PALMIRENA, Arte
La fortuna di Palmira (v.) fu direttamente legata al commercio carovaniero che, transitando per la città, ne determinò la ricchezza per circa 300 anni. L'inizio della fioritura di Palmira deve porsi approssimativamente attorno alla metà del I sec. a. C. (l'iscrizione più antica della città è del 44 a. C.). Quando, con Augusto, si pose fine al contrasto tra Roma e la Parthia attraverso una tacita intesa diplomatica che doveva protrarsi sino al regno di Traiano, il commercio carovaniero attraverso la Siria e lungo l'Eufrate (e di lì verso la Persia e l'Asia centrale) si riattivò (sino a raggiungere proporzioni mai verificatesi per l'innanzi) a causa dell'enorme richiesta di beni di consumo da parte del mondo romano. Durante tale periodo Palmira raggiunse l'apogeo della propria potenza attraverso una neutralità che la rendeva indispensabile ai due imperi tra i quali veniva a porsi. Fu allora che la città dovette uscire dai limiti di un ordinamento regionale, arricchendosi di vie colonnate, di templi, di depositi di mercanzie, di tombe monumentali che ne condizionarono la fisionomia successiva. Attraverso grandi opere pubbliche si provvide all'approvvigionamento idrico della città e all'estendere le aree coltivabili attorno ad essa, alla colonizzazione del territorio adiacente (particolarmente nella regione nord-occidentale). La popolazione, che doveva essere estremamente mista, ma nella quale doveva prevalere quella di origine araba, si reggeva con costituzioni proprie basate su una oligarchia commerciale che, data la importanza dei traffici, investiva gran parte della città. I culti, che sin dalla origine manifestano un carattere sincretistico, dovettero accentuare tale motivo. Con il principio del II sec. la politica di indipendenza che caratterizzava la città subì una flessione ad opera di Traiano nel desiderio di quell'imperatore di conquistare completamente la Parthia. Tale politica, avversata da Palmira, che vedeva in tal modo scemare i proprî caratteri di indipendenza e soprattutto di mediazione tra l'Impero Romano e quello parthico, cessò con la morte di Traiano. L'abbandono del tentativo egemonico da parte di Adriano, attraverso l'evacuazione delle province di Armenia, Mesopotamia ed Assiria, dové ridare a Palmira il suo carattere di città indipendente. Anche se infatti da allora essa entrò direttamente a far parte dell'Impero Romano, la sua struttura politica e commerciale fu tale da lasciare intendere che il governatore romano doveva essere considerato più un controllore delle varie attività cittadine che restavano al potere locale, che il supremo regolatore di esse. Malgrado la ellenizzazione della popolazione, una parte della quale ebbe la cittadinanza romana, le prerogative locali rimasero quanto mai intense. A questo periodo di felice prosperità, che durò sino al principio del III sec., risalgono gran parte dei monumenti di Palmira; da questo momento inoltre i caratteri della cultura palmirena iniziano a disperdersi in tutta l'area dell'Impero. La città forniva infatti all'esercito romano un gran numero di cavalieri e di soldati destinati alle guarnigioni provinciali, dall'Africa settentrionale al limes renano e danubiano. I suoi mercanti non si appagano di essere i mediatori tra il mondo romano e quello partitico, ma cercano di monopolizzare il commercio con l'Oriente sia organizzando carovane e traffici proprî, sia cercando di deviare a Palmira i commerci dell'Arabia, sia impiantando proprie stazioni commerciali in Parthia e nell' Impero Romano (Dacia, Gallia, Spagna, Egitto, Roma). La tariffa di Palmira, databile al 138 d. C., documenta sia il numero delle merci commerciate dai Palmireni, sia la perfetta organizzazione finanziaria e giuridica del mercato. In tal maniera la cultura palmirena, sino allora ristretta nell'ambito cittadino, divenne uno dei motivi formativi del mondo romano. Con il principio del III sec., nel desiderio degli imperatori, da Settimio Severo in poi, di occupare la Parthia e di difendersi dal pericolo dello stato sassanide che nel frattempo era andato organizzandosi, Palmira assunse un ruolo di importanza vitale per tutto l'Impero.
Numerosi Palmireni entrarono nell'aristocrazia imperiale, quasi tutta la popolazione optò per la cittadinanza romana.
Da allora il fenomeno palmireno divenne il centro della politica imperiale. La città fornì all'imperatore contingenti regolari di soldati, essa fu quasi investita della funzione di difendere il limes dell'Eufrate dai Sassanidi. Palmira assunse in tal modo potere sempre maggiore, quasi divenne uno stato entro lo stato; una famiglia della città, quella degli Iuli Aureli Septimi divenne una piccola dinastia principesca. Con Valeriano, Odenato (Odainat) assunse il titolo di Re dei Re, rifacendosi alla titolatura arsacide e divenendo quasi l'alter ego dell'imperatore in Siria. Vaballato (Wahballat), figlio di Odenato, sotto la reggenza della madre Zenobia, estese il potere della città dall'Asia Minore all'Egitto. Aureliano, nel 272, preoccupato dal formarsi di un impero nell'Impero, distrusse la città mettendo fine al tentativo autonomistico di essa. Questi gli avvenimenti principali che permisero alla città di assumere un ruolo molto notevole in età romana.
Ancor prima di definire i caratteri del mondo figurativo palmireno sarà opportuno esaminare per classi i monumenti della cultura figurativa della città.
Architettura. - La sistemazione urbanistica di Palmira (v.) si presenta poco coerente, caratterizzata da due centri principali, l'uno rappresentato dal santuario di Bēl, l'altro dal Campo di Diocleziano. La via colonnata che unisce i due centri non si presenta rettilinea, l'area della città occupata completamente solo nel II sec. d. C. presenta pertanto uno schema oblungo. La caratteristica ripartizione ortogonale delle strade (modificata con non poca casualità sulla base di esigenze particolari), ha fatto pensare che Palmira, come la maggioranza delle città siriane, derivi lo schema urbanistico da Seleucia al Tigri, la città che più di ogni altra dovette influenzarla sin dal momento della fondazione. Il rapporto degli isolati delimitati dalle vie ortogonali richiama infatti (nell'adozione di unità di misura e nel rapporto tra esse) soluzioni comuni alla grande maggioranza delle città siriane. I singoli elementi costitutivi delle architetture palmirene testimoniano l'adozione di formule occidentali quali si manifestano nella grande via colonnata, nella pianta di alcnni edifici (templi, teatri, terme, tetrapili), nell'uso di elementi architettonici tra i quali caratteristici i capitelli corinzî di derivazione antiochena. Ma più che un generico occidentalismo si tratta in sostanza di una ripresa di elementi architettonici dell'ellenismo asiatico comune a gran parte delle città orientali dell'Impero e che dovette avere ad Antiochia il centro diffusore.
Ma anche nel motivo di adozione di tali architetture, genericamente asiatiche, il confronto con il mondo classico è spesso solo di superficie. Se infatti le forme sono comuni a quelle dell'area orientale dell'Impero Romano, il loro uso tradisce tali varianti da far ritenere che delle architetture canoniche si sia ritenuto più uno spunto iniziale che la sostanza architettonica di insieme. Motivi di indipendenza compaiono in particolare nel variare del modulo classico dei singoli elementi architettonici (colonne, architravi, cornici), nell'aggiunta di singoli elementi estranei all'architettura classica (finestre nelle celle dei templi, mensole addossate alle colonne e destinate a sostenere statue onorarie) che, insieme all'uso particolare della decorazione architettonica che riveste (più che sottolineare gli elementi delle architetture con un prezioso decorativismo veduto come fine a se stesso e mai complementare della struttura architettonica), documenta l'esteriorità del richiamo ai precedenti classici o ellenistici di gran parte degli eddici della città.
Da tale adesione formale ai canoni del mondo ellenistico romano si distaccano inoltre quegli eddici destinati al culto o ad usi pratici nei quali le esigenze tradizionali delle popolazioni palmirene si fanno sentire con prerogative proprie, estranee alla generica tradizione occidentale. Si tratta, in particolare, degli edifici di culto, delle case di abitazione, delle tombe, quegli edifici nei quali le convenzioni occidentali non bastano a soddisfare modi e costumi radicati nella popolazione orientale, estranea al mondo classico, della città.
Se nel tempio di Bēl costruito durante il regno di Tiberio lo schema dell'edificio è di generica tradizione occidentale alcuni dettagli, come i pinnacoli decorativi del tetto (peraltro accessibile) tradiscono la loro origine mesopotamica. Questa si mostra inoltre in maniera quanto mai precisa nell'impianto di insieme del santuario, caratterizzato da un ampio cortile in centro al quale sorge il tempio accessibile da uno dei lati lunghi, che presenta una singolare ripartizione della cella deformata rispetto al modulo classico in fluizione delle necessità del culto delle divinità in essa adorate. Nelle case di abitazione, spesso caratterizzate da un iwān (che permette di confrontarle con alcune di Dura) l'influenza occidentale cede a caratteri più tipicamente parthici.
Le tombe nelle necropoli possono essere sostanzialmente divise in tre tipi: uno di tradizione genericamente occidentale, in forma di tempio; gli altri, a torre e a ipogeo, rispettivamente di tipo iranico e semitico.
Se nelle architetture si assiste ad una commistione tra schemi classici ed altri di tradizione più specificatamente orientale, con il risultato di un estremo eclettismo non facilmente definibile, l'originalità dell'arte p. si manifesta in particolare nella scultura dove qualsiasi derivazione dallo stile occidentale sembra cedere di fronte a moduli di assoluta originalità.
Scultura. - Purtroppo non possiamo aver un'idea delle statue onorarie erette sulle mensole della via colonnata e di altri edifici della città. La tariffa di Palmira ricorda sculture bronzee importate nella città, di bronzo dovevano essere la grandissima maggioranza delle statue erette sulle mensole delle colonne. Il metallo, necessario alla fusione, è estremamente raro in Siria, ed è stato proposto infatti che gran parte delle sculture bronzee di Palmira dovevano essere importate, forse da Seleucia. Probabilmente esse, che servirono da spunto per numerose statue funerarie, dovevano presentare analogie con quella di arte parthica, probabilmente fusa (almeno per quanto riguarda la testa) a Seleucia, rinvenuta a Shami, caratteristica per la intensa frontalità del personaggio rappresentato. In modo molto preciso è conosciuta a P. la produzione di sculture di pietra, che può essere suddivisa in classi cronologiche abbastanza esatte sulla base delle iscrizioni accompagnate dalla citazione dell'anno (dell'epoca seleucide, con inizio 1° ottobre 312 a. C.) che compaiono su alcuni rilievi votivi e funerarî. Le sculture più antiche provengono dal santuario di Bēl e sono databili prima della ricostruzione tiberiana del santuario stesso. Si tratta di pochi frammenti che mostrano la rappresentazione di profilo di alcune figure, di fisionomia artistica ancora indefinita e di lontana derivazione ellenistica. Ma già nei rilievi decorativi del santuario tiberiano di Bēl, e nei primi busti funerarî (il primo tra quelli forniti di iscrizione databile al 65-66 d. C.) la scultura palmirena mostra di aver definito i proprî caratteri stilistici che si ripeteranno quanto mai tipici e costanti in tutta la produzione della città. I monumenti della scultura palmirena (oltre agli elementi decorativi delle architetture, ai quali è stato accennato, caratterizzati da una estrema stilizzazione che fa loro assumere un valore grafico di superficie) sono rappresentati particolarmente dai rilievi. Questi possono essere suddivisi in rilievi decorativi con scene mitiche e di culto (caratteristici quelli del tempio di Bēl), in rilievi votivi e cultuali e particolarmente nella numerosissima serie dei rilievi funerarî. Destinati alla chiusura dei loculi nei monumenti funerarî, più raramente lavorati come stele, questi rappresentano le figure dei defunti, a mezzo busto o intere (in questo caso stanti o distese su un letto dalle zampe tornite, coperto di materassi e cuscini riccamente ornati). In molti casi il letto funebre si identifica con un sarcofago, sulla fronte del quale possono essere rappresentati fatti della vita del defunto. La presenza di alcune iscrizioni contrassegnate dalla cronologia seleucide ha permesso allo Ingholt di stabilire tre momenti nella produzione delle sculture funerarie palmirene; lo studio delle oreficerie che ornano le figure femminili ha permesso di articolare ancora meglio la classificazione proposta da quello studioso. Ma le periodizzazioni sinora esposte che possono servire al fine di una suddivisione interna, specialistica, delle sculture di Palmira, non compaiono con estrema evidenza nella sostanziale unità stilistica e iconografica quanto mai costante durante tutta la produzione della città. Caratterizzano le sculture palmirene alcuni particolari iconografici, caratteristici particolarmente nelle figure maschili, di derivazione iranica. L'uso di vesti barbariche (caratteristici i pantaloni e le calzature), tagliate in stoffe riccamente ornate, con bordure e costolature più spesse caratterizzate da una decorazione a elementi vegetali, trova come corrispondente nelle figure femminili una ricchissima decorazione di oreficerie (diademi, collane, orecchini, bracciali) che nella loro pesantezza richiamano da un lato le ornamentazioni barbariche delle popolazioni nomadi della steppa, dall'altro il gusto fastoso delle oreficerie achemènidi. La scultura palmirena è caratterizzata da una predilezione per la rappresentazione frontale dei personaggi, a volte affiancati paratatticamente e veduti in un ripetersi ieratico di pose e di atteggiamenti (sempre schematici) che valgono a stabilire la sostanza divina o la posizione sociale delle divinità o dei personaggi rappresentati. Le figure umane divengono rappresentative di una loro condizione sociale, tutta terrena, della quale le vesti sontuose e i gioielli sono gli elementi distintivi. Tale convenzionalismo contrario a qualsiasi concezione naturalistica determina il disperdere l'attenzione dello scultore negli elementi singoli del costume e della fisionomia del committente. Si nota, nelle singole figure, una gradualità gerarchica di valori nella diversa importanza attribuita agli elementi fisionomici sulla base della loro rappresentatività. Tale gradualità gerarchica determina, nei rilievi decorati con più figure, maggiori o minori dimensioni attribuite a varî personaggi sulla base della loro importanza. Essi sono tutti sottoposti (nei rilievi ove esse compaiono) alle figure delle divinità, sempre rappresentate in veduta frontale (tale motivo della frontalità che è costante nell'arte p., deriva in essa dal mondo parthico, ove, almeno nella monetazione, sembra comparire sin dalla metà del II sec. a. C.).
Accanto alla precisa descrizione dei singoli elementi, indicati plasticamente solo ove indispensabili ai fini della indicazione degli individui, gli elementi accessorî (sia fisionomici che di costume) assumono un valore decorativo, di arabesco, analogo, nell'andamento sinuoso, a quello della stessa scrittura epigrafica palmirena (spesso utilizzata nei rilievi con fine decorativo) che il fondo delle sculture, neutro, serve, con la implicita negazione di qualsiasi esigenza spaziale, a fare ancora meglio risaltare. Nella mescolanza di elementi reali e simbolici, nella disposizione su uno stesso piano di figure umane e divine (queste distinte solo dagli attributi), nella indifferenza per qualsiasi notazione spaziale e di paesaggio, nella frontalità e nella gerarchia rappresentativa dei personaggi, l'arte p. anticipa di alcuni secoli i motivi e le convenzioni che saranno caratteristici dell'arte tardo-antica.
Pittura. - La pittura non è rappresentata a Palmira in modo così completo come la scultura (ma tale lacuna può forse essere supplita ove si considerino le notevolissime analogie tra le pitture palmirene e quelle di Dura che presentano analoghi fenomeni stilistici e iconografici e che possono essere pertanto ricondotte ad uno stesso ambiente figurativo). Le decorazioni sinora pervenute sono di soggetto funerario, si tratta della decorazione di ipogei nei quali sono rappresentati due diversi motivi: uno di tradizione locale che può essere confrontato con le rappresentazioni delle sculture funerarie, l'altro di derivazione classica. Accanto alla rappresentazione di busti contenuti in imago clipeata, realizzata con l'uso di colori netti e definiti, caratteristici nella accentuazione del verticalismo delle pareti (e pertanto delle figure alate che sostengono le imagines clipeatae o le stesse figure dei defunti quando siano rappresentate per intero) compaiono motivi più tipicamente classici, come rappresentazioni mitologiche, che ornano le lunette delle tombe stesse e nelle quali la mitologia classica si riveste di motivi stilistici palmireni, senza che ne sia turbata la sostanziale iconografia. Nei pochi mosaici sinora pervenuti (e che non si diversificano da quelli delle città della Siria costiera) la tradizione artigiana dei musivarî non si dimostra ricettiva delle convenzioni caratteristiche della città.
Arti minori. - Per quanto riguarda le arti minori le nostre conoscenze sono più limitate. I gioielli rappresentati sui busti funerarî femminili non possono, con assoluta certezza, essere attribuiti a fabbriche palmirene, sebbene mostrino una notevole omogeneità di esecizione e di invenzione. Analogo il problema delle stoffe sempre rappresentate sui rilievi funerarî, che possono essere state importate da altre città. Quelle decorate con elementi vegetali nelle ricche bordure sembrerebbero dover essere attribuite ad un unico ambiente artigiano (forse Seleucia), sebbene non sia da dimenticare che a Palmira transitavano merci provenienti da ambienti molto diversi (una stoffa rinvenuta nella necropoli sembra di manifattura cinese). Così non si può definire quanti dei materiali preziosi di transito per la città (turchesi, lapislazzuli, perle, ecc.) siano stati lavorati nelle officine palmirene. Una serie notevole di tessere fittili e di bronzo (contrassegno di collegi religiosi, ecc.) mostrano, in maniera corsiva, una derivazione dai caratteri notati nella scultura, quasi svincolati dai motivi convenzionali così inflessibili nella plastica, secondo un motivo caratteristico della produzione orientale ove le iconografie e gli stili che derivano dalla grande arte (e specialmente quelli ripetuti nella creta) si mostrano più liberi e in qualche caso anticipano esperienze formali che nella produzione aulica spesso vengono accettate solo in un secondo momento.
Da quanto è stato accennato si comprende come la caratteristica di Palmira sia stata quella di una città a carattere misto, da un lato ellenistico-romano, dall'altro parthico; la prevalenza degli interessi commerciali e politici verso la Parthia (e l'impero sassanide) lasciano anzi intendere che essa debba essere considerata quasi la fonte principale per una diffusione dei caratteri costitutivi del mondo parthico verso Occidente. Definire pertanto la fisionomia di Palmira da un punto di vista storico-artistico è quindi possibile solo considerando la cultura figurativa parthica dalla quale essa deriva. Ma purtroppo le nostre conoscenze del mondo parthico sono ancora estremamente indefinite e approssimative cosicché l'assunto si presenta quanto mai problematico; spesso anzi il mondo figurativo parthico riceve un chiarimento da quello palmireno a causa della estrema scarsezza di monumenti sicuramente databili nell'area dell'impero arsacide. Il mondo figurativo parthico si presenta ancora oggi estremamente differenziato in aree regionali, in esso confluiscono esperienze precedenti molto diverse: dell'ellenismo seleucide, di tradizione iranica e indiana, delle popolazioni nomadi dell'Asia centrale. Ognuna di tali esperienze figurative vive spesso in contrasto con le altre, l'impero arsacide non riesce a fondere completamente motivi così diversi e solo l'impero sassanide riesce a definire in campo politico, cosi come in quello artistico, una propria coerenza (ma il problema sassanide si presenta e si sviluppa quando l'arte p. ha già definito una propria fisionomia così da non interferire profondamente nella formazione di essa).
Di fronte alla estrema coerenza dell'arte p. (le suddivisioni proposte nell'ambito del suo svolgimento formano più comode categorie di studio che reali gradi di svolgimento di uno stile) così singolarmente fedele a se stessa sino dalle origini viene fatto di pensare che solo a Palmira, a contatto con le esperienze figurative occidentali eredi della tradizione classica, il mondo parthico sia riuscito, quasi per antagonismo, a trovare la possibilità di manifestarsi in modo costante e omogeneo.
In tal senso Palmira, considerata come il centro di un'area geografica e culturale che comprende anche Dura, Hatra, alcune città della Siria settentrionale interna, alcune città dell'Arabia, diviene il centro di formazione di esperienze figurative antitetiche a quelle della produzione ufficiale del mondo romano, durante il I e il II sec. d. C. (intendendo per produzione ufficiale del mondo romano la somma delle esperienze formali dell'ellenismo della Grecia e dell'Asia Minore, di cui Roma diviene, come centro dell'Impero, il punto di omogeneizzazione e di diffusione almeno durante il I e in gran parte nel II sec. d. C.). Quando da Marco Aurelio in poi il problema del limes dell'Eufrate diviene il banco di prova della potenza romana e con Settimio Severo i siriaci entrano a far parte della corte imperiale (e siriaci sono gli stessi imperatori) il mondo palmireno ha la possibilità di diffondere le proprie formule culturali e artistiche come mai prima. Con la flessione del classicismo della corte imperiale, che si accentua dal principio del III sec. si nota nel mondo romano la ricerca di nuovi motivi che sostituiscano quelli classici (che divengono prerogativa della classe senatoria) ormai sempre più privi di significato. La tradizione figurativa palmirena, antitetica alle convenzioni classiche e insieme adatta ad esprimere alcuni valori del mondo del III sec., diviene una delle fonti di ispirazione di alcune correnti dell'arte ufficiale del III sec. e prepara i moduli artistici del mondo figurativo della tarda antichità.
Bibl.: Generale: Th. Mommsen, Die römischen Provinzen von Caesar bis Diocletian, Berlino 1884, trad. it. Le Provincie Romane da Cesare a Diocleziano, di E. De Ruggiero, II ed., Roma 1904, passim; H. Seyrig, Antiquités Syriennes, in Syria, XII, 1931 e ss. (riunite in 5 volumi, Parigi 1934-1958); M. Rostovzev, Storia Economica e Sociale dell'Impero Romano, trad. it. di G. Sanna, Firenze 1933, passim; id., Città Carovaniere, trad. it. di C. Cortese de Bosis, Bari 1934, pp. i ss.; 84 ss.; 111 ss.; id., Dura and the Problem of the Parthian Art, in Yale Classical Studies, V, New Haven 1935, p. 157 ss.; id., Dura-Europos and its Art, Oxford 1938, passim; id., The Social and Economic History of the Hellenistic World, I-III, Oxford 1941, passim; H. Seyrig, Palmyra and the East, in Journ. Rom. Studies, XL, 1950, p. i ss.; D. Schlumberger, La Palmyrène du Nord-Ouest, Parigi 1951; H. Ingholt, Parthian Sculpture from Hatra: Orient and Hellas in Art and Religion, in Memoirs of the Connecticut Academy of Arts and Sciences, 12, 1954; D. Schlumberger, Descendants non meditarrenéens de l'art grec, in Syria, XXXVII, 1960, pp. 131 ss.; 253 ss.; P. Collart, Le rôle de Palmyre à l'époque hellénistique et romaine d'après les découvertes récentes, in Atti VII Congr. Int. Arch. Class., I, Roma 1961, p. 427 ss. Si veda inoltre la bibl. citata s. v. dura-europos; hatra; parthica, arte, ecc.
Architettura: A. Gabriel, Recherches archéologiques à Palmyre, in Syria, VII, 1926, p. 71 ss.; D. Schlumberger, Les formes anciennes du chapiteau corinthien en Syrie, en Palestine et en Arabie, in Syria, XIV, 1933, p. 283 ss.; id., Études sur Palmyre, I-II, in Berytus, II, 1935, p. 149 ss.; E. Will, La tour funéraire de Palmyre, in Syria, XXVI, 1949, p. 87 ss.; id., L'adyton dans le temple syrien de l'époque impériale, in Études d'Archéologie Classique, II, 1959, p. 136 ss. Si veda inoltre la bibl. citata sotto il paragrafo relativo alla scultura e quella relativa alla voce palmira.
Scultura: D. Simonsen, Skulpturer og Indskrifter fra Palmyra i Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen 1889; F. Poulsen, De Palmyrenske Skulpturer, Lund 1921; F. Sarre, Eine palmyrenische Relieffigur und de Typus des guten Hirten, in Studien zur Kunst des Ostens, 1923, p. 69 ss.; W. Deonna, Monuments orientaux du Musée de Genève, in Syria, IV, 1923, p. 230 ss.; H. Ingholt, Studier over Palmyrensk Skulptur, Copenaghen 1928; id., The Oldest nown Grave-Relief from Palmyra, in Acta Archaeologica, I, 1930, p. 191 ss.; id., Quatre bustes palmyréniens, in Syria, XI, 1930, p. 242 ss.; id., Palmyrene Sculptures in Beirut, in Berytus, I, 1934, p. 32 ss.; id., Five Dated Tombs from Palmyra, ibid., II, 1935, p. 58 ss.; id., Inscriptions and Sculptures from Palmyra, I, ibid., III, 1936, p. 83 ss.; R. Amy-H. Seyrig, Recherches dans la nécropole de Palmyre, in Syria, XVII, 1936, p. 229 ss.; H. Seyrig, Notes sur les plus anciennes sculptures palmyreniennes, in Berytus, III, 1936, p. 137 ss.; H. Ingholt, Inscriptions and Sculptures from Palmyra, II, ibid., V, 1938, p. 93 ss.; A. Dupont-Sommer, Un buste palmyrénien inédit, in Syria, XXIII, 1944, p. 79 ss.; E. Will, Le relief de la Tour de Kithot et le banquet funéraire à Palmyre, in Syria, XXVIII, 1951, p. 70 ss.; H. Seyrig, Le repas des morts et le "banquet funèbre" à Palmyre, in Les Annales Archéologiques de Syrie, I, 1951, p. 32 ss.; Sélim Abdul-Hak, L'hypogée de Taai à Palmyre, ibid., II, 1952, p. 193 ss.; W. Eilers, Eine Büste mit Inschrift aus Palmyra, in Archiv für Orientforschung, 16, 1951-53, p. 311 ss.; J. Sabh, Sculptures palmyréniennes inédites, in Les Annales Archéologiques de Syrie, III, 1953, p. 17 ss.; Dj'afar al Hassani-J. Starcky, Autels palmyréniens découverts près de las ource Efca, ibid., III, 1953, p. 145 ss.; Z. Kadar, Monuments palmyréniens au Musée de Beaux Arts de Budapest, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae, 3, 1955, p. 105 ss.; Dj'afar al-Haassani-J. Starcky, Autels palmyréniens découvertes près de la source Efca, in Les Annales Archéologiques de Syrie, VII, 1957, p. 95 ss.; M. Morehart, Early Sculpture at Palmyra, in Berytus, XII, 1956-57, p. 53 ss.; J. Lyons-H. Ingholt, Gandharan Art in Pakistan, New York 1957, passim; J. Starcky, Relief palmyrénien dédié au die Ilahay, in Melanges... Robert, Parigi 1957, p. 370 ss.; K. Michalowski, Trois sculptures palmyreniennes, in Bulletin Musée nat., Varsavia, I, 1960, p. 4 ss.
Pittura: B. Pharmakowsky, La peinture à Palmyre, in Bulletin de l'Institut Archéologique Russe à Costantinople, VIII, 1903, p. 172 ss.; J. Strzygowsky, Orient oder Rom, Lipsia 1901; H. Ingholt, Quelques fresques récemment découvertes à Palmyre, in Acta Archaeologica, III, 1932, p. i ss.; C. H. Kraeling, Color Photographs of the Paintings in the Tomb of the Brothers at Palmyra, in Les Annales Archéologiques de Syrie, XI-XII, 1961-62, p. 13 ss.
Arti minori: R. Pfister, Textiles de Palmyre, Parigi 1934; id., Nouveaux textiles de Palmyre, Parigi 1937; id., Textiles de Palmyre, III, Parigi 1940; D. Mackay, The Jewellery of Palmyra and its Significance, in Iraq, II, 1949, p. 160 ss.; H. Ingholt, H. Seyrig, J. Starcky, J. Caquot, Recueil des tessères de Palmyre, Parigi 1955; D. Walker, A Palmyrene Tessera, in Studi orientalistici in onore di G. Levi Della Vida, Roma 1956, p. 601 ss.; Ch. Dunant, Nouvelles tessères de Palmyre, in Syria, XXXVI, 1959, p. 102 ss.; C.te du Mesnil du Buisson, Les Tessères et les Monnaies de Palmyre, Parigi 1962.
(A. Giuliano)
Artisti palmireni. - Il materiale epigrafico palmireno ha fatto conoscere alcuni nomi di artigiani, palmireni o operanti a Palmira. Da rilevare il fatto che i nomi degli artigiani trovati nel tempio di Bēl sono tutti greci. Di due artisti, che lasciarono il ricordo della loro opera su un capitello dell'agorà di Palmira e su un altarino rinvenuto nei dintorni della città, è andato perduto il nome (cfr. I. Starcky, Inventaire des inscriptions de Palmyre, x, Damasco 1949, n. 11; H. Ingholt e J. Starcky, presso D. Schlumberger, La Palmyrène du nord-ouest, Parigi 1951, n. 52 ter).
1. Alexandros (᾿Αλέξανδρος); ricordato da una iscrizione votiva, trovata nel tempio di Bēl, in greco, in cui egli si definisce ἀρχιτέκτων ϑ(ε)οῦ Βήλου (J. Cantineau, Inventaire des inscriptions de Palmyre, ix, Parigi, n. 36).
2. Antiochos (᾿Αντίοχος, ᾿ṭyk'); artigiano (καϑηγητής, sbr') che ha lasciato il suo nome, in una bilingue greco-palmirena, sulla trabeazione del peristilio della facciata E del tempio di Bēl (J. Cantineau, op. cit., n. 4).
3. Miltiades (Μιλτιάηδης, [sic]); scultore ricordato da una iscrizione greca proveniente dal tempio di Bēl (J. Cantineau, op. cit., n. 35).
4. Moqimù (mqymw), figlio di Nūrbēl; scultore, morto nel 148 d. C., ricordato dal proprio rilievo funerario e da quelli di sua moglie e di un suo nipote (J. Sabeh, Sculptures palmyréniennes inédites du Musée de Damas, in Annales Arch. de Syrie, iii, 1953, pp. 17-26; per l'iscrizione della moglie: W. R. Arnold, Additional Palmyrene Inscriptions in the Metropolitan Museum, New York, in Journ. Amer. Orient. Society, xxvi, 1905, pp. 105-12; Répert. d'épigr. sémit., n. 754; C.I.S., ii, n. 4258; per le altre iscrizioni: W. R. Arnold, art. cit.; Répert. d'épigr. sémit., n. 758; C.I.S., ii, nn. 4621 e 4621 bis. In queste opere la morte di Moqīmū è datata al 146 d. C. per la caduta di due segni.
5. Yarḥai (yrḥy); scultore che ha firmato un rilievo, raffigurante tre divinità, nel museo di Aleppo; se la lettura è esatta, il rilievo sarebbe datato al 113 d. C. (C.I.S., ii, n. 3974).
(G. Garbini)