, tra le prime testimonianze monumentali delle vicende che portano gli Attalidi a nuova potenza: la fedeltà all'alleanza dei Romani; la vittoria a Magnesia su Antioco III (inverno 190-189); lo sterminio dei Galati nel 189 da parte di Manlio Vulsone e di Attalo (il futuro Attalo II); il viaggio compiuto lo stesso anno da Eumene II a Roma; gli straordinari benefici ottenuti con la pace di Apamea del 188. Come nel Principe delle Terme, si raggiunge nel Fregio d'armi la libera costruzione del «possibile» che era stato proposto teoricamente da Aristotele come oggetto della mimesi. Il bello imitato dalla normalità della natura è sorpassato. Trionfano le cose riscoperte in una struttura di arbitrarie relazioni, che porta il disordine del bottino a un collage surreale, il trofeo di vittoria a una visione metafisica. Soltanto alcuni oggetti figurano posati al suolo. Altri stanno ritti contro il fondo del rilievo, o isolati. Memorie sparse con soggettiva licenza, come nell'invenzione di Sosos, il mosaicista pergameno che decorava un pavimento con la rappresentazione degli avanzi del banchetto (v. vol. I, p. 703, s.v. Asarota; VII, p. 413, s.v. Sosos). Una narrazione allusiva, indiretta, l'invito a ricostruire l'antefatto da tracce apparentemente casuali. Elementi che nella realtà sarebbero rimasti distanti e tra loro inconciliabili, come le zagaglie dei Galati e le prore rostrate delle triremi, si trovano riuniti a intensificare il valore visionario: una personale presa di coscienza.
In questo spirito nasce l'altare dedicato da Eumene II a Zeus, ad Atena Nikephòros e agli dei tutti, rappresentati sul fregio esterno nella lotta contro i Giganti: un pantheon coronato al livello superiore dall’heròon di Telefo, mitico iniziatore della dinastia. L'unità della concezione risale a Cratete di Mallo, fautore di un'operazione di aggiornamento scientifico e di attualizzazione morale del mito. Coerente con la radice stoica del suo insegnamento è il far discendere ogni intenzione e beneficio dal supremo ordinatore dell'universo, chiamato ad abitare la rocca pergamena con la consacrazione del monumento. I dubbi sull'opportunità di riconoscere il progettista nel Menekrates citato da Ausonio tra i sommi architetti (v. vol. IV, p. 1017, s.v. Menekrates, 6°), si sono attenuati: ai fini dell'identificazione non interessa lo scultore il cui nome incerto terminava in -krates, e che firma una lastra della Gigantomachia in situazione paritetica con gli altri esecutori del rilievo (v. vol. IV, p. 1017, s.v. Menekrates, 20), bensì il padre di costui, il Menekrates il cui nome è conservato per esteso nell'iscrizione, e che avrebbe cooptato il figlio nella realizzazione dell'impresa (Börker, 1986).
La vittoria di Flaminino (197) viene rappresentata nella Gigantomachia da Tithonòs (Tito in Lyc., Alex., 940, con allusione al prenome Titus del Romano), in atto di abbattere la personificazione di Brỳchon, fiume della Macedonia; inoltre sullo scudo di un vinto appare l'emblema macedone, la stella dai raggi di alterna lunghezza.
La battaglia di Magnesia (190-189) è sintetizzata dalla simmetrica convergenza di Eracle e Ares verso il luogo centrale della mischia: l'uno capostipite degli Attalidi e oppressore dei Galati a Cizico, l'altro antenato di Romolo e vincitore dei Galli a Sentino.
Altri motivi rimandano alla spedizione di Vulsone e Attalo contro i Galati (189). Nelle parole di Polibio (XXI, 40, 2) le colpe dei Celti verso gli Elleni corrispondono letteralmente a quelle dei figli di Gea rispetto al cosmo divino: «tutti coloro che abitavano al di qua del Tauro, non tanto si rallegravano della disfatta di Antioco [...] quanto di essersi affrancati dal terrore che loro incutevano i barbari, e di sentirsi al riparo dalla loro violenza (ὒϐρις) e prepotenza (παρανομία)». In particolare la strage finale compiuta da Vulsone e Attalo su tre versanti del Monte Olimpo di Frigia viene evocata dall'andamento della Gigantomachia che comprendi per intero tre lati della costruzione, e dal singolare sviluppo assegnato nella figurazione alla Madre degli dei: sappiamo che i sacerdoti di quel culto si erano recati da Vulsone prima dello scontro a vaticinargli la vittoria. La dea anatolica era legata alle origini troiane di Roma e nel 204, al tempo dell'invasione di Annibale, un'ambasceria aveva ottenuto da Attalo I di trasferire da Pessinunte nell'Urbe la pietra sacra che rappresentava la divinità. Il tempio che subito fu iniziato a Roma, sorse entro il pomerio, in quanto la Gran Madre non era straniera nella città fondata dai discendenti di Enea. La costruzione viene dedicata il 191, con i primi Ludi Megalenses: nel 189 Vulsone parte per l'Oriente. I Romani vanno a difendere l'Asia dai barbari in nome della dea, poiché quella terra è la loro patria ancestrale (Robert, 1992). Il trionfo celebrato da Vulsone al suo ritorno nel 187 sarà il corrispettivo dell’anàthema di Eumene a Pergamo: se ne avverte l'eco figurativa nell'incremento delle Galatomachie sulle urne etrusche (Höckmann, 1991).
I frutti della pace di Apamea (188) sono echeggiati dall'iscrizione di dedica dell’Altare, ed espressi dalla sistemazione nel loggiato delle numerose personificazioni di regioni e città sottomesse a Pergamo: il dominio raggiungeva l'Europa con la riva settentrionale della Propontide e col Chersoneso tracico. L'eredità della lotta contro i Galati, che Eumene II si era assunta come successore di Attalo I, si accresceva del compito di difendere le antiche fondazioni coloniali dalla minaccia dei Traci. Nel poema di Licofrone (dove si sottintende che Pergamo al pari di Roma è erede di Troia), vengono rivendicate a Ilio la Tracia e la Macedonia compresa la penisola Calcidica, quale sede dei Giganti. La figurazione torna così al simbolo della vittoria di Flaminino su Filippo V.
A conferma del carattere filoromano del Grande Altare sta l'influenza da esso esercitata sull'architettura imperiale, dall'altare di Augusto in Mileto al monumento partico di Efeso; le personificazioni topografiche vennero riprese per le allegorie delle provincie. Anche alla luce della cronologia alta di Hermogenes (v.) il disegno architettonico si conferma in prossimità degli eventi del 190-188.
L'invadenza figurativa dei primi donari è spinta al parossismo. I caduti che riempivano il campo di battaglia sono pallida memoria a confronto dei mostri che srotolano le loro spire sugli scalini dell'ara. Al di là dell'impatto visivo conta il peso, l'ingombro, la consistenza tattile dei corpi mostruosi. Le masse avanzano e sporgono, si proiettano fuori. Un'energia aggressiva sfugge dal fondo, affiora in superficie, ed emana nello spazio del riguardante, ispirata alla nuova visione dell'universo: l'intuizione di Aristarco di Samo che la terra non è immota, ha compromesso l'antropocentrismo che reggeva non solo la cosmogonia, ma l'ideologia e l'estetica classica. La materia di cui è formata la terra appare di per sé dotata di energia, nell'impulso di rotazione e rivoluzione: di qui l'inaudita veemenza attribuita ai figli di Gea, la sensazione in chi guarda la Gigantomachia di essere trascinato al di là dei limiti fisici.
L'avventura figurativa procede per balenanti intuizioni e scoperte, dilatando la prospettiva della sensibilità umana, arricchendo e moltiplicando l'espressione del pàthos. La tendenza è ad accrescere le licenze rispetto al dettato anatomico, a rimodellare la realtà con intentati mutamenti che promuovono l'opera dalla verità letterale all'assoluta sublimazione. Partendo dalla curiosità etnografica dei donari, gli scultori aprono verso un mondo metaforico che proietta all'infinito quello slancio di conoscenza e di vita. Se gli artefici dei primi trofei avevano mostrato di voler uscire dalla sfera della perfezione ellenica, questi con sforzo immane inventano una realtà del sopramondo.
Al di sopra della Gigantomachia sul fondamento universale di quel fregio, la Telefeia ricostituisce un sistema di prospettive convergenti nella politica del regno. Le scene procedono con un calcolo seriale di scorci che rende verisimile il mito, e gli imprime accenti propagandistici. Il passato non appare in sé concluso, ma va modificato e sviluppato fino ad assumere sotto gli occhi dello spettatore attualità e verità esemplare. Ricerca filosofica, erudizione mitologica, e sensibilità estetica incontrano le esigenze del potere, in una rivisitazione delle categorie fondamentali della città classica: le leggende delle origini, i remoti rapporti di parentela e ospitalità. Tutto avviene come attraverso le illustrazioni di un volume. È il passaggio da una teogonia vagheggiata nell'oralità primordiale (e pertanto appropriata alla caduta dei Giganti) alla civiltà della scrittura, alla storia che si fonda sul testo. L'emozione globale dell'epica cede al percorso letterario. S'incide nel marmo una memoria analitica che unisce nella durata il momento dell'invenzione a quello della ricezione.
A Pergamo stessa lo stile della Gigantomachia si riconosce nella testa del c.d. Wilder Mann («Uomo selvatico»), che potrebbe identificarsi coin l'originale di un Marsia in gara con Apollo, secondo il gruppo noto da una copia al museo di Antalya (Künzl, 1976). Formulazioni proprie degli artisti impegnati nel Fregio di Telefo, si ritrovano in monumenti diversi, che ci aiutano a ricostruire un clima artistico: la statua di Asclepio da Gortina, che corrisponde al tipo stante documentato a Pergamo da una statuetta, terrecotte e riproduzioni monetali; il colossale Eracle seduto da Alba Fucente (v. eracle); e la grandiosa testa di Asclepio a Siracusa (altra attribuzione: v. phyromachos). Aspetti tipici di questa fase sono: la barba divisa nel mezzo con grossi riccioli che tendono a convergere simmetricamente; il labbro inferiore piccolo e carnoso, senza precisa articolazione con quello superiore, modellato in aggetto, con poco ossequio alla realtà anatomica; i baffi esuberanti con un inconfondibile andamento a tenaglia; gli zigomi larghi; gli occhi infossati oltre la convenzione patetica, con ampio cuscinetto sul lato esterno; l'arcata sopracciliare che riprende l'andamento classico, senza i corrugamenti che tormentavano i personaggi della Gigantomachia; le tempie strette, la fronte trapezoidale definita dalla ricaduta di lunghi boccoli che zampillano dal centro della fronte.
I segni d'incompiutezza della Telefeia si spiegano con le vicende belliche seguite alla pace di Apamea: dal 186 al 183 il paese fu coinvolto nella guerra contro Prusia I di Bitinia, che si risolse a favore di Pergamo grazie all'arbitrato romano; dal 182 al 179 si svolse la lotta contro Farnace I del Ponto.
Da Eumene II alla fine del regno (168-133 a.C.). - La crisi del 168 coincide a Pergamo con la minaccia dell'insurrezione dei Galati. Il prestigio raggiunto da Cratete persuade Eumene II a inviarlo presso il Senato, con la missione, già fallita ad Attalo, di propiziare l'intervento romano. Né si ottenne di più sul piano diplomatico, ma grande fu il successo culturale di Cratete che introdusse i Quiriti alla grammatica, secondo il criterio dell'«anomalia», che accettava le eccezioni introdotte dall'uso: di questa impostazione si vedrà l'eco nelle scelte figurative fino al neoellenismo di Tiberio.
Anche Cratete riporta in patria un'idea nuova: attorno al 166, domata la sollevazione galatica, tra i quadri plastici (v. stylopinakia) del Tempio di Apollonide a Cizico, Eumene II e il fratello Attalo inseriscono la Lupa con Romolo e Remo. Un altro soggetto che si ricostruisce dalla descrizione negli epigrammi dtWAnthologia Graeca, è la versione pergamena del Supplizio di Dirce (III, 7): «Anfione e Zeto, prole di Zeus, uccidete questa Dirce che voleva annientare vostra madre Antiope. Prima era lei a tenerla incatenata, nella sua folle gelosia. Ora ella stessa supplice v'implora gemendo». La scena ê documentata in questa guisa dal rilievo sulla lorica di una statua di Marco Antonio a Nasso: Dirce è posta in primo piano abbracciata alla gamba di Anfione, secondo il criterio pergameno d'invadere lo spazio dello spettatore con un elemento scioccante, il gesto di supplica che non ricorreva nel tipo rodio (v. rodia, arte).
Nel 159 all'avvento di Attalo II viene iniziata ad Atene la Stoà destinata a perpetuare il suo nome. In Pergamo veniva dedicata al vecchio Cratete la stele con l'apoteosi di Omero (v. vol. I, p. 543, s.v. Archelaos). Sotto le spoglie di Ecumene e Crono vi compaiono Apollonide e il figlio Attalo II: Omero viene a trovarsi letteralmente al centro del contesto politico e teologico, proprio dell'ideologia monarchica. Ma è la fantasia di Cratete, immortalato nella statua sulla destra della scena, a suscitare la spettacolare estasi di Muse e allegorie, che lo scultore dipana con raffinati mezzi miniaturistici nel paesaggio sacrale. L'interesse storico per la ricostruzione della personalità di Omero (proprio della filologia alessandrina) è superato dall'ansia di scoprirvi segrete precognizioni, intuizioni morali, e allusive trascendenze, secondo l'esegesi dei poemi epici da parte del bibliotecario di Pergamo, curatore anche di commentari a Le opere e i giorni di Esiodo: altro poeta presente ad Archelaos nell'articolare la successione delle Muse, e già imprescindibile referente per la cosmogonia nel Grande Altare.
Se Cratete si era opposto all'ideologia professata da Aristarco di Samotracia presso la Biblioteca dei Lagidi, alla sua morte l'ambiente pergameno avverte la palingenesi alessandrina, che riconosce nuovi eroi nei protagonisti della poesia idillica, nei lavoratori dei campi e del mare, infine nei derelitti e nei sofferenti per condanna di natura. Oggetto di rappresentazione restano a Pergamo pur sempre i Giganti, le Amazzoni, e i Barbari, variamente antagonisti degli dei e degli Elleni: ma i valori umani che già stemperavano i soggetti eroici, si fanno prevalenti nella diffusa sensibilità filosofica, nel raccoglimento di una cultura in crisi. L'ultima impresa collettiva di artisti, il c.d. Piccolo Donario, progettato e realizzato a Pergamo, ma tenendo presente l'ambientazione di una replica in Atene, è un pensiero sulla morte non lontano dalla meditazione che maturava in Egitto sulla fatica, la malattia e la vecchiaia.
Comune ai due mondi diventa la riduzione nella misura delle statue. La formula era stata sperimentata a Pergamo nella Telefeia, che in dialettica con la Gigantomachia aveva risolto a scala più modesta i nodi del mito. A contrasto con l'imponenza delle prime Galatomachie la diminuzione si applica ora nelle battaglie del Piccolo Donario, che proprio dalla rinuncia degli scultori alla misura naturale trae il nome convenzionale.
Fautore della trasmissione dei modi alessandrini è Apollodoro di Atene, che si era trasferito ad Alessandria per ascoltarvi l'antagonista di Cratete. Coinvolto nella cacciata degli intellettuali da parte di Tolemeo Fiscone nel 145/144, si rifugia a Pergamo, dove ormai Cratete era scomparso. La data coincide con la pacificazione della Tracia e la dedica del Piccolo Donario. Durante la rivolta di Andrisco contro i Romani, il pretendente al trono di Macedonia era stato sostenuto dai Traci. Nel 148, ancora una volta con l'appoggio della flotta pergamena, le legioni repressero il tentativo di ricostruzione del regno, e la Macedonia fu ridotta in provincia. Attalo II continuò le operazioni in Tracia contro il principe Diegili, che aveva sostenuto non solo Andrisco, ma precedentemente anche Prusia II di Bitinia, nella guerra contro Pergamo tra il 159 e il 154: i barbari avevano assalito il Chersoneso tracico, distruggendo Lisimachia. Nel 145 Attalo II debellò il principato costiero dei Traci, annettendone il territorio. Il regno di Pergamo raggiungeva così la sua massima estensione.
Ad Atene davanti alla Stoà di Attalo II viene innalzato l'imponente monumento di vittoria dove il sovrano appariva su una quadriga. Il Piccolo Donario dell'Acropoli rifonde l'immaginario attico con l'attualità della politica pergamena. Attraverso il mito, l'epica, la storia, e lo scenario geografico, l'opera esalta gli Attalidi nella concezione apollodorea della vicenda umana. Pausania (I, 25, 2) se ne fa eco quando precisa che vi si vedeva «la guerra leggendaria (μυθικός πόλεμος) dei Giganti, quelli che abitavano un tempo intorno alla Tracia e l'Istmo di Pallene», «la battaglia (μάχη) degli Ateniesi contro le Amazzoni», «la vittoria (κατόρθωμα) di Maratona contro i Medi» e «la strage (καταστροφή) dei Galati in Misia». Due dei soggetti, la rotta delle Amazzoni e la sconfitta dei Persiani, erano tra i fasti ateniesi non solo illustrati nei portici dell’Agorà, bensì magnificati sull'Acropoli, dove si colloca il nuovo donario. L'Amazzonomachia ornava le metope sulla facciata occidentale del Partenone, la vittoria degli Ateniesi sui Persiani veniva narrata nel fregio del Tempio di Atena Nìke. Nell'ideale gemellaggio tra Atene e Pergamo, si è fatto in modo che ai due episodi legati ad Atene corrispondessero altrettanti meriti del regno: la liberazione delle popolazioni elleniche dall'incubo dei Galati nel 166, e la sottomissione dei Traci del 145. Il primo trionfo veniva posto a conclusione di altre tre vittorie rispettivamente selezionate nel mito, nell'epica, e nella storia: successione opportuna, nella teoria di Apollodoro, poiché attraversava le ere del mondo, dalla stirpe dei figli della Terra, alla generazione degli eroi, alla storia antica e recente. Il successo sui Traci, come si evince dai ragguagli di Pausania sulla sede dei Giganti, veniva adombrato dalla ripresa stessa della Gigantomachia, che perfezionava la simmetria con le due imprese attiche, e stabiliva un ulteriore paragone con le metope orientali del Partenone, ben in vista per chi si accostasse al Piccolo Donario. A voler riconoscere infine i luoghi dove i quattro certami si erano svolti, essi si disponevano ai punti cardinali di un orizzonte che metteva Pergamo al centro della rievocazione. La Gigantomachia era già stata utilizzata nel Grande Altare quale simbolo dell'ostilità di Pergamo verso i Traci e la Macedonia, e tale significato veniva ora convalidato dalla successiva, favorevole conclusione della contesa: si tratta dunque degli avversari situati a occidente di Pergamo. La dimora delle Amazzoni che avevano avuto a che fare con Teseo era Temiscira, nel Ponto Galatico, teatro della guerra condotta da Eumene II contro Farnace I: traguardo settentrionale delle ingerenze pergamene in Anatolia. I Persiani adombravano l'armata siriaca, che includeva disparati popoli asiatici: per un secolo questa forza multinazionale aveva rappresentato la principale minaccia puntata dal meridione sul dominio di Pergamo; la battaglia di Magnesia aveva disperso quel potenziale militare, che trovava ora paragone con l'eterogenea armata di Dario. I Galati infine si erano stanziati a oriente della valle del Caico.
L'insistenza a ridurre le proporzioni, ad allontanare il soggetto dalla natura obiettiva per avvicinarlo allo spettatore, porta gli scultori pergameni della fase neoellenistica a ripensare altri complessi, a miniaturizzare le imprese di Eracle, Arianna a Nasso e la liberazione di Prometeo: quale estremo manifesto di autonomia, il piccolo formato diventa elemento di distinzione rispetto alle elaborazioni neoclassiche, che vengono altrove ricondotte alla proporzione naturale, se non spinte a una solenne promozione per i simulacri divini e per i ritratti in apoteosi degli Italici.
Le imprese di Eracle, parzialmente conservate da un rilievo ai musei di Berlino, saranno riflesse nei sarcofagi a colonne prodotti in Asia Minore. Un epigramma anonimo degli ultimi tempi della dinastia celebra questo Dodecàthlos con l'invocazione che l'eroe protegga «Pergamo invitta» (Anth. Gr., XVI, 91). Grazie al bronzo di media grandezza del Museo Regionale di Palermo (rinvenuto a Torre del Greco nelle vicinanze di Ercolano), abbiamo un'idea del gruppo originale in tutto tondo per quel che riguarda Eracle e la cerva. Lo schema segna uno sviluppo rispetto alla contesa fermata da Lisippo (v.) nel ciclo di Alizia, e che si rifletteva nei sarcofagi di fabbricazione urbana. Nel bronzo di Palermo, come nei sarcofagi asiatici, il vincitore ha già abbattuto la preda. Nella perentoria fermezza si avverte l'analogia con le allegorie dei Tolemei che trattengono un barbaro vinto alla lotta. È tale valore propagandistico è implicito a Pergamo, se l'Eracle in bronzo richiama i protagonisti dell'apoteosi di Attalo II nella Liberazione di Prometeo, il quadro plastico ai musei di Berlino: una copia in marmo del vincitore della Cerva, alla Ny Carlsberg Glyptotek, consente di verificare le somiglianze di struttura e di modellato, sia con l'immagine dell'eroico soccorritore (che ha i tratti fisionomici del sovrano), sia con quella del Titano incatenato. Simili sono infine la corporatura e il gestire di Teseo nel rilievo con Arianna a Nasso, copia di uno stylopinàkion da Villa Adriana, ai Musei Vaticani.
La plastica conta ancora a Pergamo un esponente di eccezione negli anni finali della monarchia: Attalo III, dopo aver approfondito le ricerche di botanica, «passò all'esercizio dell'arte dei bronzisti, e si divertiva a modellare in cera, a fondere il bronzo e a lavorarlo a sbalzo» (lust., XXXVI, 4, 4). L'esempio di quest'arte elitaria ci viene dal bronzetto di Eracle in riposo al museo di Bergama: elaborazione dagli schemi del IV sec. (ν. lisippo), che ha dato il nome al tipo di Pergamo (v. ercoli farnese, tipo B. 5).
Nel 133, con la morte di Attalo III, il regno passa in eredità al popolo romano. Gli scultori che non trovano sbocchi a Delo o ad Atene migrano verso l'Urbe e l'Etruria, con maggiore intensità rispetto alle precedenti generazioni che pure si erano diffuse sulle coste dell'Italia meridionale e centrale. I modelli di un'insuperata stagione dell'arte figurativa, agevolati dall'ulteriore riduzione dei formati, vengono trasferiti sistematicamente in Occidente, e nutrono la produzione delle urne minutamente scolpite a Volterra, Chiusi e Peragia, che tante volte ci soccorrono a ricostruire iconografie pergamene di più antica data.
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Ritratto di Filetero: U. Westermark, Das Bildnis des Philetairos, Uppsala 1961; H. Th. Lorenz, Galerien von griechischen Philosophenund Dichterbildnissen bei den Römern, Magonza 1965, p. 13, gruppo I, tav. VIII, 1; D. Pandermalis, Zum Programm der Statuenausstattung in der Villa dei Papiri, in AM, LXXXVI, 1971, pp. 173-209, in part. 199, n. 10, tav. LXXXIV, 3; M. R. Wojcik, La Villa dei Papiri ad Ercolano, Roma 1986, pp. 60-61, n. B.7, tav. XXXVI; R. R. R. Smith, Hellenistic Royal Portraits, Oxford 1988, pp. 74-75, 112-113, 159, n. 22, tav. XVII; N. Himmelmann, Herrscher und Athlet (cat.), Milano 1989, pp. 207-210, fig. 5, a-d; Β. Hintzen-Bohlen, Herrscherrepräsentation im Hellenismus, Colonia-Weimar-Vienna 1992, p. 83; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 259-262, figg. 332-333, 380.
Iscrizione di Asklapon, figlio di Phyromachos: Ch. Kantzia, G. Zimmer, Rhodische Kolosse, in AA, 1989, pp. 497-523, in part. p. 505; Β. Andreae, Der Asklepios des Phyromachos, in Β. Andreae (ed.), Phyromachos-Probleme, Magonza 1990, pp. 43-100, in part. p. 99.
Stele di Cizico: E. Pfuhl, H. Möbius, Die östgriechischen Grabreliefs, I, Magonza 1977, p. 43, n. 29, tav. CCCXXXII; R. Wenning, Die Galateranatheme Attalos I (Pergamenische Forschungen, 4), Berlino 1978, tav. I, I; H. Meyer, Kunst und Geschichte. Zur antiken Historien Kunst, Monaco 1983, pp. 62, 113; H.-J. Schalles, Untersuchungen..., cit., pp. 39-40, nota 263; N. Stampolidis, Ο Βωμός του Διονυσου στην Κω (ADelt, Suppl. XXXIV), Atene 1987, tav. LVIa; J. Boardman, in LIMC, V, p. 118, n. 2813, tav. CX, s.v. Herakles; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 217-218, fig. 272.
Statua ritratto di Bione di Boristene (c.d. Filosofo di Anticitera): P. C. Boi, Die Skulpturen des Schiffsfundes von Antikythera, Berlino 1972, pp. 24-27, tavv. X-XI; Κ. Dohan Morow, Greek Footwear and the Dating of Sculpture, Madison 1985, p. 115, tavv. C a-b, CI a-b (le trochàdes calzate dal personaggio sono anteriori al II sec. a.C.); S. Karouzou, Der Bronzekopf aus Antikythera. Ein kynischer Philosoph, in Pro arte antiqua. Festschrift H. Kenner, II, Vienna-Berlino 1985, pp.· 207-213; B. Sismondo Ridgway, Hellenistic Sculpture, I, cit., p. 57, tav. XXXII; A. Stewart, Greek Sculpture, cit., p. 273, fig. 778; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 271-274, figg. 336-337, 340.
Donario circolare: E. Künzl, Frühhellenistische Gruppen (diss.), Colonia 1968, pp. 121-122; id., Die Kelten des Epígonos von Pergamon, Würzburg 1971, tav. XXII; R. Wenning, Die Galateranatheme Attalos /..., cit.; F. Coarelli, II «Grande donario» di Attalo I, in I Galli e l'Italia, (cat.), Roma 1979, pp. 231-298, figg. 30-32; R. Özgan, Bemerkungen zum grossen Gallieranatheme, in AA, 1981, pp. 489-510; Β. Palma, in A. Giuliano (ed.), Museo Nazionale Romano. Le sculture, I, 5, Roma 1983, pp. 146-152, n. 64; H.-J. Schalles, Untersuchungen..., cit., p. 68; G. Calcani, Galati modello, in RIA, X, 1987, pp. 153-174; M. Mattei e altri, Il Galata Capitolino, Roma 1987; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 274-284, figg. 331, 244, 346-349, 351, 353, 634.
Donario di Epigenes: M. Fraenkel, Altertümer von Pergamon, VIII, 1, Inschriften, Berlino 1890, pp. 29-30, n. 29; W. Radt, Pergamon, cit., p. 187; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 284-285.
Grande donario: M. Fraenkel, Altertümer von Pergamon, VIII, 1, ..., cit., pp. 24-29, nn. 21-28; E. Künzl, Die Kelten..., cit.; T. Hölscher, Die Geschlagenen..., cit., p. 120; F. Coarelli, II «Grande donario»..., cit., pp. 231-298; R. Özgan, Bemerkungen..., cit.; H.-J. Schalles, Untersuchungen..., cit., p. 68; M. Mattei e altri, Il Galata Capitolino, cit., p. 57 ss.; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 285-287, figg. 350, 352, 354.
Fauno Barberini: H. Bulle, Der Barberinische Faun, in Jdl, XVI, 1901, pp. 1-18; S. McNally, Ariadne and Others. Images of Sleep in Greek and Early Roman Art, in CalifStClAnt, IV, 1985, pp. 152-192, in part. p. 172, tav. XIV, fig. 16; F. Haskell, N. Penny, L'antico nella storia del gusto. La seduzione della scultura classica, 1500-1900, Torino 1984, pp. 286-290, n. 36, figg. 16, 108; Η. Walter, Der schlafender Satyr in der Glyptothek in München, in Studien zur klassische Archäologie. Festschrift F. Hiller, Saarbrücken 1986, pp. 91-120; M. Guggisberg, in E. Berger (ed.), Antike Kunstwerke aus der Sammlung Ludwig, III, Magonza 1990, p. 310, tav. XXXII, I; B. Sismondo Ridgway, Hellenistic Sculpture, I, cit., pp. 313-316, fig. 39, tav. CLVII; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 287-290, figg. 355-356.
Arianna dormiente: M. L. Morricone, Il Museo dei Gessi dell'Università di Roma, Roma 1981, p. 26, fig. 44 (corretta inclinazione della scultura rispetto all'esposizione in Vaticano); F. Haskell, Ν. Penny, L'antico nella storia del gusto... cit., pp. 246-251, n. 24, figg. 42, 96; S. McNally, Ariadne..., cit., p. 172, tav. XIX, fig. 21; M. L. Bernhard, V. A. Daszewski, in LIMC, III, 1986, p. 1062, nn. 118-119, tav. DCCXXXIII, s.v. Ariadne; B. Sismondo Ridgway, Hellenistic Sculpture..., cit., pp. 330-331, tavv. CLXVIII-CLXXI; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 290-292, fig. 360.
Donario di Attalo I a Delfi: G. Roux, Fouilles de Delphes, 2. Topographie et architecture. La terrasse d'Attale I, Parigi 1987, pp. 51-75, tav. fuori testo IV, p. 139, tav. LXII, fig. 203 (iscrizione che cita la Stoà); J.-F. Bommelaer, D. La Roche, Guide de Delphes. Le site, Parigi 1991, pp. 191-192, n. 502; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 305-307, figg. 389-392.
Cavaliere dell'Artemisio: H. Walter, Zur späthellenistischen Plastik, in AM, Lxxvi, 1961, pp. 149-159, tav. LXXX, 1; C. Rolley, Les bronzes grecs, Friburgo-Parigi 1983, p. 46, fig. 26; Κ. Dohan Morow, Greek Footwear..., cit., pp. 121, 214, nota 69, fig. 109; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 296-302, figg· 368, 370-375, 377, 379) 381, 382.
Galata di Delo: J. Marcadé, Au Musée de Délos, Parigi 1969, pp. 112, 119-122, 363-366, tav. LXXX; R. Wenning, Die Galateranatheme Attalos /..., cit., pp. 24-27; H.-J. Schalles, Untersuchungen..., cit., p. 61, nota 386 (non accetta la datazione al III sec., né la ricomposizione della testa); P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 302-305, figg. 376, 386. - Urne etrusche con Galatomachia: U. Höckmann, Gallierdarstellungen in der etruskischen Grabkunst, in Jdl, CVI, 1991, p. 199 ss.
Fregio d'armi: H. Droysen, Die Baiaustradenreliefs, in R. Bohn, Altertümer von Pergamon, II. Das Heiligtum der Athena Polias Nikephoros, Berlino 1885, ΡΡ· 95-138, tavv. XLIII-L; H.-J. Schalles, Untersuchungen..., cit., pp. 5-7, 16, 20; G. Heres, M. Kunze, Staatliche Museen..., cit., pp. 64-65, n. 2; P. Dintsis, Hellenistische Helme, I, Roma 1986, pp. 230, n. 83; 241, nn. 115-116; 247, n. 132; 295, n. 259, tav. LXXIII, 5; G. Waurick, Römische Helme, in Antike Helme (cat.), Magonza 1988, pp. 327-364, in part. 362, fig. 17; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 427-429, figg. 465, 540-543.
Altare di Zeus: W. Müller, Der Pergamon-Altar, Lipsia 1978; Κ. Stähler, Überlegungen zur architektonischen Gestalt des Pergamon Altares, in Studien zur Religion und Kultur Kleinasiens. Festschrift K. Dörner, Leida 1978, pp. 838-867; R. J. Callaghan, On the Date of the Great Altar of Zeus at Pergamon, in BICS, XXVIII, 1981, pp. 115-121; E. Rhode, Pergamon, Burgberg und Altar, Berlino-Monaco 1982; M. Kunze, in Staatliche Museen..., cit., pp. 21-62, n. 1.1-1.30; Ch. Börker, Zur Datierung des Pergamon-Altares, in Akten des XIII. Kongresses..., cit., pp. 591-592; F.-H. Pairault-Massa, De Magnésie du Méandre à Pergame. Mythologie et politique dans le bas-relief des autels micro-asiatiques, ibid., p. 375; M. Kunze, Neue Beobachtungen zum Pergamonaltar, in B. Andreae (ed.), Phyromachos-Probleme, cit., pp. 123-139, figg. 1-3, tav. LXXXVII, I; Th.- M. Schmidt, Der späte Beginn und der vorzeitige Abbruch der Arbeiten am Pergamonaltar, ibid., pp. 141-162 (datazione dopo il 166); E.-L. Schwandner, Beobachtungen zu hellenistischer Tempelarchitektur von Pergamon, in Hermogenes und die hochhellenistische Architektur. Internationales Kolloquium, Berlin 1988, Magonza 1990, p. 91, fig. 7; Α. Stewart, Greek Sculpture, cit., pp. 210-211, figg. 692-693, 711; W. Hoepfner, Bauliche Details am Pergamonaltar, in AA, 1991, pp. 190-302; R. R. R. Smith, Hellenistic Sculpture, cit., pp. 155-180, figg. 193-199; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 429-491, figg. 545, 546, 548-561, 563, 564, 567-569, 573-583, 585, 587-601, 603-607, 609, 612. - Gigantomachia: D. Haynes, The Workshop Relief, in JbBerlMus, V, 1963, p. 1-13; E. Rohde, Funde zur sogennanten Beissergruppe am Pergamon Nordfries, in AA, 1964, pp. 91-99; G. Kleiner, Die Istanbuler Platte vom pergamenischen Gigantenfries, in IstMitt, XVII, 1967, pp. 168-172; U. Süssenbach, Der Frühhellenismus im griechischen Kampf-Relief. Versuch einer Rekonstruktion der Stilentwicklung vom Mausoleum von Halikamassos bis zum Grossen Altarfries von Pergamon, Bonn 1971; E. Simon, Pergamon und Hesiod, Magonza 1975 (ispirazione dalla Teogonia di Esiodo, elaborazione da parte di Cratete di Mallo); Ch. Börker, Ein Linkshänder im Gigantenkampf?, in AA, 1978, p. 285 ss.; M. Pfanner, Bemerkungen zur Komposition und Interpretation des Grossen Frieses von Pergamon, ibid., 1979, pp. 46-57; W. Radt, Der «Alexanderkopf» in Istanbul. Ein Kopf aus dem Grossen Fries des Pergamon-Altars, ibid., 1981, pp. 583-596; H. Meyer, Kunst und Geschichte, cit., pp. 56-72, figg. 8, 10, 11; W. Neumer-Pfau, Die kämpfenden Götter vom Grossen Fries des Pergamonaltars, in Visible Religion, II, 1983, pp. 75-94; Κ. Dohan Morow, Greek Footwear..., cit., pp. 84, 94, 108-109, 111-112, 119, 122-125, 136-139, 141, 162, fig. 8 f, tavv. LXXXI-LXXXV, 112-120,122; M. Vickers, The Thunderbolt of Zeus. Y et More Fragments of the Pergamon Altar in the Arundel Collection, in AJA, LXXXIX, 1985, pp. 516-519; M. Kunze, Der Grosse Fries des Pergamonaltars. Zur Geschichte seiner Rekonstruktion, in " Wir haben eine ganze Kunstepoche gefunden». Sonderausstellung in Pergamonmuseum (cat.), Berlino 1987, p. 34; A. Stewart, Narration and Allusion in Hellenistic Baroque, in P. J. Holliday (ed.), Narration and Event in Ancient Art, Cambridge 1993, pp. 153-169, figg. 55-57, 61. - Telefeia: K. Stähler, Das unklassische im Telephosfries. Die Friese des Pergamonaltars in Rahmen der hellenistischen Plastik, Münster 1966; C. Bauchhenss-Thüriedl, Der Mythos von Telephos, Würzburg 1971; id., in LIMC, III, 1986, pp. 45-51, nn. 7, 25, 27, 28, tavv. XLVI, L, s.v. Auge; P. Dintsis, Hellenistiche Helme, cit., pp. 247, n. 133; 284, n. 234, tav. LIX, 3; J. Boardman, in LIMC, V, 1990, cit., pp. 114-115.
Testa di Marsia (c.d. Wilder Mann): E. Künzl, Der «Wilde Mann» aus Pergamon: Marsyas, in AKorrBl, VIII, 1976, pp. 33-37; A. Stewart, Greek Sculpture, cit., pp. 209-210, figg. 683-684; R. R. R. Smith, Hellenistic Sculpture, p. 157, fig. 189; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 405, 491, 492, fig. 584.
Asclepio di Gortina: Β. Holtzmann, in LIMC, II, 1984, p. 883, n. 242, s.v. Asklepios; P. Kranz, Bemerkungen zum Bonner Asklepios-Pinax, in Beiträge zur Ikonographie und Hermeneutik. Festschrift N. Himmelmann, Magonza 1989, pp. 289-295, tav. XLVII, 4.
Statua loricata di Marco Antonio: V. Lambrinoudakis, Neues zur Ikonographie der Dirke, in Beiträge zur Ikonographie..., cit., pp. 341-350, tavv. LII-LIV; Ch. Kunze, Dall'originale greco alla copia, in II Toro Farnese (cat.), Napoli 1991, pp. 13-42, in part. pp. 17, 40, nota 37; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 372, 494, fig. 620.
Apoteosi di Omero: D. Pinkwart, Das Relief des Archelaos von Priene, in AntPl, IV, 1965, pp. 55-65, tavv. XXVIII-XXXV; G. Μ. Α. Richter, The Portraits of the Greeks, Londra 1965, I, p. 54, fig. 120 (Omero); III, p. 265, fig. 1831 (Arsinoe III e Tolemeo IV nei volti di Oikoumène e Chrànos); E. Voutyras, "Περι της Κρατητειου αιρεσεως". Σκεψεις γυρο απο το αναγλυφο του Αρχέλαου απο την Πριηνη, in Egnatia, I, 1989, pp. 129-170 (identificazione di Apollonide e Attalo II); B. Sismondo Ridgway, Hellenistic Sculpture, cit., pp. 257-258, tav. CXXXIII; R. Fleischer, Studien zur seleukidischen Kunst, I. Herrscherbildnisse, Magonza 1991, p. 79, fig. 45 a-b (eventuale identificazione di Cleopatra Thea e Antioco VIII di Siria); E. Lygouri-Tolia, in LIMC, VI, 1992, pp. 696-697, n. 1, s.v. Mythos; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 18, 411, 513, figg. 520, 521, 523, 608; II, pp. 561-563, 574-579, 640-644, figg. 689, 737.
Piccolo donario: L. De Lachenal, in A. Giuliano (ed.), Museo Nazionale Romano. Le sculture, I, 1, Roma 1979, pp. 162-163, n. 111; B. Palma, Il Piccolo Donario pergamena, in Xenia, 1, 1981, pp. 45-84; ead., Appunti preliminari ad uno studio sul piccolo donario pergameno, in Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di A. Adriani, III, Roma 1984, pp. 772-782; T. Hölscher, Die Geschlagenen..., cit., pp. 120-136; G. Calcani, Galati modello, cit., pp. 162-170, figg. 7, 13-15; K. Kell, Formuntersuchungen zu spätund nachhellenistischen Gruppen, Saarbrücken 1988; F. Vian, Μ. Β. Moore, in LIMC, IV, 1988, p. 206, n. 23, s.v. Gigantes; Β. Sismondo Ridgway, Hellenistic Sculpture..., cit., pp. 290-296, fig. 37, tavv. CXLIV-CLI; F. Queyrel, Art pergaménien, histoire, collections. Le Perse du Musée d'Aix et le petit ex-voto attalide, in BA, 1989, pp. 253-296; B. Andreae, Der Asklepios des Phyromachos, cit., pp. 45-100, in part. pp. 49-54, tavv. XXXVIII-XLIII, 2; id., Il messaggio politico di gruppi scultorei ellenistici, in Aspetti e problemi dell'ellenismo, Pisa 1992, Pisa 1994, pp. 119-136, figg. 4-5; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., pp. 586-589, figg. 705-707, 709, 711-715, 717, 719-727, 729, 730, 732, 733, 749.
Arianna a Nasso, stylopinàkion da Villa Adriana: W. Fuchs, in Helbigf, I, 1963, pp. 112-113, n. 147; M· L. Bernhard, V. A. Daszewski, in LIMC, III, cit., p. 1058, n. 68, tav. DCCXXX; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., pp. 568, 570, 597, 598, 600, fig. 741.
Eracle e Cerva, Palermo, Museo Regionale: M. Bieber The Sculpture of the Hellenistic Age... cit., pp. 36, 74, fig. 78; E. Künzl, Frühhellenistische Gruppen, cit., pp. 140-142, fig. 20 (mette opportunamente in dubbio la pertinenza a Lisippo); J. Boardman, in LIMC, V, cit., p. 51, n. 2215, tav. LXIX, s.v. Herakles; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., pp. 602-603, fig. 745. - Eracle e Cerva, Copenaghen, Ny Carslberg Glyptotek: F. Poulsen, Catalogue of Ancient Sculpture in the Ny Carslberg Glyptotek, Copenaghen 1951, pp. 195-196, n. 263 a; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., p. 604, fig. 744.
Fennide (c.d. Fanciulla d'Anzio): H. von Prott, Dionysos Kathegemon, in AM, XXVII, 1902, pp. 161-188, in part. p. 162 (responso di Fennide sulla vittoria sui Galati); P. Mingazzini, La Fanciulla d'Anzio, in Jdl" LXXXI, 1966, pp. 173-183 (attribuzione alla scuola pergamena); H. Lauter, Neues zum Mädchen von Antium, in AM, LXXXVI, 1971, pp. 109-124; L. De Lachenal, in A. Giuliano (ed.), Museo Nazionale Romano. Le Sculture, I, I, cit., pp. 186-192, n. 121; G. A. Cellini, La Fanciulla d'Anzio, in StUrbin, LVI, 1983, pp. 11-44; I. McPhee, in LIMC, IV, 1986, p. 718, n. 80, s.v. Elektra ι; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 308-318, figg. 395, 399, 400, 402.
Sacello di Dioniso sulla terrazza di Attalo I a Delfi: G. Roux, Fouilles de Delphes, 2..., cit., pp. 79-114, tavv. fuori testo III, VIII, XI.
Fregio di Civitalba: M. Verzar, Civitalba, in I Galli e l'Italia, cit., pp. 196-203, n. 544; F.-H. Massa-Pairault, Recherches sur l'art et l'artisanat étrusco-italiques à l'époque hellénistique, Roma 1985, pp. 143-146, fig. 80; N. Stampolidis, Ο Βωμός..., cit., tavv. LIV a, LXI b; B. Andreae, L'immagine dei Celti nel mondo antico: arte ellenistica, in I Celti (cat.), Milano 1991, pp. 61-69, in part. p. 63, ivi figura; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 494-499, figg. 623, 625. - Frontone: F.-H. Massa-Pairault, Recherches..., cit., pp. 143-146, figg. 81-89; S. McNally, Ariadne and Others..., cit., p. 176, tav. XVIII, fig. 20; tav. XIX, fig. 21; P. Moreno, Scultura ellenistica, I, cit., pp. 495, 498, 499, fig. 621; II, pp. 664, 668, fig. 738.
Rilievo con imprese di Eracle: F. Winter, Altertümer von Pergamon, VII, 2. Die Skulpturen, Berlino, 1908, pp. 308-309, n. 398, Suppl. 38.
Liberazione di Prometeo: G. Heres, M. Kunze, Staatliche Museen..., cit., p. 174, n. 73 (datazione al tempo di Attalo II); N. Himmelmann, Herrscher und Athlet, cit., pp. 210-216, n 7, fig. 57; Α. Nercessian, in LIMC, V, 1990, p. 973, n. 1, tav. DCXVI, s.v. Kaukasos; B. Hintzen-Bohlen, Die PrometheusGruppe im Athenaheiligtum zu Pergamon. Ein Beitrag zur Repräsentation der Attaliden, in IstMitt, XL, 1990, pp. 145-156, tavv. XXII, 1-3; XXIII, 1, 2, 5; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., pp. 568, 591, 598-603, figg. 734, 739, 743.
Eracle in riposo, bronzetto, Bergama, Museo: D. Pinkwart, Drei späthellenistische Bronzen vom Burgberg in Pergamon, in Pergamon. Gesammelte Aufsätze (Pergamenische Forschungen, I), Berlino 1972, pp. 115-139, in part. pp. 115-124, n. 1, figg. 1-9; P. Moreno, Scultura ellenistica, II, cit., p. 569, fig. 747.