GRECA, Arte (v. vol. III, p. 1005)
vol. III, p. 1005). Architettura. - Forse nessun altro aspetto dell'antica civiltà ellenica ci obbliga a rivedere profondamente la stereotipata e classicistica valutazione della grecità diffusa nella pubblica opinione, quanto l'architettura, o, meglio, l'approfondimento che delle testimonianze dell'arte di costruire degli antichi Greci la ricerca scientifica ha potuto raggiungere nell'ultimo ventennio, dalle prime sperimentazioni riconducibili all'inizio del I millennio a.C., all'età ellenistica. Possiamo constatare infatti come da un'interpretazione fondamentalmente ancorata all'immagine del tempio con la sua fronte colonnata sormontata dal triangolo del frontone, o alla grammaticale valutazione dei rapporti dimensionali dell'ordine, si sia passati a uno studio assai più articolato per le valutazioni cronologica e spaziale, nonché per una gamma ben più ricca di tipologie, che prescinde dagli esiti monumentali.
Non tenteremo certo un riassunto che abbia la pretesa di presentare, sia pure nelle linee fondamentali, tutto lo svolgimento di una produzione architettonica che nasce sull'eredità della cultura micenea, intimamente ravvivata da nuove e originalissime concezioni dello spazio e del manufatto che occupa una posizione di quest'ultimo, e che si conclude nell'ellenismo con la più larga irradiazione di forme e di lessico che la civiltà umana abbia mai conosciuto. Sarebbe compito incontenibile in una sintesi che deve soprattutto evidenziare i più recenti progressi della scienza nel campo: ci limitiamo, pertanto, ad approfondire alcuni momenti e cicli epocali che, per revisioni e analitiche nuove considerazioni, appaiono particolarmente significativi a illustrare quel grandioso fenomeno culturale che possiamo definire con il termine architettura greca. Una profonda revisione delle interpretazioni tradizionali di quest'ultima è venuta, in primo luogo, dalla crescita numerica di informazioni e di valutazioni relative alle più antiche fasi dell'arte del costruire nei primi tre secoli del I millennio a.C., nel periodo che usualmente definiamo età geometrica. È il momento in cui, per la prima volta nella storia delle civiltà dell'uomo, la Grecia esprime la concezione tridimensionale dello spazio, basata sulla convergenza in un vertice delle tre direzioni fondamentali per sintetizzare la categoria mentale in cui si attua ogni gesto e si colloca ogni manufatto. Le direzioni sono lunghezza, larghezza e altezza e, convergendo in un punto, comprendono ogni possibile movimento e definiscono, almeno nelle sue generatrici, un solido che dello spazio occupa una porzione; e il manufatto costruito è tra i solidi prodotti dall'attività dell'uomo, la più efficace e concreta espressione. Il suo esito estetico è generato dalle singole componenti, le membrature architettoniche appunto, che sono vincolate a una logica geometrica cogente.
Due tipologie essenzialmente possiamo individuare nell'età che ê anche l'incunabolo della nuova realtà politica e culturale del mondo greco: la pòlis. Questa realtà è il contesto delle prime testimonianze architettoniche che muovono dalla tradizione micenea mai interrotta, ma ne rinnovano radicalmente sintassi e interpretazione e perciò l'aspetto finale. L'intrinseca povertà delle testimonianze, conseguenza delle modeste dimensioni e del carattere effimero dei materiali impiegati, nonché della dispersione delle competenze e dell'organizzazione tecnologica determinata dalla fine dei palazzi (v. minoico-micenea, arte), ha sottratto per molto tempo questi documenti all'attenzione degli studiosi dell'arte greca, fino a quando la più accurata e tecnologicamente avanzata esplorazione stratigrafica dei siti archeologici li ha rivelati. La loro modesta evidenza consente solo il recupero della tipologia planimetrica. Fortunatamente alcuni modelli votivi dedicati soprattutto in santuari (anche se offerti in epoca più recente come prova della grande antichità del culto e della forma originaria della casa della divinità, quando essa era stata sostituita da strutture più monumentali) ci permettono di avere un'idea più concreta degli alzati e una valutazione storicamente meglio apprezzabile di queste prime realizzazioni dell'arte del costruire dei Greci in età geometrica.
Due tipologie si affermano tra IX e Vili sec. a.C. con diversa finalizzazione e soprattutto organizzazione planimetrica: quella su pianta di forma molto prossima al quadrato e quella su pianta rettangolare fortemente allungata. La definizione dei due schemi è legata a una prima «rivoluzione» tecnologica dei materiali impiegati che si attua in principio solo nelle realizzazioni di maggiore impegno e poi si diffonde, possiamo dire, a livello di tessuto connettivo: il mattone di terra argillosa e paglia essiccato per qualche tempo all'aria e al sole prima dell'impiego. Esso è la cellula elementare prefabbricata che sostituisce l'impasto delle stesse componenti fondamentali applicato direttamente sulle strutture verticali intorno a un ancora approssimativo scheletro ligneo. Questa tecnica comporta la difficoltà di realizzare spigoli netti tra lati a novanta gradi e quindi induce a profili planimetrici curvilinei che danno la tipologia absidale od ovale a molti edifici della prima e media età geometrica. Essi sfruttano di solito uno zoccolo di fondazione e di spiccato in ciottoli di fiume e scaglie di pietra raccolte direttamente sulla superficie del terreno.
L'avvento del mattone (πλίνθος) rappresenta un salto qualitativo anche nel rapporto tra progettazione ed esecuzione: era necessario infatti prevedere il numero di mattoni occorrenti per ottenerli sufficientemente stagionati e quindi predisporre un progetto abbastanza definito dell'edificio prima di intraprenderne la realizzazione. Ma soprattutto, essendo elemento geometricamente ben definito, il mattone consente la realizzazione di schemi planimetrici e di tipologie di elevato più consone a quell'ideale di solido che la concezione tridimensionale dello spazio ha reso attuale. Tra questi solidi dobbiamo distinguere quello a pianta rettangolare allungata che le evidenze del terreno ci danno sempre isolato, e quello a pianta più vicina al quadrato che, come gli esempi, invero un po' più tardi, dimostrano, è pensato come cellula ripetibile di un impianto più complesso. Questo fatto deve, però, essere ricondotto anche alla piena età geometrica, come provano, alla fine di essa, le abitazioni di Megara Hyblaea risalenti alla fase di fondazione della colonia. L'ambiente quadrangolare era l'unico in muratura, cioè una struttura a carattere intenzionalmente permanente, in un impianto integrato da recinti e tettoie in materiale effimero che non hanno potuto lasciar tracce soprattutto ove i successivi rifacimenti hanno cancellato ogni segno di quanto era facilmente distruggibile e asportabile.
Le due tipologie ci sembra siano entrambe l'estrema semplificazione di forme della tradizione architettonica preellenica. Quella rettangolare allungata è l'erede dell'ambiente più significativo del palazzo miceneo, il mègaron, la sala del trono, in cui l’ànax si mostrava a coloro che avevano attraversato un cortile e alcune facciate interposte al percorso che si concludeva, dopo alcune rotazioni ad angolo retto, davanti al trono. Nella pòlis è la divinità, invece, ad assumere la supremazia sugli àristoi, pari tra loro; solo per essa si mantiene e si riutilizza l'ambiente più significativo, anche nell'elevato, del palazzo, isolato da tutte le strutture che lo fiancheggiavano sempre, a esso gerarchicamente subordinate nell'aspetto architettonico. Questa identificazione del vano rettangolare allungato, articolato almeno in vestibolo e sala, come quello più adatto a una funzione di alto significato di rappresentanza o cultuale sembra provata dai mègara della Grecia d'Occidente risalenti a età precoloniale. Particolarmente significativo, al riguardo, quello recentemente scoperto a Selinunte sotto il tempio E che deve essere ricondotto a epoca precedente alla fondazione della colonia greca e risalire pertanto alla tradizione elladica della Sicilia centro-meridionale che possiamo chiamare sicana. È una cultura che non visse, almeno stando alla tradizione storiografica, la rivolta aristocratica contro l’ànax e la fine della civiltà palaziale, ma mantenne più a lungo con tenace conservatorismo le forme tradizionali fino all'incontro con la cultura delle fondazioni coloniali e oltre, con impatto non piccolo su quest'ultima.
Mègaron e òikos (cioè lo schema planimetrico più vicino al quadrato) sono dunque le tipologie base dell'edilizia di età geometrica: il primo riguarda l'edificio di culto, il secondo è la cellula costitutiva dell'impianto abitativo. In entrambi i casi si tratta di edifici realizzati con materie prime facilmente acquisibili sul posto: legname di modeste dimensioni, terra argillosa, paglia, nonché pietre raccolte sul campo per le fondazioni e lo zoccolo. Ma proprio quando il mègaron, che diviene casa del dio, quindi edificio di culto per eccellenza, assume la funzione di immagine della pòlis, la sua crescita dimensionale si pone come esigenza ripetutamente proposta specialmente se le risorse disponibili, finanziarie, tecnologiche e organizzative, lo consentono. Tra le materie prime predominano di gran lunga il legno e il mattone crudo e per esso l'impasto di terra argillosa e paglia cui è affidata anche l'impermeabilizzazione delle coperture; ma la funzione portante, tanto più rilevante quanto maggiori sono le dimensioni, è affidata allo scheletro ligneo, sia anima delle strutture verticali, sia orditura indispensabile, e sempre più complessa, per le coperture. La competenza professionale richiesta non è tanto quella di confezionare e mettere in opera i mattoni e l'impasto dell'intonaco e delle coperture, quanto quella dei carpentieri che debbono individuare, valutare e assemblare gli elementi lignei che vengono a costituire lo scheletro portante. Alla loro esperienza e abilità è affidato il successo di una struttura che deve utilizzare al meglio il legname, disponibile con una certa abbondanza, ma non naturalmente in misure quali quelle richieste dalla crescita dimensionale dell'edificio. Quest'ultima, che la committenza cittadina richiede, può essere raggiunta solo attraverso la messa in opera di un contesto di singoli elementi aggiuntati e innestati in modo da ottenere i migliori risultati per soddisfare le caratteristiche meccaniche che allo scheletro ligneo si richiedono: resistenza ed elasticità al tempo stesso. Una prova di quanto proponiamo viene offerta dall'epistemologia del termine usato per indicare il responsabile della progettazione e dell'esecuzione dell'edificio: architèkton, cioè capo dei tèktones, i carpentieri appunto; l'etimologia spiega che sono così chiamati perché sanno «contessere» nella desiderata struttura il legname. Il termine architèkton per il progettista e il responsabile della costruzione di un edificio è documentato un po' più tardi dell'età geometrica, ma la sua epistemologia riconduce a una funzione nata in età geometrica quando l'apparato ligneo costituiva, nell'elevato e nella copertura, la struttura fondamentale dell'edificio.
Le costruzioni di maggiore rilievo, quelle in cui era impegnata in audaci e spesso innovative soluzioni una squadra di tèktones, erano rare se non eccezionali per generazione e per area culturale: la sperimentazione continua, da cui trarre osservazioni e norme di meccanica, di geometria e di fisica, era indubbiamente offerta, in paesi che dal mare traevano una parte essenziale delle loro risorse, dalle costruzioni navali; ciò è tanto più vero quando queste, per esigenze militari o di traffici di più largo respiro, dovettero affrontare dimensioni, per l'epoca, ragguardevoli. Nasce un rapporto tra arte di costruire e scienza, intesa come sistema di leggi e di norme, che si salderà nella dialettica tra epistème e tèchne, fondamentale per la civiltà greca. L'arte di costruire, proprio quando dovrà cimentarsi negli edifici che diventano simbolo del potere e della ricchezza della pòlis, i templi appunto, sarà l'occasione più significativa per richiedere, e sperimentare al tempo stesso, i nuovi raggiungimenti. Si inizia, possiamo dire fin dal Geometrico maturo, lo stretto rapporto tra scienza e architettura che caratterizza, a nostro modo di vedere, la civiltà greca e che nell'età a cui ora ci riferiamo è costruito non tanto sulla soddisfazione di nuove esigenze statiche, quanto sullo sforzo per superare la crisi energetica limite, possiamo dire costituzionale, alle imprese edilizie della pòlis greca, tra l'età geometrica e il primo arcaismo.
Infatti, in una struttura politica in cui il possesso della terra è il fondamentale diritto alla cittadinanza, perché garantisce autonomia di risorse, non ci sono proprietà da cui ricavare quelle necessarie a mantenere una numericamente cospicua mano d'opera, servile o libera non importa, o parecchie decine di animali da lavoro, per fini diversi dalla coltivazione della terra. Ma solo da questa mano d'opera e da questi animali può derivare l'energia meccanica da impiegare in grandi imprese edilizie. Nessuna pòlis può permettersi di organizzare trasporti e sollevamenti, quali ί| rilievi egizi e assiri ci dimostrano per le grandi imprese edilizie egiziane e mesopotamiche. Solo le invenzioni, che sono il frutto di una serrata dialettica tra esigenza, principio e applicazione, possono permettere di superare questo limite. Perciò riteniamo che l'impegno dello storico dell'architettura greca, che voglia veramente rispondere alle sue funzioni, non può limitarsi alla lettura del manufatto costruito, ma deve indagarne i modi e i presupposti tecnologici e organizzativi dell'esecuzione.
La meccanica, che si sviluppa attraverso questa istituzionale dialettica tra norma ed esperimento, non può prescindere dallo sforzo di soddisfare le esigenze applicative del materiale prevalente nella realizzazione dell'edificio. Nella tarda età geometrica il materiale era il legno: la crescita dimensionale dell'edificio era possibile grazie alle applicazioni della ricerca nell'impiego ottimale di esso, condizionato dai limiti delle specifiche risorse disponibili. Le costruzioni navali erano la fonte di sperimentazioni frequenti da cui si traevano le norme generali che consentirono audaci e felici applicazioni nella realizzazione di edifici concepiti con respiro monumentale. Riteniamo che l'invenzione e l'introduzione nella prassi edilizia di quella che oggi chiamiamo una struttura reticolare appartengano proprio all'età geometrica, anche se essa è formalmente documentata, a partire solo dal VII sec. dal nesso grammaticale più celebre per l'architettura greca: il fregio dorico, la cui origine cade, come vedremo, subito dopo la fine dell'età geometrica. Si tratta non di un'invenzione puntuale, come avviene per le grandi soluzioni formali, frutto geniale di un maestro, ma di un processo che, per il suo carattere, soprattutto tecnologico, richiede un lungo e intrecciato concorso di apporti e sperimentazioni. Sono ancora i modelli fittili già citati, per noi preziose testimonianze dell'architettura di età geometrica, a offrire l'occasione delle prime osservazioni: in particolare il modello di Argo. Questo è caratterizzato dalla possibilità di scomporre il solido che è l'edificio in due parti: il prisma del tetto, con le ripide falde e la grande apertura sul triangolo frontale, e il parallelepipedo che include la cella con il portico che ne protegge l'ingresso sulla fronte. Tale struttura geometrica, e non solo le linee verticali che scandiscono la decorazione non figurata sulle superfici del modello, fanno pensare a una robusta orditura lignea cui era affidata, soprattutto, la statica dell'edificio che il modello ha riprodotto.
Questa robusta orditura lignea diviene ancora più indispensabile quando, con l'inizio del VII sec., l'impermeabilizzazione della copertura comincia a essere assicurata da un elementare prefabbricato di argilla cotta, la tegola, che garantisce al tetto una durata ben più lunga dell'impasto di argilla e paglia, comunque pressato e fermato da travature sovrapposte. Non è una scoperta, ma la riscoperta di una tecnica che si era affermata in età elladica sul continente greco, e che, con la fine dei palazzi, era andata perduta in seguito alla dispersione delle competenze artigianali in grado di applicarla a una produzione di serie. L'affermarsi nella pòlis, proprio tra, la fine dell'VIII e l'inizio del VII sec., in maniera sempre più marcata, di una classe di artigiani e di imprenditori accanto all'aristocrazia dei proprietari terrieri, permette la ripresa di una produzione che richiede notevoli risorse finanziarie e una sperimentata tecnologia per confezionare, e soprattutto cuocere, grandi lastre di argilla sagomate, destinate a costituire il rivestimento esterno della copertura. I vantaggi offerti dalla durata e dalla efficienza dell'impermeabilizzazione erano chiaramente superiori ai maggiori impegni che si dovevano affrontare: un'orditura lignea più robusta per sostenere un peso non indifferente, anche se di lastre di terracotta (la verifica fatta per uno dei più antichi edifici sicelioti con tetto di tegole, il tempio E1 di Selinunte, ci dà un peso intorno ai 100 kg per m2) e soprattutto i problemi conseguenti alla sensibile riduzione della pendenza delle falde. Questa era necessaria per garantire l'aderenza delle tegole, che altrimenti sarebbero scivolate tutte verso il basso. La riduzione della pendenza comportava una spinta verso l'esterno dell'orditura lignea, gravata dal peso dell'impermeabilizzazione, sul perimetro dell'edificio, con conseguente dissesto delle strutture verticali di supporto, muri o colonnati che fossero. Questo rischio viene eliminato da un cordolo continuo che riceve e raccoglie le estremità dei puntoni obliqui, orditura fondamentale delle falde del tetto, e trasforma la spinta, grazie appunto alla sua continuità, in un semplice appoggio verticale sulle strutture perimetrali dell'elevato. Queste sono così soltanto caricate di un peso, che la loro resistenza a compressione contrasta agevolmente, e non soggette a una spinta di rovesciamento, per resistere alla quale non sono concepite. Così importanti funzioni del cordolo comportano sezioni e lunghezze cospicue che non possono essere soddisfatte da una struttura compatta, pur se ottenuta dalla giustapposizione di analoghe sezioni solide, per le quali le risorse disponibili di legname non offrono adeguate opportunità dimensionali. Si ricorre perciò a una struttura reticolare costituita da due robuste fasce orizzontali, contessute da singoli componenti, distanziate da tavoloni verticali, affiancati a gruppi intervallati fra loro; vengono ottenute così sezioni e lunghezze sufficienti a ricevere e contrastare la spinta dei travi obliqui del tetto e a trasformare quest'ultimo in un vero e proprio «coperchio». È la struttura funzionale che giustifica la notevole altezza dell'epistilio dorico e la sua alternanza di elementi portanti, i triglifi, e di spazi vuoti semplicemente tampognati in facciata, le metope. La cadenza, propria della struttura reticolare, si carica, nell'impiego specifico, di un essenziale significato ritmico per la generazione del solido che è l'edificio, tanto da divenire, per l'architettura della Grecia continentale e per la produzione da essa derivata, così espressivamente importante da essere mantenuta e ripetuta in pietra, in un contesto statico in cui le necessità strutturali, che l'avevano generata, non esistono più. La carica espressiva che essa ha assunto non può più essere cancellata nella traduzione che l'architetto propone della sua idea di edificio.
È questa, secondo noi, l'origine del fregio dorico, da ricondurre al momento in cui esso era ancora soluzione di una problematica costruttiva e non formula di lessico, come più avanti diverrà, per rivestire una ben diversa intenzione espressiva. Se colleghiamo l'origine del fregio dorico a una struttura reticolare destinata a raccogliere la spinta delle falde del tetto, e, se è vero che questa diviene un'esigenza esaltata dall'introduzione delle tegole, non abbiamo però nessuna ragione per ritenere contemporanea la scoperta delle caratteristiche meccaniche della struttura reticolare e il suo primo utilizzo. Ci sembra sia da immaginare un processo con una lunga sperimentazione, iniziata prima dell'introduzione delle tegole. Se ci richiamiamo alle considerazioni fatte sulla struttura lignea richiesta per l'edificio riprodotto dal modello fittile di Argo, possiamo concludere che la soluzione tecnologica, che consentiva di superare i limiti dimensionali del legname disponibile, appartenga a quella fase in cui il legno era la materia prima fondamentale dell'edificio greco, fase che abbiamo visto corrisponde al Geometrico maturo, in termini lati, alla seconda metà dell'VIII sec. a.C.
La grande rivoluzione che l'architettura greca nel più ampio senso geografico in cui la possiamo intendere, vive nel corso del VII e della prima metà del VI sec. è costituita non tanto dalla riscoperta delle tegole, a cui si è accennato, ma dall'introduzione e dalla diffusione progressiva a tutto l'edificio dell'impiego della pietra, fino a farne la materia prima che, d'ora in avanti, caratterizzerà tutte le manifestazioni dell'architettura greca quasi come segno identificante.
Ma prima di affrontare, alla luce delle più recenti scoperte e indagini, il fenomeno che, con espressione a prima vista un po' dura, ma certamente efficace, chiamiamo «pietrificazione», sembra opportuno sottolineare come le testimonianze pervenuteci dell'architettura greca tra VIII e VII sec., in un ampio arco di localizzazioni dalla Ionia all'Occidente, permettano di accertare diverse concezioni dell'edificio e, soprattutto, diverse interpretazioni dello spazio in cui esso si colloca, una porzione del quale viene ritagliata per renderlo disponibile per i fini per i quali l'edificio è costruito. La concezione tridimensionale dello spazio, e l'edificio inteso come solido generato in esso dalle strutture portanti e formalmente significative, sono caratteristiche proprie, in termini lati, della Grecia continentale che delle problematiche espressive giunge a fornire una sintesi così efficace da farci apparire l'architettura dorica, soprattutto quella peloponnesiaca e della Grecia centrale, come la forma canonica dell'architettura greca tra età geometrica e arcaismo. In realtà non è così: esistono esperienze culturali diverse che non possiamo non considerare parte integrante della civiltà greca nel suo insieme, a cominciare dalla Ionia e dai suoi grandi santuari (Samo, Efeso e Mileto) che erano, anche e soprattutto, luoghi d'incontro di culture e centri vitali di eccezionale creatività. L'Heràion di Samo, intorno alla metà dell'Vili sec., offre la testimonianza di un edificio impostato, per l'epoca, in dimensioni grandiose: cento piedi di lunghezza, a prova di quel desiderio di monumentalità, che si afferma in età tardo-geometrica. Lo schema planimetrico è un rettangolo fortemente allungato che permette di cogliere la genesi concettuale dell'edificio fondata sul desiderio di recingere, e così delimitare, lo spazio della statua di culto e quello a essa antistante, qualificato dalla funzione cultuale. La disputa recentemente sollevata sull'esistenza di una peristasi di sostegni verticali, che avrebbe creato un portico intorno alla cella, in una fase di vita dell'edificio, è, per la lettura di questo interesse espressivo, irrilevante. Infatti la sicura esistenza della fila di sostegni sull'asse centrale del vano era in funzione di un architrave corrente nel senso della lunghezza dell'edificio; su di esso poggiavano travetti orizzontali che muovevano verso le pareti o direttamente sull'epistilio del portico esterno, se questo va effettivamente integrato. È una tessitura di supporto della copertura che è provata dai dentelli dell'ordine ionico lapideo e che dimostra, nella sua disposizione, la logica del recinto di cui si è detto. I travetti quasi orizzontali, a intervalli molto brevi tra loro, costituiscono una struttura non spingente, che non ha bisogno quindi di cordoli e che comporta un tetto quasi in piano (era sufficiente una assai modesta pendenza per lo scolo delle acque piovane), direttamente appoggiato sull'architrave. Sono dunque le facciate, perimetro dell'edificio, le protagoniste della percettibilità di quest'ultimo: è sottolineato l'ingresso su un lato breve che appunto dà accesso allo spazio interno, qualificato dal recinto dei muri perimetrali. È questo recinto infatti che assumerà forme monumentali nelle grandi realizzazioni di due secoli più tarde e che rimarrà la visione fondamentale dell'architettura ionica arcaica.
Diversa ancora è l'interpretazione dello spazio e dell'edificio nell'architettura di Occidente. Lo dimostra quanto sappiamo dalle più recenti scoperte del mègaron sotto il tempio E di Selinunte che deve appartenere a età precoloniale per sequenza di fasi, anche se all'interno di essa non possiamo, allo stato attuale delle indagini, definire meglio i termini. Il mègaron presenta uno spazio limitato da un perimetro, articolato verso l'interno da contrafforti, così da costituire sufficiente appoggio per un tetto con impermeabilizzazione straminea, sostenuta da un'orditura lignea reticolare costituita da telai di elementi intrecciati a supporto delle falde.
Questa orditura non richiede ingombranti supporti oltre al perimetro e lascia lo spazio interno completamente libero per rispondere alle intenzioni di volta in volta manifestate dal fruitore, indipendentemente dalle strutture archittetoniche che lo delimitano e lo coprono. È uno spazio che ci è sembrato opportuno definire relazionale, legato cioè alle condizioni e opportunità dell'uso, che ne determinano la concreta valutazione, assai più articolata di quella offerta dagli edifici dell'architettura greca nella madrepatria in quel momento, cruciale per il definirsi delle forme più comunemente a essa attribuite, in cui la materia prima fondamentale dell'edificio diviene la pietra.
La valutazione di questo momento implica anzitutto la constatazione della presenza di una classe artigianale e imprenditoriale, così ben radicata ormai nella pòlis da cambiarne sostanzialmente il carattere, quindi la considerazione del salto qualitativo nella progettazione e nella realizzazione edilizia, nonché nell'organizzazione del cantiere che ne è conseguenza.
Del primo punto abbiamo già accennato a proposito della riscoperta delle tegole: l'uso della pietra presuppone squadre di specialisti, adeguatamente interagenti, per cavare, tagliare, trasportare e mettere in opera il materiale lapideo, specialisti che, per raggiungere la necessaria professionalità, debbono, a tempo pieno, impegnarsi in questo lavoro. Il limite alla loro crescita numerica è costituito soltanto dalla consistenza quantitativa delle commesse: questa deve essere però almeno tale da garantire continuità di lavoro, quindi di reddito, agli artigiani impegnati. Sul piano strettamente storico-architettonico è poi estremamente significativo il salto qualitativo dei modi e dell'impegno dell'architetto nella progettazione dell'edificio. Una costruzione lapidea esige non soltanto l'esatta previsione dimensionale dell'edificio, ma anche il calcolo preventivo della quantità degli elementi componenti che debbono essere estratti dalle cave, predisposti e trasportati sul cantiere in tempi assai prossimi alla loro messa in opera in modo da non costituire qui ingombranti depositi. Nello stesso tempo va affrontata l'organizzazione delle squadre di scalpellini che debbono assicurare la predisposizione degli elementi per l'assemblaggio; esse debbono avere indicazioni precise su misure e forme di ciò che debbono produrre. È necessario dunque che l'idea progettuale dell'architetto si concretizzi in un manufatto, di relativamente facile esecuzione, ma che, con un noto rapporto dimensionale, possa rappresentare l'edificio da costruire, e possibilmente in rapporto maggiore, le sue parti più significative e più ricche di minuti dettagli. Riteniamo necessario un progetto esecutivo non materializzato attraverso disegni, perché la geometria dell'alto arcaismo non conosceva ancora le norme di proiezione che consentiranno, a partire dal III sec. a.C., piante, sezioni e prospettive (ichnographìa, orthographìa e skenographìa, secondo il testo di Vitruvio); il progetto doveva essere allora concretizzato attraverso modelli in scala dell'edificio e di parti in esso. Sono i paradèigmata, come sappiamo da documenti epigrafici e letterari, più tardi invero del primo arcaismo, ma che dobbiamo immaginare risalenti almeno al momento della «pietrificazione». L'epistemologia stessa del termine «mostrare in rapporto» (paràdeigma) appare estremamente significativa; né vale l'obiezione della grande precisione dimensionale delle realizzazioni, anche fino a spinti sottomultipli dell'unità di misura impiegata, per escludere le inevitabili approssimazioni che sarebbero derivate da un modello in scala e quindi pensare al progetto come a una serie di tabelle di misure per le singole componenti; tabelle che ci sembrano assai difficili per non dire impossibili. L'idea dell'architetto per opere complesse e articolate, ricche di larghissime potenzialità comunicative come erano gli edifici lapidei, con la loro decorazione figurata, in età arcaica e classica, doveva, per sua stessa coerenza ed efficacia espressiva, concretizzarsi immediatamente in un prodotto, frutto del diretto intervento dell'architetto: su di esso gli era possibile completare la valutazione della rispondenza tra manufatto e intenzione progettuale prima che questa si avviasse a essere realtà architettonica. Proprio quelle precise cadenze dimensionali che caratterizzano gli edifici greci classici e arcaici sono da ritenere il frutto dell'elaborazione dell'invenzione attraverso un modello che consentiva di valutare praticamente quantità e rapporti.
Non abbiamo, per ora, argomenti per estendere al paràdeigma dell'edificio completo, o di parti di esso, quella funzione di verifica statica che modelli noti di architetture medievali, rinascimentali e moderne ebbero nelle rispettive occasioni, anche se, proprio con il verificarsi della «pietrificazione», possiamo parlare già di una scienza delle costruzioni per l'architettura greca. Infatti il dimensionamento di alcune strutture fondamentali dell'edificio, come le colonne, rispetto ai modelli lignei, non può essere che la conseguenza di un'intenzionale modifica delle proporzioni, in funzione di osservare un «principio di elasticità» e di un'esperienza che conosce, in merito, le assai diverse reazioni del legno e della pietra. Quando si impiega quest'ultima, ancora in fase sperimentale, si aumentano le dimensioni per mettersi al sicuro dalle conseguenze del diverso comportamento di un materiale come la pietra, tanto più rigido del legno. Comincia del resto con l'età della «pietrificazione» anche una serrata ricerca e sperimentazione del rapporto edificio-terreno, attraverso fondazioni che assicurino solidità dell'appoggio all'elevato, e nello stesso tempo, contenimento del terreno su cui le strutture interne vengono a gravare. Da originarie e, con il tempo, sempre più affinate fondazioni «a cassone», in cui il perimetro corrisponde allo stereobate della peristasi, si passa alla complessa articolazione di setti su cui si appoggiano i piani orizzontali di pavimento, resi così indipendenti dalle strutture portanti e quindi da ogni possibile movimento di assestamento di queste ultime.
Ciò è tanto più importante quando, alla fine del processo di pietrificazione, nel terzo quarto del VI sec. a.C., la concezione dell'edificio come solido si traduce nell'espressione ideale di questo attraverso accorgimenti che chiamiamo «correzioni ottiche», cioè spostamenti di linee dall'orizzontale o dalla verticale per assorbire la debolezza dell'occhio umano che non può apprezzare l'assoluto geometrico senza modificazioni conseguenti alla posizione dell'occhio stesso. È una problematica che rimane caratteristica dell'architettura dorica e soprattutto della Grecia continentale, cioè dell'area a cui è propria l'interpretazione dell'edificio come solido. Si affaccia per la prima volta intorno al 540 a.C., nell'allora ricostruito Tempio di Apollo a Corinto, negli anni in cui l'esigenza di far apprezzare dall'occhio il volume della figura, in pittura, dà luogo all'invenzione dello scorcio, i katàgrapha o obliquae imagines di Plinio. Le «correzioni ottiche» compaiono come novità fondamentale del linguaggio architettonico della madrepatria anche in Occidente, in età tardo-arcaica nei templi F e G di Selinunte, nel c.d. Tempio di Eracle ad Agrigento e nelle opere degli architetti della generazione a cavallo della vittoria a Himera: cioè nel c.d. Tempio della Vittoria, di Himera appunto, e soprattutto nel Tempio E3 di Selinunte ove le curvature delle orizzontali sono particolarmente accentuate, con valori delle frecce assai più rilevanti che in tutti gli altri esempi, anche più tardi, nella madrepatria. Quest'accettazione sembra rivelare un entusiasmo quasi esibizionistico per forme di linguaggio aggiornate dell'ordine dorico, accolto fin dai suoi primordi in Occidente, anche se sovrapposto a una concezione progettuale tanto diversa da quella della contemporanea Grecia continentale. Ma già verso la metà del V sec., proprio l'affermarsi della coscienza di una intenzionalità di comunicazione completamente diversa fa abbandonare all'architettura di Occidente l'applicazione delle «correzioni ottiche». Non compaiono infatti nel tempio A di Selinunte e in nessuno dei templi di Agrigento che seguono cronologicamente il c.d. Tempio di Ercole, quelli cioè che sono i più noti e celebrati edifici templari di età classica in Occidente.
Ugualmente nessuna «correzione ottica» negli edifici ionici tra fine VI e V sec.: i grandiosi dipteri arcaici e gli edifici da essi derivati in cui si mantiene la concezione di recinto monumentale, quindi di facciate e non di solido, anche quando, come nel Tempio di Marasà a Locri, la peristasi avvolge una cella che ha le proporzioni e l'articolazione dei contemporanei edifici dorici di Occidente. Le «correzioni ottiche» sono dunque una prerogativa dell'architettura dorica della Grecia continentale, di quella che mantiene coerentemente l'interpretazione dell'edificio come solido.
Il processo di pietrificazione non conduce soltanto alle raffinatezze espressive della formulazione geometrica dell'edificio; esso comporta anche una sempre più articolata organizzazione del lavoro per tradurre il progetto in edificio, da un lato, e dall'altro produce un sempre più stretto e creativo rapporto con la ricerca scientifica, soprattutto nell'ambito della meccanica, per affrontare i problemi del trasporto e della messa in opera di componenti di grande peso. La cava e la lavorazione del materiale lapideo, in dimensioni e finiture che sono quasi al limite delle possibilità tecnologiche commisurate alla natura fisica dello stesso materiale, sono possibili solo attraverso un'esemplare interazione di competenze' e una formidabile organizzazione artigianale. Al loro sviluppo, nella tarda età classica, dobbiamo il diffondersi dell'impiego della pietra (calcare e marmo) come prevalente materia prima della produzione edilizia anche privata, fatto che incide da allora, in maniera determinante, sull'immagine della città della penisola greca e di Asia. È quell'immagine che tanto impressionò gli autori latini, tra l'ultimo secolo della repubblica e l'inizio dell'impero, cui si deve l'esaltazione classicistica di una Grecia di marmi, di colonne, di fregi, di modelli architettonici da riprodurre per ottenere l'approvazione formale del manufatto costruito.
Come già detto, le c.d. iscrizioni dei conti, che, sia pure in condizioni frammentarie, santuari e città del mondo greco ci hanno conservato, sono fonti preziose per la storia dell'architettura. Si tratta dei documenti relativi all'approvazione del progetto, al capitolato analitico della costruzione e delle procedure tecnologiche per realizzarla, nonché al bilancio dello stanziamento effettuato e delle spese affrontate per realizzare l'opera, documenti che, dalla metà del V sec., in Atene, vengono messi a disposizione del pubblico incidendoli su marmo, a fianco dell'edificio e consentendo così che potessero giungere, in qualche caso, e sia pure estremamente frammentari, fino a noi. All'avvento della democrazia dobbiamo l'affermarsi del costume della pubblicità degli atti, e all'uso del marmo, come supporto materiale di essi, la possibilità di conoscerli; ci sembra però di dover ritenere che le procedure tecnologiche, organizzative, amministrative, finanziarie e legali che le iscrizioni pervenute ci illustrano, siano state in uso anche ben prima del V sec., quando le condizioni oggettive della costruzione erano le stesse, e in quelle aree, come la Grecia di Occidente, ove la mancanza di buon marmo deve aver fatto preferire il bronzo per la pubblicazione, bronzo fuso verosimilmente fin dalla tarda antichità.
Pur nello stato frammentario di quanto ci è pervenuto, queste iscrizioni sono fonti preziose per la storia dell'architettura greca. A esse dobbiamo la formulazione del progetto architettonico espresso dai già ricordati modelli in scala, i paradèigmata e dai tỳpoi, cioè modelli in scala 1:1 per tutti gli elementi, quindi anche per la decorazione scultorea, che, nella comunicazione complessiva dell'edificio, dovevano assumere la loro funzione espressiva con tale precisione e finitezza da renderli intrasmissibili in un rapporto di scala inferiore all' 1:1. Ai modelli si affiancava il vero e proprio capitolato della costruzione, la syngraphè, in cui erano illustrati tutti i requisiti dei lavori richiesti e dei singoli elementi che componevano l'edificio.
Per quanto riguarda l'organizzazione del cantiere è noto come le fasi della lavorazione della materia prima e il suo assemblaggio fossero distinte anzitutto nelle operazioni di cava, affidate ai lithotèmnoi, quindi di taglio e sbozzatura dei blocchi, affidate ai lithokòpoi; dopo di che si affrontava il trasporto su veicoli, piuttosto stretti di carreggiata - come provano le tracce sulle strade di uscita in alcune cave antiche ancora conservate - per i normali blocchi dell'apparecchio lapideo, mentre appositi telai, montati direttamente sulla pietra quando veniva sbozzata in cava, assicuravano il trasporto dei blocchi di maggiori dimensioni e quindi più pesanti, come i grandi architravi. Questi trasporti hanno affascinato spesso gli autori antichi che scrivono, in maniera quasi leggendaria, dell'impegno per le prime grandi costruzioni lapidee, in epoca distante alcuni secoli dal loro tempo. Troppo spesso i loro testi sono stati pedissequamente accettati dagli studiosi moderni: la conseguenza è stata il nascere di non poche incomprensioni sulle tecniche di esecuzione degli edifici greci di età arcaica e classica.
Queste ricorrono soprattutto sulle modalità di sollevamento e di messa in opera dei più pesanti elementi, per cui la soluzione di terrapieni provvisori su cui far rullare i blocchi fino a condurli all'altezza e al sito designati, ricordata p.es. per l’Artemìsion di Efeso del tempo di Creso intorno al 570 a.C., non può essere accolta come usualmente applicata per la congenita crisi energetica della pòlis di cui abbiamo già parlato. Il rullaggio era, infatti, possibile con traini che richiedevano parecchie decine di uomini e di coppie di buoi. L'assemblaggio delle maggiori costruzioni lapidee comportò perciò soluzioni innovative. Da un lato queste erano preparate dalla grande esperienza dei tèktones, che, se non erano più i soli protagonisti della realizzazione architettonica come in età geometrica, conservavano ancora una grande importanza per eseguire molto impegnative opere provvisionali e apparecchi di sollevamento, oltre che per realizzare le orditure lignee del tetto e della sottostante soffittatura, tanto significativa nell'apprezzamento degli spazi interni. Non dobbiamo dimenticare anche gli infissi che, come le porte d'ingresso, avevano molto spesso carattere monumentale.
Tra gli apparecchi di sollevamento di cui abbiamo notizia il più antico fu. il gèranos, la gru appunto, di chiara derivazione navale. Consisteva in un albero piantato su una solida piattaforma, al quale era, verso l'alto, incavallato, con una forchetta, un braccio mobile. L'invenzione che rendeva brillantemente operativo un congegno assolutamente elementare era il giunto tra braccio e albero. La forchetta del braccio era infatti contenuta entro una coppa lignea con bordo superiore leggermente aggettante verso l'interno (il karchèsion, che letteralmente significa «piccola testa cava»), in modo che la stessa forchetta si potesse muovere intorno all'albero sia in senso orizzontale che verticale, rimanendo bloccata dall'orlo aggettante solo nel caso di una eccessiva inclinazione verso il basso: era l'accorgimento che garantiva l'assetto del sistema. L'estrema semplicità e mobilità dell'apparecchio aveva un limite nella modesta resistenza del giunto forchetta-albero e del karchèsion, che fa ragionevolmente ritenere che il gèranos potesse sollevare carichi fino a un massimo di 5-6 quintali. Era quindi utilizzabile, p.es. per i blocchi di un muro, non per i rocchi di colonne di diametro superiore al metro o per i più pesanti componenti di un epistilio. Ben presto, intorno alla metà del VI sec. c.a, dovettero apparire apparecchi più robusti come il monòkolos o il dìkolos: essi consistono di un braccio, fatto di un solo elemento ligneo o di due convergenti a «V» verso l'alto, fissato con uno snodo su una robusta piattaforma. Lo snodo consentiva solo una maggiore o minore inclinazione del braccio, ma nessuna rotazione. Il carico era sollevato su un piano parallelo a quello della definitiva collocazione, a un'altezza superiore a quella prevista, e poi, inclinando verso il basso il braccio, grazie allo snodo sulla piattaforma, veniva portato nel punto previsto e definitivamente posato con l'aiuto di paletti. Ovviamente prima del sollevamento dovevano essere state predisposte dai lithotomèis tutte le facce di contatto: perfettamente levigati piano di posa e piano di attesa, con l’anathỳrosis sulle facce verticali su cui erano accostati i blocchi della stessa fila. L’anathỳrosis è un accorgimento che, fin dai suoi inizi, l'architettura lapidea greca impiega con eccezionali risultati sia estetici, nel serrato collegamento tra gli elementi, che meccanici, con la creazione di un giunto elastico che assorbe dilatazioni e contrazioni della pietra in conseguenza delle escursioni della temperatura. Nelle facce verticali viene levigata solo una fascia, più o meno stretta, lungo il perimetro, che diviene l'unica superficie di contatto tra i blocchi, mentre il resto della faccia viene leggermente incavato, così da formare, con il corrispondente incavo del blocco contiguo, una camera vuota.
Ma il problema fondamentale del sollevamento era sempre costituito dalla forza da applicare: andava affrontato ottenendo demoltiplicazioni che riducessero la quantità di energia meccanica necessaria, sia attraverso opportuni rinvii nella corda traente, oltre i due ovviamente collocati al sommo e alla base del braccio, sia attraverso il rapporto tra il tamburo di avvolgimento e l'estremità dell'impugnatura cui si applicava effettivamente lo sforzo degli operai addetti al sollevamento. I rinvii furono dapprima ottenuti facendo scorrere le corde su bozzelli fissi che per la loro forma, simile a un collo umano, si chiamavano appunto auchènes. L'attrito che si determinava frenava però il movimento della corda e obbligava a limitare il numero dei rinvii e quindi delle possibili demoltiplicazioni; di conseguenza imponeva un ridotto peso dei blocchi da sollevare. Ciò significava anche un limite tecnologico al processo di pietrificazione dell'edificio e alla crescita dimensionale di esso: le colonne rimangono infatti monolitiche, in modo da poter essere, una volta trasportate in sito, semplicemente drizzate, con uno sforzo minore a quello di sollevamento, anche solo di parti del loro fusto. Ciò naturalmente rappresentava un difficile impegno nelle operazioni di cava e di trasporto, con conseguente limite dimensionale delle colonne e quindi dell'edificio, ma anche alla diffusione di costruzioni lapidee con colonne in genere, a causa appunto dei gravi oneri che le colonne imponevano per la loro disponibilità sul cantiere. Per far fronte a questo problema la dialettica tra epistème e tèchne, che caratterizza le ricerche di scienza delle costruzioni nell'architettura greca, produce l'invenzione di un rinvio mobile, che ruota velocemente su un asse, quello che si chiama in greco appunto trochìlos (da τρέχω = corro), cioè la nostra carrucola. Riteniamo che l'invenzione sia da collocare verso la metà del VI sec. e che abbia luogo in Occidente, più precisamente nel corso della costruzione del tempio C di Selinunte, il primo progetto eseguito del piano di monumentalizzazione dell'acropoli di quella città. Nella peristasi del tempio abbiamo infatti colonne monolitiche a partire dall'angolo NE fino a metà del lato S, da dove sono invece eseguite a rocchi, collegati verticalmente, in corrispondenza dell'asse della colonna, da un perno ligneo. Ma il tempio presenta un'altra singolare caratteristica, cioè quella di essere integralmente realizzato in pietra fino all'elemento sopra il gèison, che riceve i puntoni-tetto, ma che è ugualmente, anche se senza ragione funzionale, rivestito di terrecotte architettoniche. È vero che queste ultime erano entrate come elemento caratterizzante nella concezione dell'architettura siceliota del primo arcaismo, ma, come è lecito dedurre dagli edifici immediatamente posteriori, integralmente lapidei, sembra assai improbabile pensare a un tenace quanto provinciale conservatorismo: riteniamo piuttosto che tetto e terracotte architettoniche fossero state previste dal progetto originario che includeva, verosimilmente, anche un gèison ligneo e certamente l'elemento d'innesto dei puntoni. Perciò tutti i materiali di terracotta dovevano essere stati commissionati alla bottega di coroplasti che doveva confezionarli e cuocerli. Infatti la costruzione era già abbastanza avanti con tecnologie tradizionali (stereobate, muri della cella e parte, poco meno della metà, delle colonne della peristasi) quando l'invenzione del trochìlos rese possibile, con l'aumento dei rinvii utilizzabili, il sollevamento di carichi anche notevoli: la colonna poté essere eseguita a rocchi assai più facili da cavare e da trasportare, ma che dovevano essere liberamente sollevati per essere imperniati l'uno sull'altro. Con l'uso della carrucola fu possibile sollevare i blocchi lapidei dell'epistilio, fino a quelli sopra la cornice, che ricevevano i puntoni del tetto, giungendo alla completa pietrificazione che caratterizzerà l'architettura greca di età tardo-arcaica e classica.
Sembra opportuno ricordare brevemente come recentissime prove sperimentali, effettuate con tavola vibrante, abbiano dimostrato che la colonna a rocchi collegati verticalmente da un perno di legno duro (pòlos) inserito in uno zoccolo pure ligneo di quercia, di solito incastrato al centro del piano di posa e di attesa di ciascun rocchio, sia la più efficace struttura antisismica del mondo antico. Infatti, mentre la colonna lapidea monolitica, per la rigidezza del materiale, si può spezzare per sollecitazioni di taglio, in quella a rocchi questi si sollevano anche sensibilmente, assorbendo energia d'urto e poi, grazie ai perni, ritornano a posto senza compromettere l'assetto statico del contesto strutturale a cui appartengono. Sembra anche interessante sottolineare come questo vero e proprio salto qualitativo tecnologico e di scienza delle costruzioni sia da ricondurre alle officine di costruttori della Grecia d'Occidente.
Il diffondersi degli edifici lapidei in tutta l'area geografica interessata dalla civiltà greca determina una larghissima produzione monumentale. Riteniamo che essa non possa essere racchiusa in un quadro unitario il quale, attraverso un quasi biologico processo di sviluppo, raggiunge l’akmè, il tradizionale periodo classico tra metà del V sec. e metà del IV, per scivolare poi verso una decadenza, l'ellenismo, se non altro per la disgregazione del modello tipologico del tempio, nell'opinione corrente considerato canonico per l'architettura greca. Si è già detto come questo processo unitario sia un postulato erroneo fin dalle origini: la pietrificazione comporta soluzioni di grande respiro che illustrano, in diverse fase temporali e in aree diverse, i momenti più significativi di una tradizione culturale oltre che di una scuola di architetti. Se vogliamo misurarci con il metro del classicismo, la storia dell'architettura offre l'opportunità di individuare tre momenti di vertice nelle manifestazioni espressive, con tali autonomie che sembrano mettere decisamente in crisi ogni concezione di organico processo ciclico antropomorfo dell'arte greca, attraverso una progressiva crescita, un culmine eccellente e una successiva decadenza. Questi momenti rappresentano la grande stagione dei dipteri ionici, quella degli architetti occidentali che hanno operato nella generazione i cui anni centrali coincisero con la vittoria di Himera sui Cartaginesi che, per l'Occidente greco, ebbe conseguenze forse ancora più significative di quella sui Persiani per la madrepatria, e infine l'età di Pericle, che vide esprimersi la geniale progettualità di Iktinos, che segna, in maniera decisiva, l'impostazione spaziale e distributiva della produzione edilizia fino alla metà del IV sec. a.C.
Rhoikos conduce l'architettura ionica arcaica alla più alta manifestazione: l'idea-guida dell'edificio inteso come recinto di uno spazio qualificato, propria della tradizione microasiatica fin dall'età geometrica, assume, nel doppio anello del colonnato, nelle sue grandiose proporzioni e nella raffinata decorazione di capitelli e antemi, con un calibrato gioco di pietra e metallo, un'intonazione monumentale. L'edificio realizzato costituì giustamente il modello di una serie di grandi templi che da Efeso, a Mileto, a Samo stessa si dispongono in un arco cronologico, per ciascun edificio abbastanza lungo, data anche l'eccezionalità dell'impegno, tra il secondo quarto e l'ultimo del VI secolo. Per l’Heràion di Policrate, a Samo, la costruzione prosegue anche nel corso del V secolo. La suggestione del modello permane a lungo, e architetti e maestranze, verosimilmente profughi da Samo, la trasferiranno, verso la fine del VI sec. in Occidente, a Siracusa, nell’Artemìsion di Ortigia e affiancato all’Athènaion che avrà le grandiose forme lapidee, che ancora oggi si apprezzano nel Duomo, solo dopo il 480.
La bottega samia si mantiene con una sua autonomia anche a Siracusa, fino a che è inviata da Gerone a Locri, per realizzare il nuovo tempio di Marasà, con ogni probabilità costruito, in calcare siracusano, tra il 475 e il 470 e dedicato ad Afrodite. È l'ultimo prodotto della grande tradizione architettonica ionico-asiatica.
La tradizione cicladica, invece, che si riflette a Delfi nel Tesoro dei Sifni, si incrocerà in Attica con l'eredità del linguaggio samio in una nuova sintesi in cui le forme ioniche, con l'innovazione del fregio continuo, serviranno a far accettare le prime significative rotture del canone tradizionale per l'architettura dorica.
L'architettura della Grecia d'Occidente, in particolare quella della Sicilia, dopo aver accolto in età arcaica le suggestioni formali della madrepatria per rivestire invenzioni spaziali del tutto autonome (vedi p.es. i c.d. pseudodipteri selinuntini intorno alla locale tipologia del mègaron), secondo la concezione relazionale dello spazio interpreta la grande cella come vano, libero da ogni struttura di soi stegno del tetto, quindi del1 tutto indipendente, nella fruizione e nella valutazione, dalla costruzione e dal ritmo della struttura dell'esterno. Oggi, grazie alle più recenti scoperte selinuntine, possiamo affermare che la prima realizzazione di una grande cella, libera da supporti interni, risale al progetto del tempio E2 (immediato tentativo di ricostruire l'incendiato tempio E1, chiaramente bloccato). L'esecuzione si arrestò al livello delle fondazioni; ma quanto è stato possibile rilevare è già sufficiente per leggervi le fondamentali caratteristiche planimetriche della cella. La data del tempio E2 va fissata intorno al 515 a.C.; esso costituisce perciò il più antico esempio di questo tipo di cella, che richiama la concezione spaziale del già ricordato mègaron precoloniale. Il lontano modello è ricercato con tenace intenzione fino a demolire le fondazioni del tempio Ei che riflettevano la divisione della cella in tre navate, secondo la tridimensionale interpretazione del solido di origine peloponnesiaca, anche dove queste potevano essere utili per l'appoggio dei setti di sostegno del lastricato del pavimento. Il progetto selinuntino rimase interrotto, verosimilmente per l'opposizione della parte dei cittadini più direttamente discendente dai coloni e per l'allora avviata costruzione del tempio G, che in forme doriche riprende i modelli dei grandi dipteri ionici, ma esso venne, a nostro parere, utilizzato per il c.d. Tempio di Eracle ad Agrigento, che deve essere datato nell'ultimo decennio del VI sec. e che ha, nello stereobate, le stesse dimensioni del tempio E2. Abbiamo in questo edificio il modello, ben conservato, di una serie che conta molti esempi nel primo trentennio del secolo (Tempio della Vittoria di Himera, Tempio di Atena a Siracusa, tempio E3 a Selinunte), e che si mantiene anche nei templi della metà del V sec. in avanti (templi A e O di Selinunte, Tempio di Hera Lacinia e della Concordia ad Agrigento).
La cella, libera da supporti interni, comporta un'orditura lignea di tipo reticolare a sostegno del manto di tegole; orditura che forma, per ciascuna falda, un telaio rettangolare montato a contrasto con quello gemello dell'altra falda. Si evita così la necessità del trave maestro, cioè del fondamentale elemento longitudinale per il sostegno delle cui successive sezioni sono necessari i supporti che dividono la cella in navate. La diversa orditura di tetto comporta quello che da tempo è stato riconosciuto come un elemento distintivo della tipologia, senza però mai darne una convincente spiegazione: si tratta delle torri scalari che fiancheggiano la porta di ingresso alla cella e determinano, di conseguenza, un consistente spessore del muro tra cella e pronao. La loro presenza non può giustificarsi che con la necessità di un facile e rapido accesso al sottotetto per operazioni frequenti che non possono essere connesse con compiti di manutenzione; questi sono comuni ovviamente a tutti i tipi di tetto e sempre difficilmente assolvibili, dall'interno del sottotetto, per la parte che poteva richiedere interventi più frequenti, perché più esposta, cioè le tegole dell'impermeabilizzazione. Riteniamo invece che le scale siano da mettere in relazione con la chiusura e l'apertura di όπαία necessari per l'illuminazione della cella. Quest'ultima nelle orditure con trave maestro era assicurata da finestre, protette da abbaini strutturalmente appoggiati allo stesso trave maestro; gli abbaini non richiedevano un infisso da aprire e chiudere secondo le circostanze, perché l'apertura era protetta. Con una struttura reticolare a sostegno delle tegole l'abbaino non trovava i necessari appoggi nell'orditura primaria (il trave maestro) nettamente più robusta dei singoli componenti la maglia reticolare; di conseguenza le aperture, direttamente ricavate nel manto di tegole, avevano bisogno di un infisso da chiudere in caso di avverse condizioni metereologiche. Per questa operazione gli addetti alla custodia del tempio dovevano avere facile e relativamente comodo accesso al sottotetto da dove era possibile manovrare gli infissi delle aperture da cui, attraverso opportuni varchi nella soffittatura, una luce moderata, ma certamente sufficiente, penetrava nell'ampio vano della cella.
La suggestione di questa e della libera godibilità del suo spazio, in maniera del tutto autonoma dall'apprezzamento dall'esterno dell'edificio, si riflette nella stessa architettura della madrepatria, tanto che il grande maestro dell'età classica per eccellenza, l'architetto di Fidia nell'impresa partenonica, Iktinos, si impegna a offrire, per la prima volta nell'architettura dorica, una percettibilità autonoma del vano interno della cella, pur sempre nell'ambito della concezione tridimensionale dello spazio. La soluzione nel Partenone è brillante quanto semplicissima: le due file di colonne parallele sui lati lunghi della cella, cui sul piano statico è pur sempre affidata la funzione portante dei cavalletti che debbono sostenere le successive sezioni dèi trave maestro, sono collegate, sul lato breve opposto all'ingresso, così da formare uno schema a U. Questo produce una percezione dello spazio, sempre fondata sul convergere delle tre dimensioni, che però oblitera il riferimento alla trave maestra, proprio grazie a un'articolazione planimetrica che assume una nuova intenzione di comunicazione. Ciò è tanto più interessante nel momento in cui dall'esterno, invece, la leggibilità del solido ideale è affidata a sempre più raffinate correzioni ottiche che furono le prime a essere osservate dai moderni. Il progetto del Tempio di Apollo Epikourios a Figalia rinnova, in forma ancora più esplicita, l'autonoma interpretazione dello spazio interno, questa volta con l'introduzione di una rotazione di 90 o nel percorso di fruizione, tra l'atrio scoperto, accessibile da un lato lungo, e la cella vera e propria. La percezione della rotazione è affidata al primo capitello corinzio pervenutoci, anche se non è il prototipo di Callimaco, forse creato per la colonna a sostegno della mano distesa della Parthènos fidiaca. Il capitello corinzio si articola in quattro facce uguali che s'incontrano a 90o; esse invitano a una rotazione, intorno al kàlathos, non continua come l'echino del capitello dorico, ma precisamente fissata in quarti di cerchio, cioè collegata con punti di vista da piani ortogonali. Questa rotazione di 90o è appunto quella dell'asse di percorso dall'ingresso sul lato lungo all'interno della cella.
È una chiara dimostrazione di nuove aspirazioni dell'architettura classica, insoddisfatta di esprimere soprattutto il generarsi percettibile del solido. Queste aspirazioni, nel IV sec., investono la concezione complessiva dell'edificio: in essa appaiono intenti nuovi, e in dimensioni grandiose, come ci mostra l'opera forse più significativa del IV sec., il Mausoleo di Alicarnasso. Alla fama del monumento, che la storiografia antica esalta come una delle meraviglie del mondo, non corrisponde purtroppo uno stato di conservazione che permetta di apprezzarne direttamente l'aspetto originario. Il recupero di quest'ultimo è affidato alla tradizione letteraria e, soprattutto, alle pazienti e accurate ricerche di una missione danese che ha lavorato sul monumento e sulla sua interpretazione nell'ultimo venticinquennio, riprendendo le esplorazioni della metà del secolo scorso e discutendo criticamente tutte le ricostruzioni che ne erano derivate. Sembra, in primo luogo, assai rilevante l'inserimento del sepolcro in un recinto, una vera e propria terrazza monumentale, legata al piano urbanistico di Alicarnasso ridisegnato da Mausolo per la sua nuova capitale. Questo piano appare come un'applicazione dei principi ippodamei basati sulla zonizzazione dei comparti urbani articolati nella griglia ortogonale. In questa zonizzazione il Mausoleo si trova subito a O dell'agorà, in una posizione che ricorda l’heròon dell'ecista nelle città coloniali. Ma il richiamo a una tradizione remota e alla tipologia di monumenti funerari, risalenti anche a più di cent'anni prima, è completamente soverchiato dalle originali novità del progetto. In esso la decorazione scultorea a tutto tondo, sia sulle due basi che, a due quote, affiancano il podio, sia all'interno del portico, sia sui gradoni della copertura piramidale, assume una funzione rilevante per la generale comunicazione visiva dell'edificio. Questa integrazione di comunicazione geometrica e figurativa era stata, fin dall'età arcaica, una costante dell'architettura greca. La parte figurativa veniva sempre però confinata, per dir così, nei campi neutri lasciati dagli elementi generatori della costruzione geometrica, come metope e campo triangolare del frontone. Il fregio continuo aveva occupato, per trasposizione del coronamento del muro, uno spazio integrativo nell'ordine ionico, quando questo, in Attica e alla fine dell'arcaismo, per seguire l'eleganza raffinata delle sagome, aveva perduto l'originaria logica funzionale della nativa struttura lignea.
Nel Mausoleo la decorazione figurata, in prevalenza a tutto tondo (i fregi a rilievo dovevano essere solo al sommo del podio e al sommo del muro della cella all'interno del colonnato), s'imponeva all'attenzione, certamente attenuando la nettezza geometrica del solido strutturale. Non a caso la tradizione letteraria ricorda i maggiori scultori del IV sec. impegnati nel Mausoleo: Skopas, Timotheos, Bryaxis e Leochares, secondo una tradizione accolta da Plinio; Prassitele al posto di Timotheos, secondo una tradizione riferita da Vitruvio. Crediamo che non sia il caso di ricercare la mano di questi maestri nei frammenti scolpiti nel Mausoleo; probabilmente le attribuzioni sono dovute alla fama dell'edificio. Storici, invece, dobbiamo ritenere i due nomi di Satyros e Pytheos, ricordati come architetti, ma forse anche progettisti della decorazione figurata che, come sempre, può aver avuto molti esecutori materiali. Più difficile è stabilire il rapporto tra i due: sembra accettabile quanto è stato concluso a proposito del fatto che Pytheos, che in un papiro alessandrino ê ricordato da solo, possa essere stato il collaboratore più giovane e il continuatore di Satyros. L'opera, infatti, se non fu completata addirittura ai tempi di Alessandro, occupò certamente alcuni anni dopo la morte di Mausolo nel 351, per impegno della moglie Artemisia.
Ormai il monumento più significativo della produzione edilizia non è più il tempio: l'immagine della città si arricchisce e si articola per edifici che assumono aspetto monumentale: non solo portici, luoghi di riunione, teatri, ma anche case private. Ciò non è solo conseguenza di un nuovo interesse per l'uomo e per le sue più specifiche e personali aspirazioni, prodotto dalla sofistica, ma anche di una nuova e più ampia organizzazione artigianale che consente di immettere sul mercato semilavorati lapidei per l'edilizia. I committenti non hanno più necessità di organizzare cava e trasporto della pietra, compito che solo la città o il tesoro di un santuario poteva permettersi, come sappiamo, p. es., dalle iscrizioni dei conti del Partenone. Si avvia infatti una vera e propria organizzazione imprenditoriale che è provata, per tutto il IV sec. dai rendiconti dei lavori nel Santuario di Asclepio a Epidauro; si tratta di un'organizzazione in grado di condurre sul cantiere elementi semilavorati che richiedono soltanto di essere assemblati e fruiti. In tal modo si standardizzano gli ordini e le decorazioni; l'invenzione dell'architetto si indirizza sull'articolazione distributiva degli spazi e sulla percettibilità dell'elevato, attraverso un gioco di luci e ombre e il disegno complessivo delle linee che delimitano le parti dell'edificio.
Si comprende il moltiplicarsi delle tipologie, tutte elevate a livello di impegno monumentale: tra queste, in primo luogo, quella del teatro con la sua tipica cavea semicircolare affrontata al palcoscenico, il logèion. È noto ormai che i teatri di età classica, a cominciare da quelli famosi di Atene e di Siracusa, avevano forma trapezoidale, cioè erano costituiti da strutture disposte su tre lati contigui di un trapezio, strutture che si limitavano a regolarizzare un terreno naturalmente opportuno per la funzione: i tre lati avevano come base il palco dove agivano gli attori dinnanzi a una tenda (la skenè appunto) su cui, pittoricamente, veniva evocato il luogo degli avvenimenti della rappresentazione teatrale. Il primo teatro costruito in una razionale forma circolare con ripida cavea che, mentre aumentava il numero dei posti disponibili per gli spettatori, creava condizioni ideali per una ottimale resa acustica, si ritiene sia stato il teatro di Epidauro, nella seconda metà del IV secolo. Nell'ambito di quel Santuario di Asclepio, per i numerosi lavori compiuti dall'inizio del IV sec. fino ai primi anni del III, dovettero circolare scultori e architetti tra i più impegnati del periodo, richiamati da importanti e remunerative commesse. È il quadro culturale in cui possiamo ben inserire un edificio che Pausania ricorda come degno di particolare ammirazione. Il Periegeta ci dà anche il nome dell'architetto, Policleto; ma è molto probabile che sia stato suggerito a lui, o, meglio, alla sua fonte, dalla volontà di accostare il teatro al «canone» del grande scultore argivo del V sec., espresso dalla sua opera più celebre, il Doriforo. È l'opera, illustrata anche da un trattato dello stesso autore, che un filone della critica antica, largamente influente nella letteratura pervenutaci, considerò come modello insuperato di scultura. La disposizione distributiva che constatiamo, per la prima volta, nel teatro di Epidauro diede vita a una tipologia rimasta praticamente immutata per più secoli, quindi taluno può aver detto che quel teatro si doveva considerare il «canone» dell'edificio teatrale, come il Doriforo era il «canone» della statuaria classica: di qui l'associazione al nome di Policleto.
L'architettura greca produce, con l'ellenismo, soprattutto edifici per l'uomo e per la sua città: la casa della divinità non rappresenta più, da sola o quasi, la grandezza e la potenza della pòlis; sono gli edifici, privati o pubblici che siano, per i suoi abitanti che determinano l'immagine, ma anche la funzionalità della città sempre più sentita come luogo d'incontro di uomini e soprattutto di produzione di cultura. Di questa l'architettura costituisce parte essenziale, anche per quella larghezza di rappresentatività di tanti aspetti, della vita e dell'attività dell'uomo, che abbiamo ormai più volte sottolineato. Quanto si conosce direttamente di questa cultura del costruire e come si può veramente acquisirla e intenderla, soprattutto per l'enorme estensione delle conseguenze che ne sono derivate? È bene ricordare che l'ellenismo è stato a lungo il periodo della civiltà greca che la storiografia, impegnata nella ricostruzione delle vicende artistiche, ha compresso e appiattito in una generica età postclassica, quasi un grande serbatoio in cui ricondurre quanto non apparteneva al ciclo antropomorfo ed evolutivo; da infanzia a maturità, che, sulla base della tradizione letteraria antica, si imponeva nel recupero della produzione figurativa e architettonica greca. Solo le ricerche dagli anni Trenta in avanti hanno condotto a provare e illustrare una ben distinta articolazione per periodi e per grandi centri produttori di cultura; le ricerche più recenti hanno condotto a valutare quanto l'eccezionale capacità di irradiazione della cultura ellenistica abbia rappresentato per la storia della civiltà umana. In questi impegni della ricerca scientifica le problematiche architettoniche sono rimaste, in certa misura, ai margini, data la relativa modestia numerica dei documenti edilizi, conseguenza delle vicende di alcuni dei grandi centri come Alessandria e Antiochia, e, in genere, delle pesanti trasformazioni che incisero, in età imperiale romana soprattutto, su moltissime città di tutta l'area geografica dell'ellenismo tradizionale. Forse soltanto alcune di esse in Asia Minore, Priene e Pergamo in primo luogo, ci illuminano, ma limitatamente ad alcuni monumenti. Ancora una volta la tradizione letteraria ha guidato gli approfondimenti più significativi; nel caso specifico, lo studio delle fonti di Vitruvio e specialmente l'architetto che l'autore del De Architectura elesse a suo principale modello, Ermogene. Le opere che a questo architetto, in certo modo un caposcuola nel III sec. a.C., possono essere ricondotte e che possiamo ancora apprezzare, l’agorà con il Tempio di Zeus Sosìpolis e il Santuario di Artemide Leukophryenè a Magnesia e il tempio dedicato ad Artemide a Sardi, almeno nella sua prima fase, hanno costituito la base per definire uno stile di progettazione: è ritenuto ricco di conseguenze anche per il fatto che un discepolo della scuola, Ermodoro di Salamina, fu chiamato e operò a Roma nel terzo quarto del II sec. a.C.
Ma non crediamo che le capacità creative e progettuali dell'architettura ellenistica possano circoscriversi alla scelta di rapporti dimensionali e a soluzioni modulari nell'invenzione planimetrica e nella distribuzione e articolazione dell'impianto e dell'elevato dell'edificio. La relazione prodotto architettonico-spazio assume intonazioni e aperture nuove nel quadro di quel processo verso la percettibilità dello spazio investito dal manufatto d'arte, sia figurativo sia architettonico, che caratterizza l'ellenismo nei suoi originari centri di produzione e di irradiazione. Crediamo infatti che la cultura di età ellenistica manifesti una larga e profonda articolazione di scelte e di espressioni cui corrisponde una molteplicità di centri di elaborazione e di diffusione. Accanto alle sedi più tradizionalmente riconosciute (Alessandria, Antiochia, Pergamo, oltre alla stessa Atene se non altro per la forte suggestione del suo glorioso passato), sembra opportuno aggiungerne altre due, che furono cerniere dell'irradiazione della cultura ellenistica rispettivamente in Occidente e in Oriente fino all'Asia centrale: Roma mediorepubblicana, da un lato, e Seleucia sul Tigri, dall'altro.
Alessandria e Antiochia danno ben pochi documenti di edifici di piena età ellenistica: non possiamo limitare la valutazione dell'arte di costruire al lessico delle forme, anche se è certamente significativo. Per entrambe però abbiamo modo di apprezzare le concezioni fondamentali delle due scuole attraverso i documenti che ci sono giunti da quei territori che dai due centri furono certamente influenzati. Per Alessandria, la Libya e soprattutto la Sicilia che, nel III sec., ai tempi di Gerone II, fu ad Alessandria strettamente legata; per Antiochia, talune città dell'Asia Minore, visto che i livelli ellenistici di molti centri della Siria stessa non ci permettono considerazioni approfondite sulla produzione architettonica. Tolemaide, Siracusa ellenistica, Morgantina, Lilibeo e Solunto consentono di recuperare almeno la suggestione di quanto è negato dalla stessa Alessandria. In Sicilia non ha significato storico, in questo momento e per la cultura artistica, una distinzione tra Sicilia punica e Sicilia greca, perché le forze di penetrazione delle forme e del messaggio dell'ellenismo alessandrino investono entrambe in egual misura. È in Sicilia che, fin dal tempo della prima guerra punica, Roma entra in contatto con l'ellenismo di Alessandria.
Ci si è troppo limitati a leggere solo nel lessico delle forme la cultura architettonica di origine alessandrina. Certamente queste sono un evidente tracciante, come è il caso del capitello corinzio c.d. siceliota che, se ha in Sicilia larga documentazione, trova però le radici ad Alessandria stessa. È da ritenersi, invece, che gli aspetti più rilevanti, quelli che caratterizzano profondamente la progettualità architettonica, vadano individuati nella concezione strutturale del manufatto e nella valutazione dei suoi rapporti con lo spazio, categoria mentale chiaramente essenziale per un prodotto dell'attività dell'uomo che non solo deve trovare adeguata collocazione nell'ambiente, come ogni altro manufatto, ma che necessariamente ne evidenzia una porzione per rispondere ai proposti bisogni dell'uomo: questi non sono solo l'esigenza materiale di un tetto, ma anche l'aspirazione a un luogo d'incontro, di contatti, confortevole e invitante.
Questo aspetto ci sembra tanto più rilevante nell'affrontare l'architettura alessandrina, se pensiamo a come la presenza ad Alessandria, nel corso del III sec. a.C., di Euclide e di Archimede abbia dato luogo nella città a un centro particolarmente avanzato di ricerca scientifica. In modo specifico interessa la geometria: è la scienza per cui, attraverso la costruzione prospettica, viene soddisfatta l'esigenza di rendere percettibile, misurabile, quindi anche praticamente e sistematicamente utilizzabile, lo spazio incluso nel cono del campo visivo dell'occhio umano. La scelta umanistica, comune a tutta la cultura ellenistica, si traduce così nella prima oggettivazione dello spazio investito della rappresentazione figurata o dall'edificio. Piena oggettivazione significa percettibilità di esso alla stessa maniera dello spazio reale, in cui l'uomo si muove e si può muovere, al di là dei limiti della città, dell'edificio, del vano che in quel momento egli occupa. La percettibilità nasce attraverso la costruzione geometrica di un rapporto tra il punto di vista e l'infinito; essa è appoggiata su linee facilmente individuabili nella rappresentazione figurata, o su membrature dell'edificio, così che la scena di quella o la collocazione di questo, entrano a far parte dello spazio reale che l'occhio coglie, dal punto di osservazione all'orizzonte. È questa costruzione ciò che chiamiamo illusionismo prospettico: da tempo è stato individuato nella produzione figurata del medio ellenismo, anche al di fuori dell'ambito alessandrino, a partire dall'esempio ormai canonico del fregio di Telefo nell'Altare di Pergamo, nel decennio precedente la metà del II sec. a.C.
Nella misura in cui l'illusionismo prospettico, per sua stessa natura, è un atteggiamento mentale e non un modo stilistico, non può non investire le realizzazioni architettoniche, specialmente se si tiene conto che la produzione riconducibile nel III sec., anche fuori dell'ambiente alessandrino, o da Alessandria direttamente influenzato, rivela una nuova attenzione alla definizione dello spazio o, per meglio dire, della porzione di spazio interessato dall'edificio. Quanto intravediamo dall'agorà di Priene è confermato dal Mercato e dal Santuario di Atena Poliàs sull'Acropoli di Pergamo, nonché dall'area al centro della quale domina il celebre altare; soprattutto significative sono le opere riconducibili a Ermogene come l’agorà di Magnesia o il prossimo témenos di Artemide Leukophryenè. In entrambi i casi l'edificio, il Tempio di Zeus Sosìpolis, nell'agorà, e il tempio della dea nel témenos, è al centro di uno spazio qualificato dai portici che lo recingono, ritagliandolo in funzione di un interesse espressivo, indipendente dalle esigenze cultuali. Non si può parlare, in questi casi, di assoluta oggettivazione: esiste tuttora una netta differenza tra lo spazio investito dal manufatto costruito e l'infinito spazio reale. Ciò che l'occhio del visitatore coglie, osservando e fruendo dell'edificio, è strettamente in funzione di quest'ultimo e del suo uso, non si identifica, né si confonde con lo spazio reale che l'occhio umano, da un determinato punto di vista, può cogliere.
Ma, come si diceva, non conosciamo nessuna delle grandi creazioni architettoniche di Alessandria e, nelle aree da essa influenzate, possiamo apprezzare soltanto invenzioni planimetriche in cui l'effetto prospettico articola gli spazi, come il Palazzo delle Colonne di Tolemaide o l’agorà di Morgantina. Nel primo caso il grande cortile con peristilio assume precisa direzionalità spaziale, sull'asse longitudinale, avvalendosi degli ordini quali portatori di una costruzione prospettica; nell'agorà di Morgantina la forma trapezoidale del terrazzamento, che regolarizza l'andamento naturale del terreno, è un preciso accorgimento prospettico per condurre a una percezione spaziale che esce dal perimetro della piazza e, per il salto di quota tra le due parti dell'agorà, si immette nello spazio reale.
Si è suggerito di considerare Roma medio-repubblicana come uno dei centri di produzione culturale dell'ellenismo. I contatti, nel III sec., con la Sicilia nell'orbita di Alessandria avevano messo Roma in rapporto con questo grande centro, esaltando i filoni di cultura ellenistica già pervenuti a Roma attraverso i naturali, e quasi fisiologici per una città del Lazio, canali della Magna Grecia. Sono canali sempre effettivi, anche quando le colonie greche perdono il loro originario vigore: derivano da una cultura che alla tradizione greca continua a ispirarsi, specialmente quando questa, in età ellenistica, è vivacemente rinnovata e si carica di una potente spinta d'irradiazione. La materia prima più povera (tufo, travertino e soprattutto caementa) ha spesso velato, nell'architettura romana mediorepubblicana, la lettura di invenzioni geniali: esse non hanno ricevuto l'attenzione che la buona pietra e il marmo hanno riservato a edifici, forse progettualmente meno brillanti, della Grecia propria o dell'Asia ellenizzata. Proprio sullo scorcio del III sec. a.C., Roma deve ormai affrontare i problemi di una grande città densamente popolata, con notevoli risorse finanziarie a disposizione che premono per essere opportunamente utilizzate per tutte le possibili ricadute. A questo momento dobbiamo ricondurre alcune delle invenzioni tipologiche più brillanti della cultura architettonica ellenistica: la basilica, il macellum e, poco dopo, la porticus.
Vedremo tra breve il significato di queste invenzioni; interessa, per ora, sottolineare i rapporti diretti di Roma con l'ellenismo e la documentata partecipazione a tematiche diffuse dalla scuola alessandrina. Si comprende così come una geniale realizzazione dell'architettura laziale in caementa, quale il tempio superiore del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, databile nel terzo quarto del II sec., offra l'esempio più significativo, in tutta la produzione architettonica ellenistica, dell'assoluta oggettivazione dello spazio. Il complesso, concepito come sequenza di rampe e scalinate che immettono in diverse terrazze, mira soprattutto a materializzare un percorso ideale, e rituale al tempo stesso; in esso lo spazio direttamente fruibile si integra con quello reale che include e avvolge l'opera architettonica. Le fughe prospettiche, suggerite dagli ordini dei portici, si completano nelle quinte del paesaggio che avvolgono e inquadrano il monumento. Spazio reale e spazio architettonico si confondono e s'identificano in un equivoco intenzionale: è il frutto della ricerca scientifica che ha puntato a oggettivare lo spazio per servirsene meglio. Il risultato mette in crisi, però, tutto il filone critico fondato sull'assioma: arte come imitazione della realtà, o, comunque, dalla realtà differenziata e ben individuabile quando si tratta di produzione architettonica. È la crisi esistenziale della stessa civiltà artistica a servizio dell'uomo, sintetizzata dalla famosa espressione pliniana (ricondotta alla CXL Olimpiade, cioè alla metà del II sec. a.C.) «cessavit deinde ars ac rursus revixit» (Nat. hist., XXXIV, 52).
L'espressione è sempre apparsa piuttosto oscura, ma risulta logica se si accetta quanto finora illustrato. L'assoluta oggettivazione dello spazio della scena figurata, o dell'edificio, significa non distinguere più la realtà dall'invenzione; è la fine dell'arte come immagine e interpretazione della realtà, come prodotto della volontà dell'uomo, ben identificabile però come tale. Quindi risulta indispensabile il ritorno all'invenzione che dalla realtà cui si ispira deve necessariamente differenziarsi. Perciò il «rursus revixit»; l'impegno è una svolta decisiva: significa infatti la rinuncia alla percettività del modo di rappresentare e la conseguente concentrazione di ogni interesse sul contenuto, sul messaggio narrativo.
In architettura la rinascita si esprime con il ritorno alla facciata che qualifica lo spazio antistante, ma non si confonde con esso. Sarà soprattutto lo spazio urbano, come spazio fruibile dai cittadini, il tema dell'elaborazione della tematica tardo-ellenistica, anche oltre i confini cronologici dell'ellenismo. Sullo spazio così inteso si affacciano gli edifici che lo modellano, ma non vi si confondono. Non a caso, dunque, l'eccezionale esperienza espressiva del Santuario di Palestrina non fa scuola: subito dopo si ritorna ai prospetti che delimitano una massa bloccata, al c.d. classicismo degli ordini che inquadrano, disegnano e definiscono, ma non generano volumi e non suggeriscono articolazioni di spazi.
L'idea del recinto rimane però tenacemente e di essa la tipologia della stoà è lo strumento essenziale. Non la si può certo definire un'invenzione ellenistica, poiché è più recente soltanto delle prime forme dell'architettura templare, risalendo a poco dopo la metà del VII sec. a.C., ma certamente l'ellenismo ne fa lo strumento essenziale dell'intenzione di modulare e rappresentare l'immagine della città e soprattutto, in essa, degli spazi pubblici. L'attenuarsi dell'originaria serrata scansione ritmica dei supporti, che si susseguono come generatori di un volume, dà luogo a compiacenze pittoriche e scenografiche; queste, infatti, giocano sugli effetti di chiaroscuro tra ordini e vani interni e sulla ricchezza decorativa delle sagome, soprattutto dei capitelli: ciò vale in particolare quando prevale, in tutta la sua ricchezza, il capitello corinzio.
Può dirsi però che il tema della stoà, in diverse combinazioni, entri in alcune tipologie che l'ellenismo diffonde anche se non inventa, tutte destinate a uso pubblico e laico: ci riferiamo alla sala ipostila, al bouleutèrion e all’ekklesiastèrìon. La prima potrebbe addirittura avere richiami remoti, come spesso si è voluto, per confronti limitati ai caratteri planimetrici, con modelli egizi e iranici tanto differenti tra loro da suscitare nel ricordarli non poche perplessità. Nel famoso esempio di Delo l'idea originaria della stoà si adatta a una ripetizione multipla di sequenze e di moduli di colonne per sostenere la copertura che riserva lo spazio centrale a due ordini; si assicurava così l'illuminazione del vano interno. È questa la soluzione innovativa rispetto ai precedenti offerti dall'architettura ionica arcaica con i profondi pronai colonnati dei grandi dipteri di Samo, di Efeso e di Mileto. L'edificio ha però una limitata godibilità, troppo vincolato all'attuazione serrata, ma anche monotona, della logica di riferimento a una semplice concezione tridimensionale che, raggiunta autonomamente da tanti supporti, non offre alcuna finalizzazione di spazi o suggerimenti di fruizioni privilegiate.
Il più famoso tra i bouleutèria ellenistici, quello di Mileto, alle soglie dell'ultimo quarto del II sec., riassume e innova in forme che diverranno canoniche, tipologie che risalgono fino all'età arcaica. Le innovazioni si fondano sulla disponibilità di materiali (il legno in notevoli dimensioni) che consentono inedite, per allora, soluzioni nella copertura, quali le capriate. Lo sviluppo dei rapporti commerciali internazionali aveva aperto vie di rifornimento, e quindi offerta, di materie prime o semilavorati impensabili in età arcaica e classica.
Sul piano delle soluzioni tecniche e per la scelta di fondo della planimetria il bouleutèrion di Mileto può essere accostato all’ekklesiastèrìon di Priene, altro esempio di un edificio destinato a riunioni, coperto, con un preciso e alternato rapporto tra ascoltatori e oratore. Sono tipologie definite e funzionali che valicheranno i confini geografici e temporali dell'ellenismo fino ad arrivare alle moderne aule parlamentari.
Rimane scoperta la risposta alla domanda di riunioni occasionali, di affari, di carattere giudiziario e amministrativo, comunque di largo interesse pubblico a cui viene destinata la tipologia universale della stoà, assai largamente adattabile, ma scomoda sul piano dell'isolamento dall'esterno e quindi della necessità di una certa riservatezza. Inoltre essa non consentiva un grande spazio unitario, variamente suddivisibile, al bisogno, in aree a diversi fini impegnate. Queste esigenze sono invece soddisfatte dall'invenzione romana della basilica, invenzione che si può riportare proprio agli ultimi anni del III sec. a.C. Fino ad allora erano state assolte da tipologie proprie delle case private, gli atria publica appunto; lo spazio centrale del cortile coperto, l'atrio, rispondeva ottimamente a esse offrendo luoghi d'incontro e per fruizioni formali, circondato da vani che potevano contenere uffici e archivi.
L'inconveniente più grave, tanto più sentito nel diffondersi di una cultura architettonica che proponeva ampi e ben godibili spazi per l'attività dell'uomo, era il buio dell'atrio, sopportabile nella vita privata, ma certamente inadatto per affari pubblici. Dalla cultura ellenistica, e in particolare dal palazzo alessandrino, come lo intravediamo nel Palazzo delle Colonne di Tolemaide, nasce l'ispirazione all’aulè basilikè, il cortile-anticamera della sala del trono, luogo di attesa e d'incontri prima di essere ammessi alla presenza e alle decisioni del sovrano. Il cortile è naturalmente scoperto, ma il modello della sala ipostila ha già consentito di sperimentare il modo di coprire lo spazio centrale di un porticato multiplo offrendo, con un secondo ordine, la possibilità di illuminare largamente spazio centrale.
L'avvento della capriata permette di superare quei limiti di luci che costruzioni precedenti avevano dovuto subire. L’aulè basilikè diventa in latino basilica quando la tipologia si diffonde: il termine latino dipende dall'aggettivo qualificante nella denominazione greca, derivato dal nome del costruttore o dalle funzioni originarie dell'edificio. La basilica può considerarsi l'invenzione più brillante dell'ellenismo, che trova applicazione e sviluppo ben al di là dei limiti cronologici di esso: basta pensare ai grandi tepidaria delle terme imperiali che sono anche chiamate basilicae thermarum e che dell'originaria invenzione ellenistica, ancora vitale invece nella Basilica Ulpia, conservano solo il grande amplissimo spazio centrale. È la suggestione che ritornerà nell'ultima delle basiliche civili, quella di Massenzio-Costantino, chiaramente ricalcata sui tepidaria delle grandi terme.
Altra tipologia creata a Roma sullo scorcio del III sec. è il macellum, infrastruttura per quello che possiamo chiamare il mercato rionale. Esso dovette avere la forma, che rimarrà poi canonica, di un recinto chiuso da portici con al centro una thòlos a protezione di un pozzo o di una fontana. Il prototipo fu quello eretto allo sbocco dell’Argiletum nel Foro, in una zona che fu poi occupata dal Foro di Nerva, quando Nerone l'aveva rimpiazzato con suo Macellum Magnum.
Recenti ipotesi che vorrebbero vedervi un tipo derivato da modelli punici ignorano l'acculturamento alessandrino della Sicilia, anche della parte politicamente punica: a questa radice alessandrina si deve l'effettiva ispirazione. Le riproduzioni pittoriche più tarde del tipo, derivate da lontani modelli alessandrini, confermano il tema dell'edificio entro un porticato, nel caso specifico una thòlos posta a protezione di un pozzo o di una fontana, al centro di un'area recintata. Il gioco dei colonnati, circolare e rettilineo, crea effetti prospettici che appaiono ben collocati nel clima dello scorcio del III sec. a.C. ad Alessandria, e che riconducono a quella oggettivazione dello spazio architettonico di cui si è detto. Non a caso il motivo è pittoricamente inserito nelle pareti della Villa di Boscoreale che da sempre è considerata un esempio delle scaenarum frontes vitruviane finalizzate a dilatare lo spazio dell'ambiente decorato.
Nelle strutture dipinte in primo piano si aprono varchi in cui si collocano composizioni tipicamente illusionistiche. Ma, ormai alla soglia della metà del I sec., l'illusionismo è solo strumentalizzato in funzione della godibilità dell'ambiente di cui la pittura costituisce l'elegante finitura. Non c'è più confusione tra spazio reale e spazio rappresentato: il primo è ben chiaramente quello del vano, il secondo, alle spalle di una struttura dipinta che arricchisce l'ambiente, deve solo dare l'illusione di uno squarcio sullo spazio esterno, paesaggio, urbano o idillico, ma decisamente al di fuori dello spazio effettivamente investito dall'edificio. Si tratta di un'invenzione pittorica che appartiene sempre al «rursus revixit» pliniano.
Sembra importante concludere questo excursus sui problemi dell'architettura greca dall'età geometrica all'ellenismo, soffermandoci su un'altra tipologia inventata a Roma in quel momento in cui riteniamo sia stata uno dei centri produttori di cultura dell'ellenismo: proprio Roma, con il sopravvenire sempre più in essa degli indirizzi della cultura attica e asiatica, dovette essere il centro in cui meglio fu avvertito il «cessavit deinde ars» e quindi proprio Roma, con il peso del suo sempre più crescente potere politico e finanziario, è da ritenersi un'importante protagonista, se non altro come assai autorevole committenza, del «rursus revixit». Ci riferiamo alla porticus, cioè alla tipica infrastruttura urbana che nasce all'inizio del II sec. a.C. (la Porticus Aemilia nel quartiere emporico adiacente al porto fluviale di Testaccio). Il nome ne dichiara l'origine e il primo esempio ne illustra la genesi concettuale, ben prima che la prevalenza della sequenza ritmica la trasformasse in traduzione della greca stoà. L'etimologia è «sequenza di porte», cioè facciata di fornici in caementa che costituiscono la cellula base dell'infrastruttura, generata per giustapposizione in serie e in parallelo. Soluzione semplicissima, ma assai efficace, in cui la facciata, che impone il nome, costituisce anche la più funzionale soluzione per l'interazione tra spazio scoperto antistante e spazio coperto dei fornici. La soluzione di facciata della Porticus Aemilia si traduce in quella del cortile chiuso, alla fine del II sec., negli horrea, che sono l'ottimizzazione funzionale del tipo, in un momento in cui il recinto è usato anche in architetture monumentali nell'interpretazione ermogenea di spazio dedicato, ritagliato e non trascorrente nello spazio reale. È un'impostazione che attraverso le scuole architettoniche ellenistico-siriache collega la tradizione ermogenea fino ad Apollodoro di Damasco; ma si tratta in questo caso di un discorso che esce del tutto dai limiti cronologici e storici dell'ellenismo.
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( G. Gullini)
Scultura. - Le numerose scoperte di nuovi monumenti, la ricomposizione o restauro di vecchi ritrovamenti riscoperti nei depositi museali, l'organica revisione e catalogazione di serie monumentali e di collezioni hanno, segnato negli ultimi decenni un deciso rinnovamento degli studi sulla plastica greca, dopo una certa stasi che era seguita all'intensa stagione tra le due guerre. A un nuovo rigore metodologico nella definizione degli aspetti tecnici e nell'analisi di problemi archeologici si è aggiunta ora un'esplicita volontà di individuare, al di là dei valori puramente formali, il significato storico dei monumenti, rapportati alla committenza e connessi alla società dei singoli centri. Superato il conflitto che, dopo il successo dell'archeologia filologica ottocentesca, aveva privilegiato nel nostro secolo l'analisi degli originali, si è verificato ora un nuovo equilibrio di interessi, una complementarietà tra la documentazione indiretta delle copie del classicismo ellenistico e romano e la diretta testimonianza della produzione originale, più agevolmente inseribile nei contesti storici. Non vi sono state particolari difficoltà nell'inserire la produzione artigianale (bronzetti, terrecotte, sculture votive e funerarie) nei quadri classificatori e storici già precedentemente definiti; ha integrato e arricchito quel tessuto connettivo di consuetudini tecniche e stilistiche che sono preziose per la definizione di scuole regionali e di griglie evolutive cronologiche. A confronto con essa vengono poste, secondo un'affermata tradizione metodologica, anche le più impegnate realizzazioni plastiche, come le numerose opere emerse negli ultimi tempi. Diverso è stato il grado del loro contributo. Per alcune, come il colossale kouros di Samo dedicato da Isches o la nuova kore di Keramyes, gemella dell’Hera samia del Louvre, l'inserimento nella tradizione è stato agevole, anche se integrato con le novità delle loro informazioni. In altri casi, come per la testa barbata arcaica coperta di tiara da Eraclea Pontica, il nuovo documento pone, in termini più nitidi, un problema precedentemente solo sospettato, quale il sorgere del ritratto individuale (anche se idealizzato) già in periodo arcaico; ma è indicativo che il fenomeno, come nel caso della Testa Sabouroff e del Cavaliere Rampin, si realizzi nel quadro politico della tirannide e delle satrapie e non in quello della democrazia che tarderà, in difesa dell'isonomia, a concedere ufficialmente la distinzione dell'immagine fisiognomica individuale. In altri casi ancora le nuove scoperte hanno suscitato il sovvertimento di prospettive che sembravano consolidate. La kore di Mirrinunte (Phrasikleia) offre ora un raro punto fermo per la ricostruzione delle vicende dell'arte arcaica in Attica, essendo provvista della firma di Aristion di Paro; ma la sua apparizione ha imposto subito una revisione critica delle prospettive già acquisite, offrendo un solido contributo al problema dei maestri e delle scuole locali. Diverso ancora è il caso di opere anonime, divelte dal loro contesto originario come i Bronzi di Riace: alcuni elementi, come la tecnica e la datazione, possono essere scientificamente definiti, altri problemi, come l'individuazione del soggetto e la paternità artistica, restano ancora nei termini dell'ipotesi. Le affinità stilistiche e le connessioni con le fonti letterarie, secondo la tradizione del metodo combinatorio e attribuzionistico, non sono sufficienti a dissipare il sospetto che molti problemi, nell'estrema lacunosità e selettività della documentazione, manchino ancora dei dati fondamentali per la loro soluzione. Ancora più problematico è il caso della statua marmorea di Mozia, originale greco trovato in contesto punico: nonostante l'altissima qualità, non può ancora costituire un punto di riferimento per le incertezze che gravano sulla sua identità e sul suo stile. Concreto e incisivo invece il contributo che i gruppi di Sperlonga, anche se costituiti dalla documentazione indiretta delle copie, hanno offerto al riesame del Laocoonte e di un momento fondamentale della plastica ellenistica. Rispetto alla varietà dei contributi e dei problemi offerti dalla nuove scoperte, spesso occasionali, va sottolineata la maggior coerenza in un settore che può considerarsi il filone portante delle ricerche più recenti sulla scultura greca. La plastica decorativa templare, dalla sculture del tempio A di Priniàs fino ai cicli ellenistici dell'area di Pergamo e dei templi di Magnesia e Lagina, è stata oggetto delle ricerche più fruttuose. Dal preliminare lavoro di «ricostruzione testuale», soprattutto dei contesti frontonali, si è passati all'individuazione dell'intervento dei singoli maestri e a tentativi di esegesi dei contenuti storico-religiosi e ideologici, fondamentali in strutture pubbliche. In alcuni casi, come nei complessi frontonali dal Tempio di Apollo Sosiano a Roma, dei templi di Apollo a Egina e a Eretria, del Tempietto di Atena Nike ad Atene, del Tempio di Atena a Mazi in Acaia e di quello tardoclassico di Apollo a Delfi, si è giunti a concrete e attendibili proposte identificatone e ricostruttive. Il modello di queste operazioni va ravvisato nell'esemplare presentazione dei frontoni del Tempio di Atena Aphàia a Egina, noti da quasi due secoli, ma solo recentemente offerti in edizione critica. Ma anche laddove un'affermata tradizione di studi sembrava lasciare scarsi margini alle novità, singoli restauri e una revisione della sintassi compositiva hanno integrato immagini e suggerito nuovi significati. A prescindere dai discutibili tentativi di ricomposizione e ridatazione dei più antichi frontoni in pòros dell'acropoli ateniese, va sottolineata, sempre sull'acropoli, una fondamentale integrazione, al centro della Gigantomachia del frontone marmoreo dei Pisistratidi, con la quadriga frontale di Zeus, che preannuncia così il più tardo frontone orientale del Tempio di Apollo a Delfi. Ma sono soprattutto i cicli decorativi classici e tardoclassici, acroteri compresi, che, in tal senso, hanno ottenuto le più sostanziali integrazioni del testo. Meno rilevanti quelli del Tempio di Zeus a Olimpia, più carichi di conseguenze risultano quelli operati nel Partenone, sia nei due frontoni, sia e soprattutto nel settore più martoriato delle metope centrali del lato meridionale, nonché in punti chiave del fregio. Ugualmente rinnovati da aggiunte risultano, nei primi decenni del IV sec., i cicli delle metope della thòlos di Marmarià e soprattutto i frontoni del Tempio di Asclepio a Epidauro, nei quali il restauro ha conseguito il recupero di soluzioni plastiche di ardita spazialità e una notevole completezza del contesto. Minori, ma non meno significative, le puntualizzazioni sui grandi complessi di Tegea (sempre in attesa di una integrale revisione), del Mausoleo di Alicarnasso e del Tempio di Atena a Priene. Considerando anche nuove scoperte, come il largo frammento di un frontone tardoarcaico con simposio dionisiaco da Corfù, il monumento funerario di Kallithea alla periferia di Atene e le columnae caelatae del Tempio di Apollo Sminthèus nella Troade, la scultura decorativa architettonica segna ormai una fondamentale griglia di riferimento, legata com'è al contesto culturale di un centro, a una committenza spesso individuabile e all'intervento di grandi maestri.
Un altro filone di ricerche, da ricordare accanto al precedente per il comune obbiettivo di un recupero di punti fermi e per un rinnovato rigore metodologico, riguarda una serie di scoperte nei magazzini dei musei: vecchi frammenti di statue originali, spesso ricordate dalle fonti, che consentono l'identificazione sicura del tipo statuario nella tradizione copistica e la conoscenza diretta della pratica tecnica e dei caratteri stilistici del loro maestro. Si è recuperata in tal modo la Nemesi di Ramnunte, opera di Agorakritos, nuova base concreta per riesaminare la sua figura e l'entità della sua partecipazione ai programmi edilizi ateniesi. È così si è riconosciuto anche l'archetipo della c.d. Supplice Barberini, identificata ora con la Io di Deinomenes di Argo, già situata presso il Santuario di Zeus Polièus sull'acropoli ateniese. Questi casi si inseriscono con vigore documentario nel problema della critica delle copie, allineandosi con i casi nei quali è possibile il confronto tra l'archetipo e le repliche, come nelle Cariatidi dell'Eretteo, nel grande rilievo di Eleusi, nell'Atena bronzea del Pireo.
Ma il problema delle copie ha ricevuto, su più linee, sostanziali contributi che ne rinnovano l'impianto critico. Già la distinzione tra le creazioni classicistiche che rielaborano gli archetipi per nuove destinazioni ideologiche e funzionali e la più rigorosa produzione di copie definisce con maggiore chiarezza il campo di ricerca. Una più accorta valutazione della cronologia delle copie, rapportate a documenti di sicura datazione come i ritratti imperiali o i rilievi storici, incide ora più nitidamente sia sulla ricostruzione della cultura figurativa dei diversi periodi, sia nello specifico espletamento della critica delle copie stesse. Un largo spiraglio sulla tecnica della produzione copistica si è poi aperto con lo studio di un ricco deposito di calchi di gesso frammentari, recuperato a Baia in un ambiente della prima metà del I sec. d.C.: essi attestano, per la produzione occidentale, un ricco campionario di archetipi celebri del copismo romano come i Tirannicidi, la Kore tipo «Corinto», i tipi delle Amazzoni efesine, vari tipi policletei, l’Apollo del Belvedere e altri ancora. Sempre nel quadro delle tecniche va anche registrato il nuovo supporto offerto alla ricerca storica dalle scienze sussidiarie, sia per quanto riguarda una già avviata analisi dei marmi statuari sia, e ancor più, per la tecnica compositiva e fusoria dei bronzi antichi.
Il progressivo consolidarsi di una larga base di restauri filologici dei complessi originali e una più accorta e articolata critica delle copie hanno anche favorito una ripresa del problema dei «maestri» e delle «botteghe». Se l'archeologia filologica tradizionale aveva privilegiato i grandi scultori del V e IV sec., nei tempi più recenti il processo ricostruttivo delle personalità e della loro opera si è esteso al periodo arcaico e all'ellenismo. Per il periodo arcaico, riconsiderati i capisaldi cronologici, soprattutto nell'ambito della scultura attica, si è cercato di definire meglio le figure di Aristion di Paro, di Aristokles, di Phaidimos, Endoios e Antenor, in uno stretto confronto fra tradizione epigrafica e documentazione monumentale. Per il periodo ellenistico si è passati (a seguito di una più puntuale definizione dei caratteri dei singoli centri) dalle grandi partizioni in periodi, sulla base di analisi strutturali, alla ricostruzione storica dell'attività di scuole e botteghe su una base filologica più sperimentale e su un cliché di numerosi capisaldi cronologici. Un particolare risalto sembra assumere la figura di Phyromachos (v.) anche in rapporto a un'impegnativa svolta stilistica e programmatica quale quella del grande altare di Pergamo. Nella Grecia propria, un ruolo di risalto viene anche assunto da Damofonte (v.) di Messene nella prima metà del II sec. a.C., e più tardi dagli ateniesi Eubulides, Eukleides, Attalos e dalla famiglia dei Kleomenes. Ma rispetto al contributo delle singole personalità, meno appariscente in questo periodo, emergono con pregnanza storica gli interessi per alcune tematiche nuove come i ritratti dei principi e degli intellettuali, i grandi gruppi mitici e storici, le variazioni sui temi legati alla cerchia di Dioniso e di Afrodite, il realismo della scultura di genere e una nuova formulazione del rilievo funerario e votivo. Sempre nel solco della tradizione, ma con aggiornamento critico più rigoroso, è il riesame di figure dello stile severo, ancora problematiche e incerte (Onatas, Pitagora, Kaiamis) o di maestri del periodo classico e tardo-classico (Agorakritos, Euphranor, Skopas, Prassitele e Lisippo) considerati nella loro opera, ma anche sullo sfondo storico-culturale delle fonti letterarie e delle teorie artistiche del loro tempo. Ma anche qui, come nei grandi impegni pubblici della decorazione templare e nelle singole classi tipologiche (kouroi, korai, anathèmata, rilievi funerari e votivi, ritratto fisiognomico, rilievo storico, statue iconiche) si cerca di evidenziare, più che nel passato, i nessi storici con la committenza e con le istanze culturali e ideologiche dei vari periodi e dei vari centri della cultura greca.
Periodo geometrico e orientalizzante. - La storia della scultura greca iniziava tradizionalmente con la microplastica in bronzo, terracotta, avorio dell'VIII sec. a.C. Ora si può risalire almeno fino al 900 a.C. con documenti fittili come la statuetta di cervo del Ceramico e il centauro di Lefkandì. Tecnicamente legati alla produzione ceramica, essi attestano (come analoghe statuette cretesi) la lunga sopravvivenza della tradizione minoico-micenea, ma anticipano al tempo stesso l'essenzialità costruttiva del periodo tardogeometrico. Ma per avere un rinnovato apparire di forme plastiche bisogna valicare la fine del IX sec.; è infatti nell'VIII che si incontra uno straordinario sviluppo di statuette votive, per lo più appliques bronzee di tripodi di varia tipologia: figure nude maschili con attributi militari, cavalli, cervi, tori, uccelli. Ancora rari i gruppi (tra questi è recentemente riapparso il gruppo samio con una scena di lotta al leone): alcuni sono connessi col mito, altri col mondo dell'agone, della guerra, della musica, della danza. Recentemente sono stati fatti vari tentativi di attribuzione degli esemplari trovati soprattutto nei santuari panellenici a singoli centri di produzione, in base ai caratteri dei pochi provenienti da santuari locali. Sembra così profilarsi il ruolo di centri come Atene e Argo, seguiti da quelli di Corinto e Sparta. Meno definiti gli sparsi prodotti dell'Arcadia, delle coste anatoliche, della Tessaglia e della Beozia. Assai problematica resta la classificazione cronologica, modellata sugli schemi figurativi della ceramica, ma ancor più sulle tendenze evolutive interne alla struttura plastica, ancora legata alla paratassi delle singole membra nella prima metà del secolo, più organica e fluente nei piani e nei contorni nella seconda metà. La produzione fittile e quella in avorio (già aperta a influssi orientali) non contribuiscono agli stili locali, data la scarsa documentazione, quanto piuttosto a supplire, in dimensioni ridotte, alla perdita delle statue di culto in legno che gli edifici templari del Tardo Geometrico sembrano postulare. Del resto la triade apollinea di Dreros composta da sphyrèlata bronzei applicati su un'anima lignea, se è valida una loro datazione agli inizi del VII sec., sembra confermarlo, così come la tensione plastica della corazza di Argo, ancora della fine dell'VIII.
Nel periodo orientalizzante il ruolo primario di Creta si è ulteriormente precisato, così da rendere, soprattutto per la plastica del VII sec., sempre più motivato il nome di «dedalico», dallo scultore che, con felice caratterizzazione antica, per primo ha dato vita alla figura umana. Mentre larga parte della produzione bronzea recepisce tecniche e iconografie dall'Oriente o si collega a una ancora viva tradizione subminoica, la creazione di opere nel calcare dell'isola vede l'ideazione di tipi e schemi di rappresentazione che diventano normativi anche per altre regioni. A Creta inizia, nei primi decenni della seconda metà del secolo, la decorazione plastica templare con la lastra della triade divina da Gortina e con il complesso di sculture e rilievi del tempio A di Priniàs, più volte sottoposto a nuovi tentativi di ricomposizione del prospetto. Sempre a Creta inizia, con una sperimentazione espressa dalle teste primitive di Amnisos e Phylaka, la rappresentazione monumentale della figura umana. Agli esemplari già celebri della Dama di Auxerre e del torso di Eleutherna, inferiori al naturale, si aggiungono ora superbi frammenti, come la parte inferiore di una figura femminile seduta da Gortina e l'importante, anche se martoriato, torso di Astritsi. Manca solo, almeno finora, una prima formulazione del tipo del kouros, ma la figura femminile, seduta o stante, è già affermata alla metà del secolo, affiancata da notevoli esemplari fittili come il Pallàdion di Gortina. Dalla ricca stipe da cui questo proviene si evidenzia, tra l'altro, soprattutto nell'arte del rilievo, una grande varietà di tipi distribuiti nel tempo. Ma per varietà di iconografia, ricercatezza di esecuzione e coinvolgimenti ideologici si segnala il ricco deposito di lamine bronzee ritagliate, dal Santuario di Hermes a Kato Simi, anche se pertinenti più all'arte del disegno. Sulla stessa linea di impegno grafico si pone anche la serie delle stele di Priniàs con figure di guerrieri e di dame che sembrano riflettere più un quadro di valutazioni ideologiche che una realistica immagine di classi sociali. Con un lieve ritardo su Creta, la produzione di Nasso e della vicina Paro, in un'area di incrocio di stimoli e influssi dall'Oriente e dall'Egitto, si giustifica nella disponibilità di cave di marmo e si qualifica per la creazione di nuovi tipi monumentali attorno alla metà del secolo: in particolare il kouros liberato dal pilastro dorsale dei prototipi egizi e già avviato alle ricerche canoniche e alle modulazioni anatomiche che caratterizzeranno, per più di un secolo, gli sviluppi del tipo. Il contributo essenziale di Nasso, favorita da un periodo di potenza politica, si realizza anche nella redazione primitiva del tipo della kore (Nikandre) ed è confermato da alcune esportazioni dall'isola, come nelle lampade marmoree decorate da protomi. Paro sembra in ritardo, ma alla fine del secolo ha già un ruolo determinante come iniziatrice del monumento funerario figurato. Thasos che, come sua colonia, ne è dipendente, può ora esibire due rilevi orientalizzanti con una pantera e un leone, illustrati come primi documenti della scultura a rilievo nel mondo greco. Accanto a questi primati, va ricordata anche Samo nella quale sembra ormai di poter affermare, alla metà del secolo, l'avvio della tecnica a fusione cava del bronzo, recepita dall'Egitto. Ancora a Samo si è definita la prima formulazione, attorno al 630, del perirrhantèrion marmoreo sorretto da divinità femminili che, con la diffusione di redazioni bronzee, sembra aver ispirato gli esemplari di altri centri (Rodi, Sparta, Corinto).
Periodo arcaico. - Se il VII sec. ha rivelato la sua importanza per la gestazione dei tipi, il periodo arcaico sembra vedere la produzione sempre meglio articolata nei caratteri e nella cultura dei singoli centri e nell'ambito più vasto dei distretti delle Cicladi, del mondo dorico, dell'Attica e delle coste anatoliche. Un significativo contributo è offerto da singole scoperte monumentali, da monografie dedicate allo sviluppo storico dei tipi e alla ricostruzione dell'attività di centri e maestri. Anche lo studio di una semplice forma come la protome fittile, per la larga diffusione e circolazione del suo costume, tende alla definizione degli stili locali e dei rapporti tra centri diversi. Mentre Creta perde progressivamente il suo ruolo, le Cicladi e la Ionia sviluppano accenti locali e formulazioni di grande coerenza e originalità nella prima metà del VI secolo. Nasso si rivela sempre più come il centro che elabora un austero canone di rapporti assunto anche da altre scuole; per le sue esportazioni rappresenta anche una forza guida. Opere come la colossale testa di Copenaghen, la sfinge di Delfi e le ben note sculture esportate in Attica e Beozia costituiscono i pilastri di una recente ricostruzione della scuola nassia. Ma recentemente si è corretta anche la prospettiva che vedeva, a favore della vicina Paro, una sua flessione nella seconda metà del secolo. In realtà, anche sotto la tirannide di Lygdamis, la sua produzione continua con formulazioni nuove, come quella di un kouros atteggiato alla corsa. Solo con l'occupazione ateniese dell'isola (473 a.C.) tale produzione perde i caratteri di autonomia.
La ricostruzione della colossale statua di Artemide dal Dèlion di Paro, espressa ancora, forse a opera di un Arkesilas, nella tipologia della kore (490 a.C.), ha prodotto una revisione critica della scuola paria nel suo sviluppo, fino alle creazioni ormai inquadrate nello stile severo e classico. Ne è risultato il quadro (coerente di una delle scuole più definite e importanti della Grecia arcaica alla quale, dopo alterne proposte, sembra ormai attribuibile un monumento così rilevante come la decorazione plastica del Tesoro dei Sifnî a Delfi. Anche nella storia del rilievo, funerario e votivo, il ruolo dell'isola si è rivelato determinante, sia per la formazione di tipi iconografici, sia per l'incidenza stilistica. Alla colossale statua di Artemide si può ora accostare, con un'assonanza più dichiarata, la dea solenne in trono ancora del 510 a.C., mentre nella classe del rilievo si inserisce, con ricchezza di dati stilistici e di messaggi religiosi, il fregio del locale Archilòcheion. Ma la vitalità della scuola, radicata ormai nei ritrovamenti dell'isola, si conferma ancor più nelle opere a essa pertinenti per attestazione epigrafica, come la Phrasikleia scoperta a Mirrinunte e firmata da Aristion di Paro (550-540 a.C.) e nelle sculture attribuibili all'isola per affinità stilistica, rinvenute nella vicina Delo, in Attica e Beozia, e persino nella lontana Cirene.
A Thasos l'esame della plastica votiva fittile del locale Artemìsion ha illustrato le componenti culturali e stilistiche della sua scuola che dipende dalla madrepatria Paro, ma che recepisce stimoli dai centri della Ionia e dell'Egeo settentrionale. La conferma viene dai monumenti scultorei già noti e dalla recente saldatura della superba Testa Wix di Copenaghen con un corpo di sfinge recuperato a Thasos stessa. Anche Cirene, pur nel suo contesto culturale dorico, sembra confermare ulteriormente il prestigio di Paro. Al manipolo già noto di marmi arcaici importati dalle Cicladi si aggiungono ora, da un deposito occasionale dovuto forse al saccheggio persiano del 515 a.C., due korai forse della bottega di Aristion pario e una sfinge databile alla metà del secolo.
Nell'area ionica le più rilevanti novità vengono da Samo e Mileto. Mileto, con il vicino Didymàion, rappresenta la pòlis ionica più ricca di sculture arcaiche. Di varia tipologia, esse affollavano i bordi della Via Sacra per il Santuario di Apollo. Ma anche dalla pòlis sono emersi esemplari che caratterizzano le tendenze stilistiche del centro milesio che accentua ulteriormente, talvolta con incertezze o incoerenze, la morbidezza dei piani e il linearismo decorativo della scuola samia. In tal senso sono significativi un rilievo votivo alle Ninfe, una seconda edicola votiva integrata da dettagli policromi e una serie di nuovi esemplari a tutto tondo al punto che è ormai più agevole attribuire alla scuola anche prodotti rinvenuti a distanza, fin sulle coste del Mar Nero, come la sorprendente testa con la tiara da Eraclea Pontica.
Due eccezionali scoperte integrano anche il quadro particolarmente ricco ed esplorato della plastica arcaica di Samo. Di essa era già stato definito recentemente l'arco di sviluppo storico. Il rigore astratto e la straordinaria raffinatezza vengono raggiunti, in parallelo con Nasso, nell'intensità di proposte originali dei decenni anteriori alla metà del VI secolo. Particolare attenzione aveva richiamato il grande donario di Gheneleos, sfilata paratattica dei membri della famiglia compresa tra la madre Phileia in trono e il padre, che è il dedicante, sdraiato, e composta da un giovane ammantato e da tre korai, tra le quali la Philippe del museo di Samo e la Ornithe dei musei di Berlino. Al suo seguito sono stati definiti altri gruppi come quello di un kouros con vitello destinato al sacrificio e un altro con tre kouroi presso un'ara circolare. Ma questa tradizione di gruppi, con il recente ritrovamento di una kore acefala e iscritta da affiancare a quella del Louvre, dedicate entrambe da Keramyes a Hera, e quindi appaiate sulla stessa base a doppio incastro, risale ormai al primo quarto del VI secolo. Ancor più significativa è la scoperta di un kouros colossale alto 9 cubiti samî (m 4,75), giacente vicino al suo basamento quadrato di 10 cubiti di lato, lungo il bordo della Via Sacra. Sulla gamba sinistra, riapplicata, è incisa la dedica di Isches in caratteri di fine VI sec.; ma la scultura, più antica del kouros integrato con la testa di Istanbul, è databile ancora al 570 circa. Si è pensato che le sue dimensioni possano esprimere la volontà di caratterizzare l'ágalma come l'immagine eroica del capostipite del gènos del dedicante. Il problema si inquadra nella categoria del colossale che in Attica, a Thasos, Nasso e soprattutto a Samo caratterizza la fase primitiva del periodo arcaico, rispecchiando ideologie di radice aristocratica. Le due opere, a cui si aggiungono nuovi documenti di plastica lignea, confermano ulteriormente il ruolo di Samo e i suoi inconfondibili caratteri nel quadro della plastica ionica.
Lo studio di sculture di città asiatiche con la presentazione di nuovi esemplari (come il gruppo di korai da Eritre, il kouros ammantato di Pithane, i rilievi di Cizico) mostra, pur con accenti locali, una dipendenza dai grandi centri. Un particolare rilievo è stato conferito all'area eolica, in termini forse da ridimensionare.
Relativamente scarse le novità monumentali dei centri del Peloponneso. Sparta e Argo sembrano emergere soprattutto per l'impegno nella metallotecnica e nel bronzetto, Corinto nella plastica fittile. Ma per Corinto va registrato il ritrovamento di una sfinge marmorea che, pur derivando da modelli attici, si allinea ai caratteri del kouros di Tenea, così da esser ritenuta della stessa bottega se non della stessa mano. I caratteri della scuola, recentemente delineati soprattutto a partire dalle arti minori, trovano del resto i più chiari riflessi nei gruppi fittili di Olimpia, ai limiti tra il periodo arcaico e lo stile severo e, più ancora, nell'ampio frammento di frontone ad altorilievo con il banchetto di Dioniso (520 a.C.) dalla colonia di Korkyra. Per quanto riguarda la Beozia, l'edizione dei kouroi dello Ptoion (c.a 120 statue, ma i frammenti ne attestano assai di più) in piccola parte in calcare locale, ma in maggioranza nei marmi di Paro, Nasso e del Pentelico, ha posto con chiara evidenza il problema della compresenza di scuole diverse. Un nucleo a cui appartengono certamente le opere in calcare è di produzione locale e rivela, pur con aspetti rozzi e attardati, una recezione di stimoli dalle scuole di punta. Tra queste, nella prima metà del VI sec., sembra predominante una presenza nassia, mentre nella seconda metà prevalgono opere di mano ateniese e paria.
Ad Atene le scoperte di sculture arcaiche (come una testa di kouros della III Eforia, il grande frammento di kouros dalla Porta del Pireo, frammenti di stele funerarie e basi scolpite dal Ceramico) non rappresentano che raramente lo spunto per una generale revisione della scultura arcaica attica. Paradigmatica in tal senso è invece la scoperta della Phrasikleia, già occultata con un kouros stilisticamente affine alla Kore di Lione e al Kouros di Volomandra. Statue funerarie della metà del VI sec., probabilmente dalla stessa tomba familiare, mostrano, in uno stesso contesto, l'impegno e i caratteri di due maestri e di due scuole diverse. L'alta qualità dei due esemplari ha imposto una revisione dello sviluppo della scuola attica e del suo intreccio con altre scuole, con particolare riguardo al problema delle botteghe e dei maestri, sulla linea già tracciata dal Payne e dal Rumpf. Le nuove proposte sono qua e là conflittuali, ma il panorama della scultura attica, unico per la convergenza di tradizioni diverse e per le soluzioni equilibrate raggiunte, risulta più ordinato e, per la seconda metà del secolo, aggregato, almeno in parte, ai nomi di Aristion, Phaidimos, Endoios, Aristokles e Antenor. L'operazione, che ha portato anche a interessanti proposte di connessione come quella tra la base con una parata di cavalieri e il noto frammento di stele con la testa del discoforo, tra la Testa Rayet e il Kouros della porta del Pireo, tra la Testa Sabouroff e il monumento del cario Tymnes, ha anche favorito puntualizzazioni di carattere tecnico e funzionale, come, p.es., il riconoscimento della Kore di Lione come Cariatide e i rapporti dei maestri con la committenza, distinguendo i tre momenti fondamentali di Solone, della tirannide pisistratea e della democrazia clistenica. Del resto un'istanza storica nella valutazione di tutta la scultura arcaica si è ripetutamente espressa nella ricerca del significato della kore e del kouros (cifre iconografiche polivalenti per il dio, l'eroe, l'offerente, il defunto), delle tipologie singolari (cavalieri, scribi, artigiani, in rapporto a classi sociali, prima ancora che a professioni), nonché di rare raffigurazioni realistiche. Un'analoga istanza storica, dichiarata in ricerche attuali, tende a spiegare le scelte tematiche e le valenze religioso-politiche della scultura decorativa templare, anche per questo sottoposta a rigorose verifiche di restauro e di lettura filologica. L'esempio più brillante è forse quello del fregio dei Sifnî che, con attenta analisi delle iscrizioni e del contesto figurato, ha finalmente consentito l'identificazione, sul lato orientale, dello scontro tra Achille e Memnone alla presenza degli dei, concentrati sulla scena di psicostasia che ne occupava l'area centrale lacunosa; sul lato Ν le divinità e i giganti acquistano una precisa identità; sul lato O, il giudizio di Paride con le quadrighe divine è sapientemente rapportato ai vuoti degli intercolumni; sul lato S, con alcune incertezze sintattiche, era il ratto di Elena da parte di Teseo e Piritoo. I concetti della hybris punita sembrano rispondere ai dettami dell'etica apollinea del clero delfico. Anche il programma del Tesoro degli Ateniesi, sempre di discussa cronologia, nella composizione dei cicli di Teseo e di Eracle, ma con particolare enfasi conferita all'Amazzonomachia, sembra alludere, come il frontone arcaico del Tempio di Apollo Daphnephòros di Eretria, ai successi delle due città alleate nell'insurrezione ionica del 500 a.C. Uguale impegno ermeneutico è stato rivolto alla serie dei frontoni dell'acropoli. Il gruppo del c.d. Barbablu mantiene ancora, nonostante ripetute indagini, la sua insoluta problematicità. Anche per le decorazioni frontonali, la seconda metà del VI sec. segna una svolta cruciale: superati gli schemi araldici dei gruppi animali e la paratassi delle scene mitiche si passa, attraverso la Gigantomachia del frontone marmoreo e i più tardi frontoni di Delfi ed Eretria, alle straordinarie soluzioni di Egina, prima del Tempio di Apollo e poi di quello di Aphaia, il cui più evoluto frontone orientale ha fatto pensare a Onatas. D'altro canto sia sulle coste anatoliche, per la storia del fregio ionio (Cizico, Miunte, lasos), sia nell'Occidente magnogreco e siceliota, per la storia dei fregi metopali (Selinunte, Heràion alla foce del Sele), il quadro della decorazione architettonica si integra nelle sue diverse tipologie e nelle sue implicazioni tematiche e ideologiche. È infine il ricordo di due bronzi arcaici che, pur da tempo noti, hanno avuto una recente approfondita valutazione: l’Apollo del Pireo che, pur dipendendo da iconografie del 560/50 a.C., viene visto come opera tardoattica del 480 c.a e lo Zeus di Ugento, opera tarantina collocabile intorno al 530 a.C.
Periodo dello stile severo. - Per il suo valore fortemente innovativo, per l'intensità dei caratteri e per un ancor definibile aspetto dei centri di produzione, il momento ha una sua autonomia storica rispetto al successivo periodo classico, fortemente marcato da un predominio ateniese. Già nel tardo periodo arcaico si rintracciano le chiare premesse della svolta, sia nelle condizioni storico-politiche, sia negli impegni formali. Le ultime korai dell'acropoli, l’Efebo di Kritios e l’Efebo biondo, il torso di Mileto e il frontone orientale di Egina sono alcuni segni della transizione, ai quali si aggiunge ora una testa di straordinaria qualità (480 a.C.) dall'area della Porta Sacra nel Ceramico ateniese. Se l'acconciatura dei capelli è nella tradizione che risale alla fine del VI (come nell'Aristodikos che segna un primo passo verso la svolta), la struttura e i piani plastici del volto sono già «severi». Come esistono premesse tardoarcaiche, così si notano sopravvivenze e strascichi nella piena classicità, sia nei programmi decorativi (metope partenoniche, Niobidi sallustiani, frontone del Tempio di Apollo Sosiano), sia, e ancor più, nella produzione artigianale periferica. Entro queste due fasce estreme, nel breve spazio di un trentennio, sono stati dibattuti i principali problemi relativi alla produzione originale e al recupero filologico dei Maestri nella critica copistica. L'osmosi tra le due serie ha ovviamente accompagnato le ricerche e si evidenzia in certi programmi come lo studio delle peplophòroi, che succedono al tipo delle korai, sia nelle redazioni originali sia nelle copie, e così per le figure di atleti, che succedono ai kouroi, e che nella microplastica bronzea hanno ancora una forza documentaria per individuare e distinguere centri e botteghe, forse con maggiore evidenza rispetto al tentativo pionieristico del Langlotz. E così per altre classi tipologiche o categorie rappresentative che si sono arricchite di nuovi dati, come le composizioni a gruppo (soprattutto negli anathèmata dei grandi santuari) o il ritratto fisiognomico che può ora accostare al volto di Temistocle anche quello, accertato epigraficamente, di Pindaro, riconosciuto nel tipo del c.d. Pausania. L'analisi ricostruttiva dei grandi maestri del periodo, in particolare Onatas, Kalamis, Pitagora e Mirone, è stata oggetto di nuove proposte. Sembra tuttavia doveroso registrare che una critica rigorosa ha come risultato più una disgregazione che una solida conferma di vecchie ricostruzioni che sembravano ormai accreditate.
Sullo stesso gruppo dei Tirannicidi di Kritios e Nesiotes, identificato nei tipi della coppia napoletana e di una serie di repliche sottoposte a un'analisi esemplare, sono stati sollevati (a partire dai calchi di Baia) dubbi e incertezze, e quindi un invito a rivedere puntualmente la tradizione del più antico gruppo di Antenor e del più recente di Kritios, forse espressi in cifre assai simili. Sullo stesso Cronide dell’Artemìsion, ora puntualmente identificato come Zeus, la critica a un'attribuzione accomunata all’Apollo dell'Omphalòs muove da una cautela metodologica generale di fronte a troppo facili tentativi di stringere legami tra gli originali conservati (pochissimi rispetto a una straordinaria produzione) e i nomi storici degli artisti della tradizione letteraria. È un atteggiamento critico che del resto si riflette nei dibattiti, spesso imbarazzanti, sulle più grandi scoperte degli ultimi tempi, come i Bronzi di Riace e l’Efebo di Mozia. Le attribuzioni sicure restano quindi minime, a eccezione di Mirone, e l'immagine dei maestri rimane prevalentemente di' natura letteraria o traslata, nella trasparenza di certi prodotti artigianali che ne possono aver recepito l'impulso, come per Pitagora in alcuni bronzetti. Anche per il periodo severo, come per l'arcaico, sembra quindi più affidabile, per ora, la distinzione in grandi aree culturali e in centri di produzione. Paro, almeno per la scultura in marmo, sembra aver avuto un ruolo primario, anche rispetto ad Atene dove tacciono i programmi edilizi e dove è vietato il monumento funerario privato. Alla scuola di Paro, o comunque a botteghe cicladiche, sono quindi attribuiti numerosi rilievi rinvenuti in vari siti. Per la singolarità iconografica e per le implicazioni culturali va sottolineata, tra le novità, la stele di Icaria (460 a.C.), opera di Palion. Ma anche monumenti di vecchia conoscenza, come il rilievo metrologico di Oxford, trovano nella scuola una soddisfacente collocazione. Rispetto a essa presentano, nonostante i nessi reciproci, una coerente autonomia di caratteri prodotti gravitanti sulle coste anatoliche, come la stele di Nisiro o quella di un atleta da Çanakkale, recentemente studiata, così come i monumenti di Thasos e le stele della Tessaglia, della Beozia e della Focide. Argo, come Atene ed Egina, è una sede privilegiata dell'attività di quei maestri che sfuggono a una puntuale ricostruzione, ma certo sembra aver avuto un ruolo particolare nell'elaborazione del tipo delle peplophòros e nella redazione di tipi atletici.
La decorazione plastica del Tempio di Zeus a Olimpia resta sempre il momento più intenso e rappresentativo del periodo, tanto più ora che è stato sottoposto a un ultimo intervento di restauro e a una verifica tecnica per la collocazione delle singole figure nell'originario contesto descritto da Pausania, che fu oggetto di infinite discussioni e proposte soprattutto per il frontone orientale. Ma il problema dell'identificazione del grande Maestro, postulato dalla coerenza ideologica e stilistica di tutto il complesso, resta sempre uno dei più grandi misteri dell'arte greca. Non sembra infatti sufficientemente fondata la recente ipotesi di un riferimento a Sparta, e ancor troppo parziali sono i richiami a modi delle isole, come i confronti con figure di Xanthos e Paro. In un santuario dove singoli donari sono affidati ai più grandi scultori del tempo, si può almeno sospettare il coinvolgimento di uno di quei grandi maestri che ancora sfuggono ai tentativi di ricostruzione filologica. Del resto la problematicità del periodo sembra ben evidenziata dalla sorprendente novità e dalle diverse ipotesi formulate in merito ai due monumenti più importanti recentemente acquisiti alla sua storia. Il più antico dei Bronzi di Riace, o guerriero A, è infatti databile al 460 a.C., mentre il secondo, già aperto a influssi policletei, scende nell'avanzata seconda metà del secolo. La maggioranza degli studiosi ritiene, per il confronto con opere come l’Hermes e il c.d. Ares di Villa Adriana, l’Anacreonte di Copenaghen e teste di eroi eponimi attici, che l'opera vada inserita nella tradizione attica, riconoscendovi una paternità fidiaca (un eroe del donarlo ateniese a Delfi o un eponimo dal monumento dell'agorà ateniese) o mironiana. Altri confronti, come quelli assai puntuali con la testa tipo «Asclepio» degli Uffizi, spostano l'attenzione sul Peloponneso. Altri ancora hanno fatto pensare a un centro magnogreco come Locri. Certamente, nonostante le affinità iconografiche, i due guerrieri di Riace si distinguono, oltre che per la data, per i caratteri stilistici, così che è più facile pensarli uniti in vista di una nuova destinazione, più che per l'originaria provenienza. Anche l'identificazione dei soggetti resta problematica: incerta l'esegesi che li vede come atleti vittoriosi nella corsa oplitica, così come quella che li affianca come eroi eponimi in uno stesso contesto monumentale, nonostante le distinzioni di èthos che li differenziano. Una distinzione tra i due che vede nel primo un eroe mitico e nel secondo uno stratega storico sembra fondata su dati sperimentali.
Simile, o forse più complesso per la sua unicità iconografica, è il caso dell'Efebo di Mozia. Anche questo, nonostante proposte di datazione più bassa, si colloca decisamente nell'ambito dello stile severo (470 circa a.C.). La raffinata stilizzazione del panneggio non giunge al livello del fregio partenonico; tocca al massimo quello di qualche metopa, come la Ν 32, e trova assonanze con una stele frammentaria del Museo dei Conservatori o con la c.d. Penelope. Per il corpo atletico si è evidenziata una mobilità instabile e una spazialità ricavata da vedute complementari, mentre la veduta ottimale è quella di tre quarti da destra. L'identificazione del soggetto, per l'incompletezza del costume e lo sradicamento dal contesto originario è tema di varie proposte ora in chiave punica, ora (e più propriamente) in chiave ellenica, come risultato di un saccheggio che non stupisce se pensiamo al ritrovamento recente di una c.d. Penelope a Persepoli e se ricordiamo gli attestati saccheggi punici nelle città siceliote. Anche per lo stile mancano orientamenti precisi: una creazione siceliota da accostare a opere di grande tensione, come il Guerriero di Agrigento o le metope del tempio E di Selinunte, sembra possibile. Resta comunque indicativo di una situazione ancora largamente lacunosa e forse di carenze metodologiche il fatto che due monumenti, tra i più importanti recentemente scoperti, più che offrire soluzioni abbiano offerto assillanti quesiti senza risposte univoche.
Periodo classico. - Molto più che nel passato, si sono integrati per il periodo classico i due tradizionali filoni di ricerca sugli originali e sulle copie; le indagini sulle grandi opere di commissione pubblica si sono affiancate a quelle sui più semplici prodotti delle botteghe per le commissioni private, votive o funerarie. L'intensità di produzione e dei programmi di Atene, particolarmente ricca di documentazione scritta e monumentale, ha conferito alla città un ruolo di notevole risalto, come punto di incontro e di fusione di tradizioni diverse; il che ha permesso, per riflesso, una più chiara valutazione di altri centri come l'Argolide, l'Arcadia, le Cicladi, la Beozia, la Tessaglia e l'area ionica.
Tra i grandi cicli decorativi architettonici un contributo di straordinario interesse storico e artistico è dovuto alla ricostruzione del complesso frontonale dell'Amazzonomachia del Tempio di Apollo Sosiano a Roma, dove fu reimpiegato in periodo augusteo per precisa scelta ideologica. Per convergenza di vari argomenti, il complesso è databile attorno al 440 a.C. e rivela, sia sul piano dei contenuti mitici (l'Amazzonomachia di Themiskyra con la presenza di Eracle e Teseo) sia sul piano formale, contatti con l'Attica; ma sono anche presenti, forse con maggiore evidenza, aspetti formali di tradizione cicladica. Il frontone attrae nella sua orbita formale e ideologica anche i resti minori di un secondo frontone, quello dei Niobidi già esposto negli Horti Sallustiani e ora diviso tra Roma e Copenaghen. Si è ipotizzato che i due complessi per ragioni metriche, concettuali e stilistiche, possano essere stati portati a Roma dal Tempio di Apollo Daphnephòros di Eretria nella sua fase ricostruttiva classica, considerata la situazione di abbandono della città in periodo tardoellenistico, lo spoglio quasi generale della struttura templare e la presenza a Roma di un'Amazzone già pertinente al frontone della fase arcaica del tempio stesso. Una scoperta ateniese di analoga valenza, anche se fondata su materiale più esiguo, è quella della decorazione frontonale del Tempietto di Atena Nike, con una Gigantomachia a E e una probabile Amazzonomachia a O. I caratteri stilistici dei frammenti ripropongono con maggiore evidenza il ruolo coordinatore di Agorakritos per tutto il complesso decorativo nel quale il fregio e il parapetto sembrano collegarsi tra loro per i temi (vittorie ateniesi sui Persiani, sui Corinzi e sui Beoti) e per le allusioni simboliche dei trofei.
Ma tutti i cicli scultorei delle grandi iniziative periclee e post-periclee hanno registrato progressive integrazioni di restauro del testo, più mature analisi dello stile e aggiornati tentativi di lettura del loro significato politico-ideologico. Nell’Hephaistèion risulta ormai chiaramente distinta la primitiva fase delle metope che, come nel Tesoro degli Ateniesi a Delfi, accoppiano Eracle e Teseo, e la successiva fase dei fregi, che nella lunga storia edilizia del tempio, sembrano eseguiti attorno agli anni trenta. Resta sempre ipotetica invece la restituzione delle sculture frontonali. Un vivo dibattito si è aperto anche sulla decorazione del tempio ionico dell'Ilisso, con datazioni oscillanti tra le recenti proposte di un'esecuzione tarda e quelle tradizionali di una contemporaneità con le metope partenoniche. Attorno ai cicli partenonici, anche a seguito di una loro edizione filologica aggiornata, si sono intensificate le ricerche di reintegrazione dei settori più dilaniati, come il frontone E e il nucleo centrale delle metope meridionali. Nel frontone, frammenti minori come il fulmine di Zeus, la lira di Apollo e le parziali integrazioni di membra e di teste frammentarie, sono stimoli continui al riesame dei piani di imposta delle figure sui gèisa e quindi preziosi suggerimenti per il recupero di un testo tanto lacunoso, mentre il restauro, talvolta quasi completo, di alcune metope meridionali riapre su basi più concrete la discussione sui miti frapposti alla Centauromachia. Preziose anche talune integrazioni del fregio nel settore degli apobàtai settentrionali e del consesso divino: particolari che forniscono chiavi di lettura per il dibattuto problema del suo significato. Superati i tentativi di lettura mitologica e le disimpegnate prospettive di natura puramente antiquaria, l'esegesi si è concentrata sul significato della scena della consegna del peplo, sulla composizione del consesso divino e degli eroi eponimi e sulle componenti della grande processione. È comune a tutte le proposte più recenti una visione ideologica della grande pompè, ordinata secondo principi di struttura sociale e nel rispetto delle più antiche tradizioni religiose della pòlis. Il quadro di questo impegno analitico si integra col riesame dei fregi del Tempio di Posidone a Capo Sunio e del Tempio di Ares nell'agorà ateniese, dal quale è stato recentemente espunto l'interessante complesso dei frammenti ad altorilievo, ritenuti pertinenti piuttosto a un monumento dell'acropoli.
Meno chiari i tentativi di lettura dei fregi dell'Eretteo a causa della fragilità delle ipotetiche ricostruzioni di un testo sconnesso dalla particolare tecnica compositiva delle singole figure. Ancora in attesa di un'integrale revisione resta il complesso decorativo del nuovo Heràion di Argo posteriore al 423, per certi versi legato agli sviluppi della scultura attica, ma integrato nella tradizione argiva, mentre i fregi e le metope del Tempio di Apollo Epikòurios a Bassae, già connessi ad Atene per vincoli iconografici, vengono ormai convincentemente datati alla fine del V sec. e caratterizzati, nel loro linguaggio, come opera peloponnesiaca.
Se la serie dei complessi decorativi architettonici costituisce ormai una struttura portante di straordinaria importanza, non meno significative sono diventate alcune statue di culto e certi anathèmata, connessi coi nomi dei grandi maestri.
Per Fidia (v.) l’Atena Lemnia, riesaminata nella sua tradizione copistica, e la Parthènos, ripetutamente studiata con particolare riguardo ai rilievi dello scudo, costituiscono solidi punti di riferimento. Per Agorakritos (v.), con la Nemesi riconosciuta tramite il paziente recupero dei suoi numerosi frammenti, si è conseguito un inestimabile punto di riferimento nella tradizione copistica. Anche la sua base è stata ricostruita e, in parallelo col testo descrittivo di Pausania, che ne elenca le figure a rilievo, rappresenta una delle conquiste più importanti del periodo.
E così per Alkamenes (v.) viene definito, in rigorosi termini critici, il carattere conservativo e arcaizzante del suo stile, nonché il suo ruolo di creatore di statue di culto negli anni della crisi del conflitto peloponnesiaco; la sua Prokne e Itys (ora privata della testa che le era stata erroneamente attribuita) è stata vista come un messaggio allusivo in termini politici, così come l'argiva Io, opera di Deinomenes, riconosciuta nella c.d. Supplice Barberini, è l'espressione di un'alleanza, e il gruppo mironiano di Atena e Marsia è inteso in termini di politica anti-tebana.
Sono solo alcuni casi che si ricordano per evidenziare un tipo di lettura che trascende il puro dato letterale e mitico per procedere alla ricerca di più profondi significati. Anche la critica delle copie ha operato più profondamente su una tradizione già nota.
Basterà ricordare le accurate indagini filologiche sul gruppo delle Amazzoni efesine e sulle figure di Lykios, Kresilas, Kallimachos, ma soprattutto l'esemplare riesame dell'opera di Policleto recuperata, nella fondamentale distinzione critica tra le attestazioni rigorose delle opere sicure e la grande tradizione classicistica della sua fortuna. Altri problemi sono stati inseriti in una problematica storica. L'assenza del ritratto fisiognomico fino a tutto il V sec. si giustifica nella condotta isonomica della pòlis e nella tendenza al tipo ideale: anche per questo motivo si dubita che il bel ritratto bronzeo pescato nelle acque di Porticello, presso lo stretto di Messina, possa appartenere ancora al V secolo. Nella stessa tensione idealistica classica si motivano alcuni rilievi storici come i fregi del Tempietto di Atena Nìke o le immagini dei pochissimi monumenti funerari dal demòsion sèma, come il rilievo del Cavaliere Albani.
La produzione artigianale di statuette e rilievi votivi, nonché la ripresa ateniese della stele funeraria scolpita, pur non avendo avuto significative integrazioni monumentali, sono viste alla loro origine, ma soprattutto nello sviluppo del IV sec., come un primo segno della crisi dei valori politico-religiosi della pòlis con una flessione verso una religiosità di impegno privato e familiare. Ne sono prova il carattere eclettico e popolare del ricostruito monumento della fondazione dell’Asklepièion di Atene e la prima serie di stele funerarie attiche che si distanzia progressivamente dall'intensa interiorità dei monumenti cicladici (come la bella stele di Nea Nikomedia) per organizzarsi in termini e tipi socialmente più definiti.
Periodo tardoclassico. - Nei primi decenni del IV sec. si estende ancora l'onda del grande impegno decorativo architettonico che ebbe nell'Atene periclea il suo maestoso avvio. Monumenti già noti, come quello delle Nereidi a Xanthos e l’Heròon di Gölbaşı-Trysa (e con essi il sarcofago del satrapo), rivalutati nel contesto storico e stilistico in cui si radicano, scendono ora agli inizi del secolo, come esempi di un classicismo spesso segnato da accenti manieristici, in una produzione attardata di area culturale ionico-orientale. Ma a segnare l'impegno e l'accento di scuole esterne all'Attica vanno ricordati alcuni recuperi nell'ambito dei primi tre decenni del secolo. Le sculture frontonali raccolte attorno al tempio dorico di Mazi (antica Makistos) si sono organizzati in due gruppi tematici (una Gigantomachia con connessioni arcadiche a E, un'Amazzonomachia a O); lo stile discende dalle esperienze dall’Heràion di Argo e ha evidenti connessioni con la bottega che ha operato nel Tempio di Apollo Epikourios di Bassae. Altri confronti con un nucleo di sculture frontonali di Patrasso individuano quindi a Mazi una bottega ben inserita nel più largo contesto peloponnesiaco e operante nei primi decenni del secolo. Una nuova immagine dei due frontoni del Tempio di Asclepio di Epidauro, fondamentale per la connessione con la figura magistrale di Timotheos e per la salda crononologia tra il 380 e il 370 a.C., hanno offerto i recenti restauri integrativi di singole figure o gruppi, occasionati dalla scoperta di un nucleo di materiale giacente nei depositi del Museo Nazionale di Atene. Le sue scene (Ilioupèrsis a E, Amazzonomachia a O) annoverano ormai circa ventuno figure per ogni frontone e si ampliano nelle immagini degli acroteri che, con alcuni particolari delle grandi scene, introducono nella scultura greca soluzioni di ardita tridimensionalità. Timotheos, maestro coordinatore, sembra direttamente coinvolto nell'esecuzione del frontone occidentale, con una formazione che sembra radicarsi nella bottega dell’Heràion argivo, quindi in un'area di incontro di tradizione attica, peloponnesiaca e ionica. Sempre nei primi decenni del secolo si colloca la decorazione plastica della thòlos di Marmarià a Delfi con i due cicli di metope che i recenti restauri hanno integrato, concedendo una più precisa conoscenza dei temi e dello stile: Amazzonomachia e Centauromachia nelle grandi metope esterne; imprese eroiche e consessi divini in quelle interne. Con i resti acroteriali esse rivelano una marcata affinità con le sculture di Epidauro. Scendendo alla metà del secolo, anche i due più significativi complessi, la decorazione plastica del Tempio di Atena Alea a Tegea e i cicli del Mausoleo di Alicarnasso, si profilano ora con maggiore chiarezza filologica e con più attente letture stilistiche. La figura di Skopas lega in un certo senso le due iniziative, anche se Tegea sembra più matura e conclusa dopo il rientro del maestro dalla Caria, attorno agli anni quaranta. Per il Mausoleo si ricorda in particolare l'esame delle numerosissime sculture a tutto tondo finora in larga parte trascurate rispetto ai fregi sui quali si era appuntata la ricerca per individuare le mani dei varí maestri (Skopas, Timotheos, Bryaxis, Leochares) coinvolti in una collaborazione oggi in parte discussa. I frontoni di Tegea (la caccia calidonia a E, il mito di Telefo a O) ripropongono, sul modello partenonico, la celebrazione dei miti patri, ma lo stato ancora largamente frammentario delle sculture non permette di procedere oltre la constatazione della loro straordinaria novità e intensità espressiva.
Per la seconda metà del IV sec., quasi inattesa è giunta la difficile ricomposizione dei frontoni del ricostruito Tempio di Apollo a Delfi, datati intorno al 330 a.C. Opera di scultori ateniesi (Praxias e Androsthenes), essi raffigurano, a E, Apollo seduto tra Artemide e Latona nel contesto delle Muse e, a O, Dioniso stante tra le Tiadi. La qualità del lavoro, se non è dovuta alla modesta originalità degli autori, rivela già la crisi di un momento di transizione.
Più che in altri periodi sono stati ripresi, per il IV sec., i tentativi di ricostruzione dell'attività di singoli maestri. Una delle più solide linee di esplorazione lunga buona parte del periodo riguarda le figure della scuola di Policleto, in modo da seguirne gli sviluppi fino al formarsi della rivoluzionaria figura di Lisippo che chiude il periodo classico e apre, nel contempo, il periodo ellenistico.
I materiali, tranne rari casi, non sono nuovi ma ora sono vagliati attraverso un'aggiornata critica delle copie. Nuovo il tentativo di inserire la poetica dei grandi maestri nelle prospettive estetiche della filosofia a essi contemporanea: Prassitele sullo sfondo del pensiero di Platone, Lisippo in rapporto alla teoria mimetica di Aristotele. Le fonti letterarie relative agli artisti hanno acquisito quindi più spessore rispetto all'uso che ne era stato fatto dalla tradizionale archeologia filologica. Nuova appare quindi la figura di Kephisodotos, padre'di Prassitele, anche a seguito di un'indagine critica dell’Eirene e Pluto dell'agorà ateniese, la sua opera più celebre che, pur collegata al periodo classico, ne rinnova l'impianto spaziale: simbolo dell'Atene rinfrancata dopo le vittorie contro la lega peloponnesiaca nei primi decenni del secolo. La bronzea Atena del Pireo che in un primo momento gli era stata attribuita, sembra invece connessa alla figura di Euphranor, riconsiderata recentemente sulla base della statua originale dell’Apollo Patròos dell'agorà ateniese. Oltre l’Atena, databile attorno al 370 a.C. e raro caso di un originale conservato con relativa copia, allo stesso scultore è stata attribuita anche la grande Artemide bronzea del Pireo. Di Prassitele, il più rappresentativo scultore ateniese del tempo, si è proceduto finora più a una revisione della tradizione letteraria che a un riesame della sua opera e della sua incidenza nei centri dove, per varietà di commissioni, si è espletata. Più concreta e integrata la nuova immagine della straordinaria e rivoluzionaria attività di Lisippo e di alcuni allievi della sua scuola, come Chares di Lindo, autore del Colosso di Rodi. Alla revisione dei monumenti già attribuiti e a nuove proposte filologiche si è aggiunto al dibattito anche un originale bronzeo trovato nelle acque italiane dell'Adriatico, ma oggi a Malibu: un atleta che s'incorona, originale del 320 circa a.C.
Al di là dei grandi protagonisti sono state nuovamente riproposte analisi di categorie monumentali, come il ritratto, il monumento funerario e votivo. Proprio nel IV sec. il ritratto fisiognomico, col recedere di vecchie opposizioni, si conforma nel momento in cui vengono eretti monumenti onorifici a Conone e Timoteo nell'agorà e sull'acropoli di Atene (dove recentemente è stato integrato il relativo basamento). Soprattutto nella seconda metà del secolo, con Silanion, Leochares e Lisippo, il genere si articola in senso individuale e si apre alla raffigurazione di poeti, retori, atleti, uomini politici. Il rilievo votivo e soprattutto il rilievo funerario, arricchitosi di nuovi esemplari ateniesi e in particolare ramnuntini, accompagna come un indice sintomatico le evoluzioni del gusto rispecchiando, tra l'altro, l'evoluzione culturale della società. Un'attenzione particolare, nel riesame degli originali, è stata dedicata all'espansione della plastica greca in aree periferiche, come nel Vicino Oriente, dove i sarcofagi della necropoli di Sidone hanno rivelato interessanti connessioni storiche e scelte ideologiche e dove la Tribuna di Ešmun rappresenta, come per altro verso i rilievi funerari della Licia, singolari fenomeni di sincretismo stilistico che preludono all'ellenismo.
Periodo ellenistico. - Fin da quando, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del nostro secolo, si posero le basi di una storia della scultura di periodo ellenistico, due problemi fondamentali assillarono la ricerca: l'individuazione di una griglia cronologica entro cui inserire la produzione di quasi tre secoli, e la ricostruzione dell'entità e della qualità della produzione dei centri politico-culturali più eminenti, nuovi rispetto alla tradizione classica. La principale difficoltà per tale operazione era costituita, com'è noto, dalla lacuna di informazioni letterarie sull'attività artistica del periodo, dovuta alle scelte classicistiche della storiografia antica, riflesse nel noto passo di Plinio (Nat. hist., xxxiv, 52) sulla morte dell'arte tra il 296 e il 156 a.C., e quindi col rarissimo ricordo di nomi di opere e artisti, nonché dalla relativa scarsità di attestazioni di copie rigorose, quale si era avuta per il periodo classico. Il recupero dei dati fondamentali per supplire a tali lacune fu di natura prevalentemente archeologica: gli scavi di Pergamo, Alessandria, Rodi, della Grecia propria e del vasto regno dei Seleucidi hanno fornito i materiali per ricomporre la cultura figurativa dei centri di produzione. Più difficile restò invece il problema dell'ordinamento cronologico dei materiali che, nel periodo ellenistico, non rivelano quelle evidenze di sviluppo che caratterizzano l'arte arcaica e classica. Si cercò già nella prima metà del secolo di risolvere il problema con l'uso di categorie generali assunte, per analogia, dalla storia dell'arte moderna (stile semplice, barocco, rococò, neoclassico) e con l'impiego, a opera del Krahmer, di schemi strutturali e di impianto spaziale.
Le intense ricerche degli ultimi decenni, le nuove scoperte monumentali, la revisione critica di vecchie scoperte hanno contribuito decisamente a rinnovare il quadro storico tradizionale. Sintomaticamente basterà ricordare il significato rivoluzionario delle scoperte di Sperlonga, l'individuazione del ruolo di Phyromachos in un momento intenso dell'arte pergamena, il contributo sostanziale allo studio della ritrattistica dei principi e degli intellettuali, valido anche come estesa trama orientativa nei problemi cronologici, lo studio monografico delle più svariate tematiche (dalle scene di genere ai grandi gruppi mitologici e storici, dalle scene fortunate del mondo di Dioniso e di Afrodite alla più semplice produzione dei rilievi funerari e votivi) per avere il senso di una svolta innovatrice, forse più avvertibile che per i periodi precedenti. Una certa continuità nella tradizione sembra attestata, per comprensibili motivi, nella tipologia della statue di culto che tuttavia adeguano il loro conservatorismo ai modi stilistici del momento. Solo indicativamente si possono ricordare ora, al seguito di un gruppo complesso quale quello di Damophon a Lykosoura della prima metà del II sec. a.C., le contemporanee sculture acrolitiche del Santuario di Asclepio a Pheneos in Arcadia, firmate da un Attalo di Atene. In quest'ambito, per integrare la conoscenza di Damophon va anche ricordata una testa di Apollo da Messene, mentre per definire la tradizione della scultura ateniese va sottolineato un contributo puntuale sul gruppo di Euboulides, lungo la strada tra il Dìpylon e l’agorà, databile nell'avanzata seconda metà del II sec. a.C.
Fatta eccezione per lo straordinario complesso del grande Altare di Pergamo, sembrano invece subire una certa flessione, rispetto alla tradizione classica, i grandi programmi decorativi templari. Le sculture frontonali dello Hieròn di Samotracia narrano, subito dopo la metà del II sec., il mito di fondazione del santuario misterico. Poco dopo furono realizzati a Magnesia il fregio del Tempio di Artemide (130 a.C.), a Lagina il lungo fregio dell’Hekatèion (120/110 a.C.), e a Teos il fregio dionisiaco: opere che si giustificano ormai più nella tendenza retrospettiva di un momento classicista che nel filone delle innovazioni ellenistiche. In tal senso non sorprende quindi la retrodatazione della Torre dei Venti ad Atene verso la fine del II sec. a.C. e l'interessante recente scoperta di un frontone di Efeso con le storie di Polifemo, ormai al limite estremo del periodo (40-31 a.C.), mentre ai suoi inizi si colloca la fiorente e originale produzione in pietra tenera dei rilievi funerari tarantini, nuovamente esaminati, nonché la decorazione plastica dei templi di Atena a Priene e a Ilion. Un'analoga flessione di impegno si deve registrare anche per il rilievo funerario e votivo, soprattutto a confronto con la grande stagione classica della produzione attica. A eccezione del grande rilievo ateniese con uno schiavo negro che doma l'irruenza di un cavallo (forse da un monumento funerario pubblico del primo ellenismo) e del rilievo votivo di un poeta, firmato da Archelao di Priene, carico di dottrina e di cultura figurativa del medio ellenismo, la produzione non si stacca da un livello artigianale. Ma le tipologie, spesso ripetitive, diventano, con l'integrazione del dato epigrafico, uno specchio della società ellenistica e una guida, anche se modesta, per la definizione di stili locali, soprattutto nelle isole dell'Egeo e lungo le coste asiatiche.
La stessa valenza è stata evidenziata, ma qui come impegno notevolmente superiore, nelle serie di statue iconiche maschili e femminili che, anche all'esterno delle grandi capitali della produzione ellenistica, segnano i caratteri di centri come Thasos, Magnesia, Efeso, Smirne, Delo, Coo e Cirene.
Ma i caratteri precipui del periodo si esprimono in una larga serie di processi innovativi sia nelle scelte tematiche che nella varietà dell'impegno stilistico, indubbiamente più ricco nel vasto quadro del nuovo contesto politico, geografico e culturale. Forse proprio le innovazioni tematiche che si esprimono nell'elaborazione del ritratto fisiognomia) (spesso ben contrassegnato dal ruolo sociale del personaggio), nella creazione di gruppi di struttura straordinariamente complessa, pregni di messaggi storici e ideologici, nella spiccata attenzione alla realtà (anche più cruda) delle diverse componenti sociali ed etniche e, per complementarietà o contrasto, al mondo evasivo dell'idillio pastorale e delle variazioni sui temi del mondo di Dioniso e Afrodite, lasciano la traccia più evidente e originale nell'età romana, prima, e nella cultura moderna, poi. E così la varietà e autonomia di stili locali è forse il tradizionale ostacolo alla formulazione di una griglia evolutiva e cronologica che, se valida per singoli centri, non può astrattamente essere generalizzata, come tendenzialmente si è fatto. I punti fermi di questa cronologia sono ormai numerosi e si sono integrati recentemente con nuove accessioni. La trama più fitta è quella del ritratto principesco sottoposto al puntuale esame delle singole serie dei Tolemei, dei Seleucidi e degli Attalidi. Alla serie dei Tolemei si aggrega la felice analisi di allegorici gruppi di lotta tramandatici da esemplari bronzei, come il gruppo di Tolemeo III di Istanbul (246-211 a.C.) e di Tolemeo V di Atene (197 a.C.); mentre alla serie degli Attalidi si è proposto di riferire la grande statua bronzea del c.d. Principe del Museo delle Terme, identificato con Attalo II. Tra i punti fissi della cronologia della scultura ellenistica vanno registrati ormai anche significativi ritratti di filosofi, come il gruppo di Epicuro, Ermarco, Metrodoro (270 a.C.), di Crisippo (200 a.C.) e di Antistene (168-156 a.C.). L'ultimo, opera di Phyromachos per attestazione di un'iscrizione greca di Ostia recentemente scoperta, è alla base di uno straordinario recupero di questo scultore che un papiro egiziano annovera al seguito dei grandi nomi della scultura classica. Suo era l’Asclepio di Pergamo, ora ben attestato oltre che dalle monete della sua città, da una copia della testa nel museo di Siracusa che diventa tramite fondamentale per stringere rapporti con il grande fregio dell'Altare di Pergamo. A seguito del recente abbassamento della sua datazione al 166-156 a.C., l'ipotesi che nel ruolo direttivo di Phyromachos si configuri il maestro coordinatore dell'opera (e quindi il creatore del linguaggio «barocco» del grande fregio) è particolarmente suggestiva.
Con questi nuovi dati e con la ricostruzione e l'analisi dei grandi gruppi di Sperlonga, copie della prima metà del I sec. d.C. da originali bronzei del medio ellenismo, si integra ulteriormente la serie dei capisaldi, oltre che il quadro della produzione dei singoli centri e dei loro maestri più rappresentativi. Uno dei più singolari e articolati è il gruppo di Scilla, copia da un archetipo bronzeo rodio dei primi decenni del II sec. a.C., trasferito nella tarda antichità nell'ippodromo di Costantinopoli. La firma dei copisti rodi, presente nel gruppo di Sperlonga e coincidente con quello degli autori della replica del Laocoonte, ha anche provocato un ampio dibattito su questo celebre gruppo il cui archetipo bronzeo è situato nella produzione pergamena della metà del secolo. Ancora precedenti a esso di qualche decennio, e sempre in contesto pergameno, sarebbero da considerare gli originali dei gruppi con l’Accecamento di Polifemo, la variante del c.d. Pasquino e del gruppo col Ratto del Palladio. L'imponente serie di monumenti dedicati al mito di Ulisse viene connesso con la commissione, ugualmente pergamena, dell’Alexandra di Licofrone con implicazioni allegoriche di significato politico. Nell'arco di un secolo, tra i Grandi e i Piccoli Galati, la produzione pergamena ha decisamente ampliato il suo orizzonte e ha contribuito a una più nitida lettura di altri celebri gruppi rodi come il Supplizio di Dirce (158-138 a.C.), opera di Apollonio e Taurisco di Tralles. A fianco di questi grandi complessi vanno infine elencate singole opere recentemente scoperte, tra le quali emergono alcuni bronzi, come lo Schiavetto negro del museo di Bodrum, la Dama dal mare del museo di Smirne, il Satiro di Nicomedia e il Corridore di Cuma, distribuiti lungo l'arco di tutto il periodo. Vi si aggiungono monumenti ben noti, ma ora rivalutati, come il restaurato Pugilatore bronzeo del Museo delle Terme che risale ora al pieno ellenismo, o la Nike del museo di Venezia che ha ritrovato in Hierapytna la sua patria e in Damokrates di Itanos il suo autore (145 c.a a.C.). Puntualizzazioni cronologiche, scoperte di nuove opere, integrazione del quadro di singoli centri entro la storia e la cultura dei quali, più che nel passato, vanno situati i generi, le iniziative, gli sviluppi e i caratteri, non esauriscono il senso dei contributi più recenti tra i quali la lettura di motivazioni storiche sembra segnare un comune orientamento metodologico, particolarmente evidente nell'esegesi delle opere più semplici e nuove, già attribuite alla scultura di genere e ora illuminate nelle loro componenti culturali, come la Vecchia ubriaca di Monaco, la Vecchia al mercato, i pescatori, i pastori, e le caricature alessandrine.
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Periodo tardoclassico: V. V. Gräve, Der Alexandersarkophag und seine Werkstatt, Berlino 1970; Α. Η. Borbein, Die griechische Statue des. 4 Jhs. v. Chr., in Jdl, LXXXVIII, 1973, pp. 43-212; P. Moreno, Lisippo, Bari 1974; E. La Rocca, Eirene e Ploutos, in Jdl, LXXXIX, 1974, pp. 112-136; J. Borchhardt, Die Bauskulptur des Heroons von Limyra, Berlino 1976; W. Α. Ρ. Childs, Prolegomena to a Lycian Chronology. The Nereid Monument from Xanthos, in OpRom, IX, 1973, pp. 106-116; id., Prolegomena, 2. The Heroon from Trysa, in RA, 1976, pp. 281-316; A. F. Stewart, Skopas of Paros, Park Ridge (N.J.) 1977; G.B. Waywell, The Free-Standing Sculptures of the Mausoleum at Halicarnassus in the British Museum, Londra 1978; S. Hornblower, Mausolus, Oxford 1982; R. Fleischer, Der Klagefrauensarkophag aus Sidon, Tubinga 1983; T. Lygkopoulos, Untersuchungen zur Chronologie der Plastik des 4. Jhs. v. Chr. (diss.), Bonn 1983; R. A. Stucky, Tribune d'Echmoun (AntK, Suppl. 13), Basilea 1984; Β. Schmidt-Dounas, Der lykische Sarkophag aus Sidon, Tubinga 1985; U. Vedder, Untersuchungen zur plastischen Ausstattung attischer Grabanlagen des 4. Jhs., Francoforte 1985: P. Moreno, Vita e arte di Lisippo, Milano 1987; K. Moser ν. Filseck, Der Apoxyomenos des Lysipp und das Phänomen von Zeit und Raum in der Plastik des und 4. Jhs. v. Chr., Bonn 1988.
Periodo ellenistico: Β. M. Holden, The Metopes of the Temple of Athena at Ilion, Northampton (Mass.) 1964; D. Pinkwart, Das Relief des Archelaos, Kallmünz 1965; Κ. Stähler, Das Unklassische im Telephosfries, Münster 1966; J. Marcadé, Au Musée de Délos, Parigi 1969; T. Hölscher, Ideal und Wirklichkeit in den Bildnissen Alexanders des Grossen, Heidelberg 1971; L. Knörle, Der Knabe mit der Fuchsgans (diss.), Monaco 1973; G. Merker, The Hellenistic Sculpture of Rhodes, Göteborg 1973; B. Conticello, Β. Andreae, P. C. Bol, Die Skulpturen von Sperlonga (AntPl, XIV), Berlino 1974; J. C. Carter, The Sculpture of Taras, Filadelfia 1975; H. Kyrieleis, Bildnisse der Ptolemäer, Berlino 1975; E. Simon, Pergamon und Hesiod, Magonza 1975; A. Linfert, Kunstzentren hellenistischer Zeit, Wiesbaden 1976; A. Yaylalı, Der Fries des Artemisions von Magnesia an Mäander (IstMitt, Suppl. 15), Tubinga 1976; D. M. Brinkerhoff, Hellenistic Statues of Aphrodite, New York 1978; F. Coarelli, I Galli e l'Italia, Roma 1978; R. Wenning, Die Galateranatheme Attalos I, Berlino 1978; Α. Stewart, Attika, Londra 1979; Ν. Himmelmann, Über Hirten-Genre in der antiken Kunst, Opladen 1980; A. Davesne, La frise du temple d'Artémis à Magnésie du Méandre, Parigi 1982; E. Bayer, Fischerbilder in der hellenistischer Plastik, Bonn 1983; J. C. Carter, The Sculpture of the Sanctuary of Athena Polias at Priene, Londra 1983; Ν. Himmelmann, Alexandria und der Realismus in der griechischen Kunst, Tubinga 1983; Η. P. Laubscher, Fischer und Landleute, Magonza 1982; W. A. Geominy, Die Florentiner Niobiden, Bonn 1984; J. J. Pollitt, Art in Hellenistic Age, Cambridge 1986; Β. Andreae, Laokoon und die Gründung Roms, Magonza 1988; id., Fixpunkte hellenistischer Chronologie, in Beiträge zur Ikonographie und Hermeneutik. Festschrift für N. Himmelmann, Magonza 1989, pp. 239-244; Ν. Himmelmann, Herrscher und Athlet, Bonn 1989; U. Junghölter, Zur Komposition der Lagina-Friese und zur Deutung des Nordfrieses, Francoforte 1989; R. Kabus-Preisshofen, Die hellenistische Plastik der Insel Kos (AM, Suppl. 14), Berlino 1989; P. Zanker, Die Trunkene Alte, Francoforte 1989; S. Schmidt, Hellenistische Grabreliefs (diss.), Bonn 1990; B. Andreae, Laokoon und die Kunst von Pergamon, Francoforte 1991.
(L. Beschi)
Pittura (v. vol. VI, p. 208). - La conoscenza della pittura greca è mutata con la scoperta delle tombe regali di Verghina nel 1977. Il secolare processo di ricostruzione filologica degli originali attraverso testimonianze eterogenee e di diversa epoca, si è invertito: la critica è ora impegnata nell'attribuzione di opere che ci sono giunte in buone condizioni di leggibilità, ma prive di indicazioni esterne. Il dipinto con la caccia sulla facciata della sepoltura di Filippo II, e il ratto di Persefone in un'altra camera funeraria, ci hanno rivelato la mano di maestri che possono coincidere con i maggiori nomi della tradizione letteraria (v. macedonia, nikias 2°, nikomachos 1°). Il rinvenimento ha dato occasione di ripercorrere in nuova luce una serie di altri dati di scavo, recenti o meno, che costituiscono un primo corpus della pittura monumentale greca (Moreno, 1987).
Periodo di formazione. - Per le origini la storicizzazione del termine skiagraphìa (v.) ha segnato un progresso, sia nell'opportunità di distinguerne il significato a proposito della pittura nascente rispetto al tempo di Apollodoros, sia nell'identificazione di sfumature semantiche che accomunano le diverse accezioni della parola. Utilizzato da Atenagora per qualificare l'invenzione del dipingere, il vocabolo indicava letteralmente il «disegno di ombre» (v. vol. VII, p. 84, s.v. Saurias), e in tal senso sono state rilevate importanti conferme in un graffito alessandrino e in un commentario ad Aristotele.
Questa fase viene a corrispondere alle figurazioni che conosciamo nella ceramica geometrica (v. geometrica, arte), dove si allungano invadenti «ombre» di uomini e donne, cavalli e altri animali: gambe e zampe estremamente estese, corpi e teste ridotti, scarse definizioni interne. Tipica per la concezione dell'immagine come «ombra» è nei guerrieri la sovrapposizione dello scudo al busto in una sagoma indifferenziata (v. vol. IlI, figg. 1020, 1022, 1023).
Alla produzione finale del Geometrico, negli ultimi decenni dell'VIII sec. a.C., corrisponde la tecnica attribuita da Plinio ad Aridikes di Corinto e a Telephanes di Sidone, consistente nel dare corpo alla silhouette con tratteggi interni. La comparsa in questa fase di iscrizioni sui vasi (v. vol. IV, p. 227, fig. 272, s.v. Ischia) coincide con la precisazione di Plinio che si cominciò allora a iscrivere i nomi dei personaggi rappresentati. Plinio stesso suggerisce l'esempio di una pittura monumentale per un'età così alta, citando il quadro di Boularchos con scena di battaglia. Frammenti di decorazione parietale sono stati rinvenuti nel santuario dell'Istmo, pertinenti al Tempio di Posidone, del 700 a.C. circa (v. S 1970, p. 379, s.v. Isthmia).
Procedendo nella collazione della tradizione letteraria coi dati archeologici, la campitura di colori uniformi sarebbe propria del VII sec., per suggestione delle civiltà orientali (v. orientalizzante, arte). Plinio pone opportunamente Corinto all'origine del fenomeno con la personalità di Ekphantos, sicché è stato dato il nome di Pittore di Ekphantos all'autore dell'Olpe Chigi, la quale è nella ceramica protocorinzia il capolavoro dell'iniziale tecnica di coloritura descritta dallo scrittore latino (v. vol. III, tav. a colori p. 1018; vol. V, figg. 826-827; vol. VII, tav. a colori p. 138).
Età arcaica. - Per l'epoca arcaica, i pìnakes di Pitsà (v. vol. VI, figg. 219-229, tav. a colori p. 202) offrono a partire dal 525 a.C. la migliore testimonianza della pittura su legno, da confrontare non soltanto con la ceramica, ma con un'opera coeva di livello aulico, la lastra di calcare trovata a Persepoli nel Tesoro degli Achemenidi, con la rappresentazione di un mito ellenico: la contesa di Eracle e Apollo per il tripode delfico, alla presenza di Artemide (Roaf, Boardman, 1980). Alla stessa epoca risalgono gli affreschi in un edificio di Gordion, e nelle tombe di Elmali in Licia (v. S 1970, pp. 399-400, fig. 396, s.v. Kızılbel). In questo caso l'importanza va al di là del fatto di riconoscere nel retroterra asiatico l'opera di maestranze provenienti dai centri ionici della costa: l'affinità con le tombe etrusche è tale da confermare inequivocabilmente che le fasi iniziali della decorazione funeraria a Veio, Cerveteri e Tarquinia sono dovute ad artisti emigrati dall'Asia Minore.
Età dello stile severo e classico. - Per il tempo di Polygnotos, è stata l'Italia meridionale a rivelare nella pittura a grande scala ciò che si intuiva dalla ceramica. La più antica tomba affrescata di Capua, databile intorno al 480, è nota oggi solo da un disegno che testimonia due figure di giocatori di dama, affiancate da personaggi minori, in un impianto monumentale che solo alla lontana si trova echeggiato negli analoghi soggetti della ceramica (Cerchiai, 1987). Ben conservata nella sua policromia è la Tomba del Tuffatore di Posidonia (v. S 1970, pp. 574-575, fig. 677, tav. a colori p. 576, s.v. Paestum): alla luce delle scoperte nelle tombe microasiatiche, la scena di banchetto non appare soltanto il riflesso di un costume funerario tirrenico. Contenuto e stile sono ellenici, e riflettono la qualità di vita raggiunta in Magna Grecia dopo la vittoria sugli Etruschi a Cuma nel 474.
Oggetto di una nuova ricostruzione grafica sono stati i grandi murali di Polygnotos a Delfi (Stransbury-O'Donnel, 1989), di cui si è valorizzata la portata nella vicenda dei testi omerici ai quali si ispiravano (Buitron, 1992).
Un quadro di Zeusi nel suo periodo finale alla corte di Macedonia, ci viene restituito probabilmente dal mosaico di Pella con il ratto di Elena da parte di Teseo, circondato dal motivo a meandro e stelle che poteva appartenere alla cornice originale (v. vol. VII, p. 1266, fig. 1400, s.v. Zeusi).
La linea di Parrasio trova attestazioni negli argenti rinvenuti nei pressi di Duvanlij, in Bulgaria. Le immagini di Selene, sul fondo di una kylix, e delle quadrighe su una phiàle, dal tumulo in località Basova Mogila, nonché la scena dionisiaca su un kàntharos dal sepolcro di Gol jama Mogila (v. vol. III, p. 200, s.v. Dunvalij e vol. VI, p. 254, s.v. Plovdiv), sono incise con tratti che ricordano le lèkythoi vicine a Parrasio (v. vol. II, p. 311, fig. 454, s. v. Canneto, Pittore del). Tenendo conto della dipendenza del toreuta Mys dai disegni di Parrasio, documentata da Pausania (v. vol. V, p. 316, s.v. Mys), i vasi metallici si possono assumere quale eco immediata dell'arte del pittore, eseguiti dall'incisore stesso.
Le stele in calcare da Tebe, originariamente dipinte, conservano il disegno di grandi e animate figure di combattenti. Il tracciato, costituito da una serie di punti minuti, o da sottili linee continue, è condotto con la maestria che supponiamo nei massimi esponenti dell'arte pittorica. La cronologia va dalla battaglia di Delion (424 a.C.) al 380 c.a, corrispondendo al periodo di formazione della scuola ateniese, nella quale confluì il tebano Aristeides (v. vol. I, pp. 641-642, s.v. Aristeides I°), quale allievo di Euxeinidas.
All'indirizzo attico appartiene il dipinto sulla spalliera del trono di marmo rinvenuto a Verghina nel 1987 nella tomba riferita a Euridice, madre di Filippo II, morta intorno al 340 (Andronikos, 1987). La visione frontale della quadriga di Ades e Persefone dà luogo a un gioco di rispondenze e contrasti, sia compositivi che cromatici, che ci fa intendere quale fosse il modello per i più ambiziosi ceramografi della classe detta di Kerč. Tra le risorse dell'arte monumentale, non imitabili nella decorazione vascolare e pertanto sorprendenti allo stato delle nostre conoscenze, vi è il fatto che nel riquadro marmoreo i contorni sono tracciati in nero solo per alcune parti dei cavalli bianchi, mentre per le figure colorate la conclusione è affidata all'addensarsi della pennellata, tale da suggerire il giro della forma in profondità: i ciuffi delle criniere sono sfumati nell'atmosfera.
Agli anni 340-338, al limite dell'attività di Euphranor, allievo a sua volta di Aristeides, si attribuisce un più vasto dipinto su marmo nel naìskos di Hermon, figlio di Agathokles, rinvenuto nel Ceramico di Atene (Walter-Karydi, 1988). Vi appare il defunto barbato, seduto su di un klismòs. Il mantello lascia scoperto il busto e si stende sullo schienale, con un risvolto per ammorbidire l'appoggio del gomito. Accanto alla sedia è una cista per rotoli di scrittura. Lo sguardo del protagonista assorto in meditazione cade all'interno del quadro. La posizione obliqua del corpo dona profondità alla composizione, insieme a una quinta architettonica (percepibile oggi solo agli ultravioletti) che intercettava il fondo grigio azzurro. Risultano dipinti in scorcio anche i cassettoni nel breve soffitto dell'edicola. Il colore era applicato a spatola, per addizione di minute superfici graduate in modo da suggerire plasticità sotto l'effetto della luce proveniente dall'alto: arancio chiaro per l'incarnato, giallo bruno per il mobilio. Il procedimento è comparabile al «divisionismo» che è stato identificato nella descrizione di Platone sull'operare dei pittori, e sarebbe stato introdotto da Apollodoros (v. skiagraphia).
Altri pittori della scuola tebano-attica si giovano di una ricostruzione critica impensabile prima del ritrovamento degli originali. L'irreale levità di Nikomachos (v.), finora intuita attraverso le fonti e qualche modesta riproduzione, si dispiega con larghi accenti nella pittura macedone, dall'aereo cavaliere al galoppo (oggi perduto) della Tomba Kinch di Naussa, al Dioniso sulla pantera del mosaico di Pella: il dorso dell'animale rampante offre un esile appiglio al dio che pure vi si abbandona, e la coda della fiera si compone astrattamente col nastro del tirso. Plutarco (Timol., 36) osservava: «nei dipinti di Nikomachos, come nei versi di Omero, con tutta la loro potenza e grazia, c'è che sembrano eseguiti senza fatica, facilmente». La perdita di peso e di sforzo, che è la novità delle sue figure, trova continue allusioni negl'innumerevoli esseri volanti della ceramica e della decorazione parietale, e in ogni tentativo di rappresentare il fantastico per analogia naturalistica.
Antesignano di questa tendenza, e probabile originale delle sue mani, ci si presenta l'affresco della Tomba di Persefone a Verghina. Al di là delle acquisizioni per la personalità del pittore, l'opera incardina l'artista nella sua posizione di maestro rispetto a Philoxenos, dando ragione alla testimonianza di Plinio. Lo schema del gruppo dominante nell'affresco ha una precisa rispondenza col dettaglio di Dario e l'auriga nel Mosaico della Battaglia di Alessandro, che si ritiene derivato da Philoxenos (v. vol. VI, pp. 127-132, fig. 141, s.v.). Osserviamo nell'affresco il contorno delle due figure sul carro: il braccio destro allungato di Hades, la testa di tre quarti, l'arco della spalla sinistra e quindi il braccio destro della fanciulla che le nasconde per metà il volto. Nel mosaico di Alessandro la sequenza si ripete esattamente: il braccio proteso di Dario, il viso di scorcio, il giro della spalla, il braccio destro sollevato dell'auriga che ne ha il volto parzialmente coperto. Infine lo scettro di Hades ha l'andamento obliquo della lancia che spunta dal fondo in corrispondenza della mano destra di Dario. L'identità compositiva è tanto più sorprendente nella diversità dei soggetti, da una parte il rapimento d'amore, dall'altra la battaglia. Inoltre il carro di Hades va verso la sinistra dello spettatore, quello di Dario a destra. Nel gruppo mitologico è il corpo di Persefone che viene a trovarsi davanti a quello di Hades, nella scena storica è il re che sta davanti al cocchiere.
Non si può dunque parlare materialmente d'imitazione da parte dell'autore della battaglia. Tocchiamo per la prima volta nella pittura monumentale l'unità di una bottega, dove si disponeva di certi «cartoni» (v. vol. VII, pp. 96-107, s.v. Schemata), e se ne sperimentava l'efficacia in contesti disparati. Plinio (Nat. hist., XXXV, 110) collegava direttamente a Nikomachos la tecnica di Philoxenos: «questi, seguendo la celerità del precettore, trovò certe scorciatoie della pittura ancora più brevi». Il frescante di Verghina è di meravigliosa disinvoltura, e le compendiariae che accomunavano i due artisti potevano essere queste silhouettes interscambiabili, con le quali si montava rapidamente una composizione.
Oltre alle testimonianze utilizzate per ricostruire l'arte di Zeusi e di Nikomachos, i quadri riprodotti allo scorcio del IV sec. a.C. nei loro colori e con le proprie cornici nei mosaici pavimentali delle case di Pella, offrono l'occasione di concretare il giudizio sulla scuola di Sicione (v. vol. V, pp. 211-212, tav. a colori p. 210, s.v. Mosaico·, vol. VI, pp. 18-20, figg. 16-18, s.v. Pella). La Caccia al cervo, inquadrata da girali di acanto che partecipano della geometria sottesa alla scena, risale a Melanthios (v.), la cui capacità compositiva (dispositio) era considerata insuperabile dal condiscepolo Apelle. La cornice va attribuita a Pausias in concomitanza con un epigramma ellenistico che parla del «pittore dei fiori» come del collaboratore per una tavola di Apelle. La possibilità che il patrimonio floreale diffuso nella decorazione architettonica, nei mosaici di ciottoli (presenti anche a Sicione), e nella ceramica apula risalga sostanzialmente alle invenzioni di Pausias (Robertson), trova continue conferme: di pari passo, l'introduzione dell'encausto avrebbe un corrispettivo nella brillantezza delle sovradipinture nei vasi detti delle Pendici occidentali e di Gnathia (v. vol. v, pp. 997-998, s.v. Pausias). Apelle gode di una concreta rete di attribuzioni, ricavate da copie e riecheggiamenti, che interessano, tra le prime opere per lui attestate dalle fonti, l’Hercules aversus (v. vol. III, fig. 496) e l’Alessandro come Zeus (v. vol. III, fig. 1135).
Età ellenistica. - Contributi tecnici, iconografici e critici sulla pittura ellenistica accrescono la nostra consapevolezza che le ricerche di spazio, di colore e di luce condensano in questo periodo esperienze comparabili agli esiti dei secoli moderni, dal barocco al neoclassico e all'impressionismo.
Nella produzione di Apelle (ν.) successiva alla scomparsa di Alessandro, si collocano la Charis, la Calunnia e altre allegorie, a proposito delle quali si sono valorizzate testimonianze mal note, accanto a nuove scoperte.
In Macedonia tra i primi monumenti della generazione dei diadochi è la c.d. Tomba del Principe a Verghina, riferibile al figlio di Alessandro e Rossane, che ebbe formalmente il titolo regale come Alessandro IV dal 323 al 310, quando Cassandra lo fece uccidere. L'anticamera della ricca sepoltura era ornata da una fascia continua con una vivida corsa di bighe. Il fondo irregolare del terreno e la varia disposizione dei carri, dei cavalli e degli aurighi, mostrano l'evoluzione rispetto alla simmetrica quadriga dipinta sulla spalliera del trono nella presunta tomba della madre di Filippo: gli animali sono ora suggeriti con rapidi scorci, tratteggi, e qualche ombra nei contorni, come presto si vedrà nella pittura funeraria di Kazanlăk, che comprende anch'essa una gara di bighe (v. vol. IV, fig. 400). Il regno di Macedonia continua ad attrarre artisti di varia provenienza, come mostrano le commissioni a Philoxenos di Eretria (v. vol. VI, p. 127, s.v. Philoxenos) da parte di Cassandro (305-297), e a Theon di Samo (ν. vol. VII, p. 817, s.v. Theon 2°) per iniziativa di Demetrio Poliorcete (294-288). Al tempo di Cassandro si data la Tomba del Giudizio (o Tomba Petzas) con facciata a due piani, scoperta a Lefkadià, nell'ambito dell'antica Mieza (v. S 1970, p. 452, figg. 442, 443, s.v. Macedonia): il significato allegorico dell'insieme, come entrata all'Ade, è apparso più intenso dopo la constatazione che la struttura architettonica rimanda a quella delle porte di città (Bacchielli, 1985). La maniera tenuta nella decorazione della facciata rivela criteri che diremmo moderni, dettati dalle esigenze intrinseche della pittura: non si procede più «applicando a ciascuna parte il colore che conviene» come voleva Platone. L'effetto si fonda sul rapporto di vicinanza di tinte che possono essere estranee al colore locale. Con una matura tecnica divisionistica, corpi e panneggi nascono dalla giustapposizione di minute pennellate di colori diversi, non mescolati, che si fondono soltanto nella sensazione del riguardante, con la visione a distanza. Si tratta della maniera diffusa da un maestro attivo alla corte di Macedonia, cui si deve l'originale del ciclo allegorico e dinastico di grande valore evocativo, riprodotto nella Villa di Boscoreale (v. vol. II, pp. 141-144, tav. a colori p. 144; vol. V, fig. 572). La metafora domina anche la fronte della Tomba II del Tumulo Bella, riferibile agli anni di Demetrio Poliorcete. Il morto appare sopra la porta di accesso alla camera funeraria, in guisa di Alessandro con la lancia, tra un Ares seduto che riecheggia il tipo «Ludovisi» e la personificazione di Aretè che porge una corona. La figura femminile ha la statura allungata che sarà ulteriormente enfatizzata da un pittore di estrazione macedone nell'ipogeo trace di Kazanläk, dove avviene il passaggio dai motivi mitici ed eroici al realismo del banchetto inquadrato da episodi minori (v. vol. IV, figg. 398-400).
Attorno al 250 a.C. si data la sepoltura esplorata nel 1971 a Naussa, che presenta una coppia di coniugi nel frontone e nell'ambiente d'ingresso il capolavoro del floreale antico, con racemi di preziosa varietà cromatica su fondo azzurro cielo. Più recente, tra le tombe monumentali di Mieza, quella identificata fin dal 1942 a Lefkadià: l'iscrizione ricorda i due fratelli Lyson e Kallikles, ufficiali dell'armata macedone, caduti forse nella battaglia di Cinoscefale (197 a.C.): corazze, scudi, elmi piumati e spade dai colori sgargianti paiono poggiati o appesi con mirabile effetto illusionistico. La struttura decorativa interna della camera funeraria coperta a volta, riproduce idealmente un luminoso padiglione, con elementi che ritroveremo nel secondo stile della pittura parietale romana. Della Macedonia era nativo Herakleides (ν.vol. Ill, ρ. 1150, s.v. Herakleides 6°), trasferitosi ad Atene dopo la caduta di Perseo nel 168.
Ad Atene le ricerche luministiche si affermano con Hippys (v. vol. IV, p. 40), autore del dipinto con le nozze di Piritoo, in un interno carico di drappi e ori, illuminato da un lampadario fiammeggiante. La pittura di storia trova in lui accenti allegorici nella celebrazione di una vittoria navale (forse di Demetrio Poliorcete) attraverso le immagini di Posidone e di Nike. Una gloria militare è ancora esaltata da Olbiades che rappresenta lo stratego Kallippos, condottiero degli Ateniesi contro i Galati nel 279. Ma nella perdita dell'indipendenza politica la pittura si orienta verso le memorie civili. Kratinos decora con le figure dei commediografi l'interno del Pompèion: vi si conserva l'iscrizione con il nome di Menandro, forse riprodotto dall'affresco pompeiano nella Casa che prende nome dal poeta. Di Kratinos fu figlia e allieva Eirene, autrice a Eleusi di una Kore, indicativa del crescente interesse per i culti misterici, rispetto alle divinità poliadi. Nel 168 il filosofo e pittore Metrodoros fu invitato da Emilio Paolo a Roma, dove contribuì alla formazione del circolo aristocratico degli atticisti. Viceversa il realismo, precocemente impostato ad Atene da Pauson, si allinea al gusto corrente con le scene di bottega dipinte da Peiraikos. La fase neoclassica è ben rappresentata da Alexandros, che firma come copista il pìnax in marmo da Ercolano con le Giocatrici di astragali (v. vol. I, p. 248, fig. 362, s.v. Alexandros di Atene): le nuove osservazioni, condotte con l'ausilio dei raggi ultravioletti (von Graeve), confermano per tale pittura la dipendenza da opere di Zeusi. Non si trattajdi un monocromo o di una sanguigna, ma la gamma dei colori è contenuta nei quattro della tradizione classica (bianco, giallo, rosso, nero) con le relative mescolanze (bruno, rosa). Anche gli altri dipinti su marmo da Ercolano e da Pompei potrebbero essere di produzione attica: per la Centauromachia (v. vol. III, tav. a colori p. 140, s.v. Disegno), e l’Apobate si propone una realizzazione eclettica, mentre per la Scena di tragedia, la Niobe e il Sileno stanco, i modelli sarebbero tardo-ellenistici.
A Sicione, Timanthes il Giovane (v. vol. VII, p. 856, s.v. Timanthes 2°) dipinse con grande vigore la vittoria di Arato a Pellene sugli Etoli; Leontiskos (v. vol. IV, p. 570, s.v. Leontiskos 2°) rappresentò lo stratego accanto a un trofeo. Nealkes (v. vol. V, p. 384, s.v.), autore di quadri mitologici e di genere, nell'ambito dei rapporti di Arato coi Tolemei ebbe a rievocare la battaglia tra Dario II Ochos e gli Egiziani, avvenuta un secolo prima. Come suoi discepoli sono ricordati la figlia Anaxandra ed Erigonos, che fu a sua volta maestro di Pasias.
A Pergamo conosciamo all'inizio un artista di formazione sicionia, Pytheas, nativo di Bura in Arcadia, che dipinse un elefante, echeggiato nell'affresco della Casa del Sacello Iliaco a Pompei, presumibilmente in relazione alla c.d. battaglia degli elefanti vinta da Antioco I di Siria contro i Galati, intorno al 275. Con le guerre intraprese direttamente dai Pergameni nel 238 si collega la notizia di Pausania sulla pittura che celebrava a Pergamo una Galatomachia, dovuta ad artisti di origine asiana come Milon di Soloi. Per confronto con la plastica pergamena, allo scorcio del III sec. si può datare il modello del Dioniso che scopre Arianna nella Casa del Citarista a Pompei, con ampi spazi e gradazione dei toni nell'atmosfera. Il gusto neoclassico si afferma intorno al 140 nell'episodio dei pittori Asclepiades, Gaudotos e Kalas inviati a Delfi da Attalo II per ricopiarvi originali celebri. Dopo la fine del regno degli Attalidi (133 a.C.) venne in Italia la pittrice Iaia di Cizico.
Alla corte di Seleuco in Antiochia, attorno al 290, lavorava Artemon (v. vol, I, p. 697, s.v. Artemon 3°), i cui dipinti con storie di Eracle furono trasferiti a Roma nel Portico di Ottavia, e di qui avrebbero ispirato la decorazione della Casa di Ottavio Quartione a Pompei, dominata da un chiaroscuro intenso, con ricco impasto di colori e macchie di luce. Allo stesso ambiente si riferiscono i quadri con storie di Dioniso ed Eracle dalla Casa di Marco Lucrezio, di una travolgente esuberanza.
A Rodi la lezione veristica di Protogenes si sviluppò nel senso di una diretta adesione alla realtà sociale con Philiskos (v. vol. VI, pp. 123-124, s.v. Philiskos 3°) che dipinse all'interno dell'atelier un garzone in atto di soffiare sul fuoco, e con Simos (v. vol. VII, p. 316, s.v. Simos 1°) che rappresentò la bottega di un tintore. Ai grandi gruppi rodi con avventure di Odisseo, ambientate dagli scultori in grotte o su specchi d'acqua, corrispondevano nella pittura i cicli dell’Odissea dove gli episodi sono occasione di grandiosi paesaggi. Ne rimane esempio nella copia ad affresco da una casa dell'Esquilino, dove si succedevano: Polifemo (perduto), Lestrigoni, Circe, Inferi, Sirene (incompleto), Scilla (perduto).
In generale alle ricerche asiane e insulari del II sec. a.C. si riferisce il cangiantismo espresso nelle scene teatrali, note da copie a mosaico firmate da Dioskourides di Samo, al Museo Nazionale di Napoli: l'artificio serve in questo caso a indicare la trasparenza delle vesti di seta, diffiise dalle manifatture di Coo.
Ad Alessandria la personalità di Antiphilos è diventata quella meglio conosciuta della pittura ellenistica. Quasi tutti i soggetti del suo catalogo sono stati illustrati negli ultimi decenni da nuove osservazioni o ritrovamenti (v. anthiphilos 2°): sulla strada aperta da Apelle, egli procede dall'armonia cromatica alla pittura tonale. Dall'elaborazione dello splendor viene l'effetto del fuoco come fonte di luce in un ambiente chiuso. Riferimenti per un realismo che punta al trompe-l'oeil si rintracciano nei vasi di Hadra con riproduzioni di collane, calzature e altri oggetti in policromia su fondo chiaro; la caricatura praticata da Apelle viene spinta alla creazione di un genere satirico, i grylloi. Si accresce il divario sociale tra l'artista di successo e l'artigiano. Conosciamo dai papiri la modesta situazione economica di Theophilos (v. vol. VII, p. 818, s.v. Theophilos 1°), pittore venuto da Alessandria, per decorare una casa a Philadelphia, nell'oasi del Fayyum, alla metà del III sec. a.C.: si trattava di un sistema architettonico a finti marmi quale il c.d. primo stile pompeiano. Nel II sec. Dionysios di Alessandria, detto Trace (v. vol. III, p. 120, s.v.), alternò all'attività di grammatico quella di pittore, lasciando un ritratto del filologo Aristarco unito alla personificazione della Tragedia, esempio di erudita allegoria. Il paesaggio fu coltivato da Demetrios detto topogràphos (v. vol. III, p. 70, s.v. Demetrios 6°) alla corte di Tolemeo VI, poi a Roma, intorno al 165, dove conservò tanto prestigio da poter ospitare il proprio sovrano in esilio. Del suo tempo è la veduta del Nilo a volo d'uccello, riprodotta nel mosaico di Palestrina. Ad Alessandria, dove nacquero per influenza dell'antica iconografia funeraria egizia, risalgono in generale i fiabeschi specchi d'acqua popolati da anatre, cicogne, ippopotami, coccodrilli e serpenti, tra canne, palmizi e fiori di loto: il più antico esempio in ambiente romano, è la copia a mosaico dalla Casa del Fauno. Come estrema reazione alla corrente neoattica sarebbe nata ad Alessandria la maniera a macchia, che conosciamo nella pittura parietale romana da numerosi esempi, tra i quali il fregio giallo della Casa di Livia sul Palatino, ambientato sul Nilo, e un notturno a Pompei con scena di culto a Iside, suggestivo au plein air.
In Magna Grecia la scoperta di decorazioni funerarie a Monte Sannace conferma fin dallo scorcio del IV sec. a.C. che i modi della ceramica apula corrispondono localmente alla pratica monumentale (Ciancio, 1986): nuove testimonianze a Nola (De Caro, 1983-84) e a Paestum (Greco Pontrandolfo, Rouveret, 1983, 1985, 1992), insieme all'approfondimento delle indagini sul frammento di pittura storica dall'Esquilino (La Rocca, 1985) e sulla Tomba François di Vulci (Coarelli, 1983; Buranelli, 1987), mostrano la coerenza e insieme l'ampiezza di diffusione del sistema decorativo tarantino. La classe di ceramica policroma con scene di combattimento, recentemente identificata ad Arpi (Mazzei, 1987), rinforza le analogie del Sarcofago delle Amazzoni (vol. I, tav. a colori p. 302) col mondo apulo.
Per quel che riguarda la pittura parietale domestica, le conoscenze si allargano dall'Italia a tutto il bacino del Mediterraneo orientale. La critica tende a rileggere le testimonianze letterarie e archeologiche di età ellenistica in senso antropologico: piuttosto che cercare nella pittura i riflessi e le corrispondenze con la storia economica e sociale, si accoglie la documentazione pittorica come facente parte del fenomeno stesso. Ciò grazie alla stretta interazione della decorazione degli interni con il vissuto delle diverse generazioni: un sistema che si rivela dotato di propria autonomia e specificità di evoluzione, pur con qualche tangenza nella pittura funeraria. Precedenti o contemporanei ai più antichi dipinti delle città vesuviane e di Roma stessa, sono quelli trovati nella case di Pella, di Priene, di Rodi, e soprattutto di Delo (Bezerra de Meneses, 1985) dove conosciamo una quindicina di fregi figurati: altri affreschi di carattere religioso e liturgico, eseguiti all'esterno delle abitazioni, completano il panorama dell'isola nel secolo della sua fioritura come porto franco degli Ateniesi (166-69 a.C.). Il passaggio al c.d. secondo stile, che in Italia si verifica alla fine del II sec. a.C., sembra essere avvenuto a Delo sotto la suggestione della committenza romana, che pretendeva di trasferire nell'abitazione privata i programmi figurativi che qualificavano gli edifici e gli spazi pubblici (Baldassarre, 1985). Nelle ville si avverte addirittura la tendenza all'adeguamento con l'aspetto dei santuari (Coarelli).
Nel corso del III sec. a.C. la vicenda della pittura investe a pieno titolo il mosaico (v.) con la trasformazione della tecnica a ciottoli in quella del tessellato. Si tratta di un raffinamento che mira a effetti di continuità della tessitura cromatica, analoghi a quelli della pittura. L'apparizione del più raffinato procedimento accanto alla primitiva tecnica, e non in rigida sequenza, conferma che l'innovazione affonda le radici nell'ampio contesto della pittura ornamentale. Se l'acciottolato è su una linea evolutiva che parte dalla pavimentazione di aree scoperte, quale si praticava fin dall'età minoica, il tessellato rappresenta una diretta ed esplicita imitazione della pittura in materiale durevole. Fin dalle origini gli autori dei tessellati si orientano per un sistema centralizzato, con bande d'inquadramento intorno a spazi mediani che possono accogliere una composizione figurata. Le fasce decorative tendono a riprodurre il repertorio architettonico: meandri, ovuli, dentelli, con il gusto per la resa illusionistica del rilievo. Si dà il caso che questi motivi fittiziamente plastici rappresentino l'unico ornamento di un pavimento, come a Cirene nella c.d. Casa del Meandro prospettico, o in un'abitazione di Morgantina. Se il mosaico di ciottoli applicava al pavimento motivi di varia provenienza, il tessellato nasce per trasferire sistematicamente al suolo le decorazioni dei soffitti, con i loro stucchi plastici e i cassettoni dipinti introdotti da Pausias, in un processo d'ideale rispecchiamento che non abbandonerà l'arte decorativa per tutta l'età imperiale.
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(P. Moreno)
Arti Minori . - Nel campo delle arti figurative il termine «arti minori» viene usato in modo poco preciso dagli studiosi, e si riferisce alla produzione artigianale in opposizione alle opere di architettura, scultura e pittura. Per comprendere la formazione e l'uso di tale concetto è necessario considerare il contesto storico in cui esso si sviluppò, il XIX sec. borghese e industriale. Invece nella lingua e nella coscienza greca il concetto medesimo non esisteva affatto.
Benché sia possibile rintracciare il termine arti minori già in L. Cicognara («oggetti minori dell'arte», 1814), tuttavia i concetti più fortemente valorizzanti di arte decorativa, applicata e industriale appaiono a partire dalle Esposizioni Mondiali di Londra e Parigi nel 1851 e nel 1867. Una prima formulazione teorica va attribuita a G. Semper (1860-63, logica formale sottesa a funzione e materiale), a W. Morris (1878, l'artigianato nel suo valore sociale) e ad A. Riegl (1901, il legame fra le arti minori e un Kunstwollen storicamente mutevole). Nel XX sec. l'unità creativa tra artigianato e arte figurativa fu il manifesto di W. Gropius e del Bauhaus.
Mentre gli studiosi da sempre discutono sul valore decorativo dell'artigianato romano, le arti minori greche sono generalmente considerate come arte aulica. A partire dal XX sec. un approccio onnicomprensivo delle arti minori greche, nello spirito idealista o positivista, si sostituisce però alla storia dei vari generi.
Nei concetti di arte decorativa, arte applicata e arte industriale viene messo in evidenza l'aspetto accessorio della decorazione degli oggetti di uso comune. Essi comprendono tuttavia anche decorazioni di grandi dimensioni, come nel caso di pareti o pavimenti. Alle arti minori invece si ascrivono anche opere indipendenti, come statuette di bronzo e terrecotte.
Consideriamo il campo delle arti minori delimitato da due tipi di materiali: da un lato le classi monumentali dell'architettura e della sua decorazione, della scultura e della pittura, le quali si distinguono attraverso le dimensioni e la loro mobilità; dall'altro l’instrumentum, domesticum, benché nella sua forma sia soggetto anche a sollecitazioni di tipo storico (ceramica di uso comune). Nel concetto greco invece questo appartiene alla θαναυσική ασχολία, essendo la χάρις esclusivamente relativa all'ambito della σχολή. La dicotomia fondamentale quindi non è quella tra l'oggetto di uso comune e quello impiegato in funzione decorativa e rituale.
L'artigianato greco, a differenza di quello orientale, non era caratterizzato da prodotti di lusso, che rispondono alla domanda di una élite sociale gerarchizzata, al cui vertice sta il monarca. Esso era, invece, determinato da un sistema politico decentralizzato e di conseguenza era sempre in fieri.
La vicinanza con la rigogliosa arte orientale, in una prima fase formalmente anche più sviluppata, portò i Greci a recepirne le tecniche e i motivi figurativi. Gli artigiani greci si appropriarono di procedimenti e forme decorative in modo autonomo (p.es. nella lavorazione del metallo e nella glittica) e, a differenza degli Etruschi, svilupparono un proprio linguaggio figurativo omogeneo.
Poiché la Grecia era un paese povero di materie prime, per la lavorazione artigianale furono utilizzati in grande abbondanza solamente materiali poveri, come l'argilla e il legno, mentre erano rari quelli più pregiati, il cui impiego, secondo un'antica tradizione, rendeva di per sé l'oggetto un bene di lusso. Poche erano infatti le località da cui si estraevano metalli nobili (oro a Thasos e a Siphnos, argento dal Laurion e rame in Eubea); del resto anche i metalli non pregiati e le pietre dure scarseggiavano e dovevano perciò essere importati. Dal momento che la struttura della società greca non permetteva la tesaurizzazione da parte di un unico signore e l'ostentazione pubblica di oggetti preziosi nell'antica città-stato era problematica, l'arte della lavorazione di oggetti preziosi si esprimeva principalmente attraverso dediche votive della comunità in luoghi pubblici (thesauròi a Olimpia e a Delfi) oppure attraverso le ricche donazioni di dinasti della Lidia.
La committenza pubblica svolse un ruolo secondario in Grecia nelle arti minori, fino all'ellenismo. Oltre alle monete, che in questa sede non verranno trattate in modo approfondito, e soprattutto ai trofei pubblici per le vittorie (tripodi ateniesi delle gare coregiche, anfore panatenaiche, v. vol V, p. 927, s.v. Panatenaiche, anfore) si possono ricordare i campioni per le unità di misura (M. Lang, 1964; A. B. Kaeser, 1987) e le Nìkai dorate considerate tesoro di stato nell'Atene classica (D. Burr Thompson, 1944). Come nel caso dei templi pubblici, anche per queste opere era consentito soltanto l'uso di forme tradizionali secondo schemi codificati. L'aspetto più importante invece era la fine lavorazione e la ricca decorazione figurativa dei manufatti di uso quotidiano che costituivano soprattutto un mezzo di autorappresentazione pubblica.
Il periodo geometrico. - La produzione del periodo geometrico era completamente dominata dalle arti minori. Mentre la gran parte degli utensili veniva realizzata nell'ambito dell'οίκoίς in un'economia di sussistenza, nel IX e VIII sec. si diffusero rapidamente opifici sempre più specializzati nella lavorazione della ceramica e del bronzo. Anche prestigiosi doni votivi (tripodi) e monumenti sepolcrali (anfore monumentali) hanno la forma di oggetti di uso comune, rispetto ai quali sono solo di dimensioni maggiori, per dimostrare il loro diverso valore. All'interno di questa società, dove era rilevante lo scambio di doni, ricoprivano un ruolo significativo gli oggetti di lusso orientali (Hom., II., XI, 19-21; XXIII, 741-747) che non avevano ancora influenzato i prodotti greci.
La situazione mutò alla fine dell'VIII sec., con la colonizzazione greca, che portò a un più stretto contatto fra il mondo greco e i beni di fattura orientale. Le statuette d'avorio del Dìpylon offrono una testimonianza della maggiore assimilazione delle forme e delle tecniche orientali.
Nel frattempo si erano sviluppate tradizioni artigianali, p.es. nella glittica e nella bronzisiica, che non persero mai la coerenza formale neppure nell'elaborazione di iconografie orientali, tipica del VII secolo. In particolare venne raggiunto nella piccola bronzistica e nella decorazione ornamentale geometrica uno stile tale da esprimere il pensiero dell'epoca. Caratteristica in questo periodo è la suddivisione in zone della superficie da decorare, tendenza che sarà superata soltanto in epoca arcaica.
Periodo orientalizzante. - Probabilmente in seguito alla colonizzazione greca, che portò a una maggiore mobilità sociale e all'apertura di nuove vie commerciali, aumentò la richiesta di oggetti di lusso e al tempo stesso si sviluppò un nuovo interesse per i prodotti orientali. Centri di questo sviluppo furono Creta e il Peloponneso. Nell'ambito della cultura del simposio vennero adottate forme di vasi (calderoni con testa di grifo) e di mobilio (klìnai), e verso la fine del secolo anche forme di specchi su sostegno e da toilette. Si sviluppò un linguaggio formale per molti versi ipertrofico, con un'esuberante tendenza alla narrazione. La severa sintassi ornamentale dell'arte geometrica nella decorazione dei vasi e degli abiti, nonché nelle caratteristiche armi da parata, venne sostituita da fregi animalistici, dovuti al tipico horror vacui del tempo, e da scene narrative. L'introduzione di nuove tecniche, come l'arte dell'intaglio di materiali lapidei più teneri, l'intaglio dell'avorio, la tecnica delle matrici per la lavorazione della terracotta (pìthoi a rilievo, terrecotte dedaliche), e la tecnica graffita nella pittura vascolare arricchirono la varietà formale dell'epoca. Nella fase dedalica la piccola plastica raggiunge un elevato grado di autonomia e di compiutezza.
L'assimilazione di forme orientali si basò essenzialmente sulla diretta conoscenza di opere d'arte minore importate: infatti non è stato praticamente possibile dimostrare la presenza di artigiani provenienti dall'Oriente (a eccezione di Creta, cfr. J. Boardman, 1970). La recezione delle forme orientali per calderoni a protome di grifo, che sostituirono i grandi tripodi come dono votivo, ma anche la reinterpretazione mitologica di esseri fantastici orientali dimostrano invece che l'elaborazione delle forme all'inizio del VII sec. fu caratterizzata in gran parte da errate, ma artisticamente fruttuose, interpretazioni da parte di artigiani greci.
Periodo arcaico. - Anche in epoca arcaica fu determinante, per la maggior parte della produzione artigianale, la committenza aristocratica. Non è possibile rilevare in quale misura le offerte votive delle comunità nei santuari panellenici (thesauròi di Olimpia e Delfi) servirono a fornire un modello in questo sviluppo; con maggiore precisione sappiamo soltanto che la donazione di Cipselo a Olimpia (c.a 600 a.C.) si adeguò ai canoni del tempo (v. vol. IV, p. 427, s.v. Kypselos, arca di).
L'acquisizione, a volte frettolosa, del mondo figurativo orientale, sfocia in periodo arcaico in una costruzione formale ancora più omogenea, caratterizzata da una serie di precise regole stilistiche. La caratteristica principale è che nell'ambito della cultura aristocratica del simposio si tentò di mettere in evidenza la pretesa culturale aristocratica mediante un'alta sublimazione formale. I vasi presentano nella decorazione i paradèigmata mitici, senza però per questo svolgere solamente il ruolo secondario di supporto all'immagine, cosicché le coppe, alla fine del secolo, possono essere maneggiate soltanto con molta abilità e raffinatezza, poiché le loro raffigurazioni sono spesso delicate, secondo le forme specifiche delle arti minori (coppe dei Maestri Miniaturisti). Invece sul corpo delle anfore dello stesso periodo si impongono composizioni monumentali (Exekias). Nella piccola bronzistica, prediletta per i doni votivi fin dal periodo geometrico, i tipi del kouros e della kore non assumono vasta rilevanza come nella scultura di grande formato. Le statuette bronzee di Dodona, p.es., sono caratterizzate da una serie più variata e movimentata di motivi.
Per quanto riguarda la ceramica è possibile ravvisare un processo di centralizzazione, durante il quale alla molteplicità regionale subentra il monopolio attico nella produzione della ceramica fine.
Periodo tardo-arcaico e classico (V sec.). - Con il passaggio del potere politico al dèmos la cultura aristocratica divenne il modello per quegli strati sociali, in cui prevaleva una certa disponibilità economica. E quindi anche la cultura aristocratica mutò i suoi contenuti e mutò anche la struttura della vita pubblica. Le riflessioni che seguono si fondano in prevalenza sull'analisi di materiale attico.
Nell'ambito della rappresentazione del privato nella vita pubblica della pòlis predominava un'estetica semplice (Thuc., II, 40, 1: φιλοκαλουμεν [...] μετ'εύτελείας), che rispecchiava il modello normativo democratico. Forme più ambiziose di autorappresentazione vennero stigmatizzate come μηδισμός. Nell'agorà e nelle assemblee politiche, nelle palestre, a teatro e nei luoghi sacri l'individuo si presentava indossando abiti semplici e privo di gioielli (Thuc:, I, 6; cfr. Plut., Ale., 23), tranne l'anello a sigillo che testimoniava lo status del cittadino. Anche portare armi da parata era considerato disdicevole (Xenoph., Hier., II, 2). Sempre in questo contesto va inserita anche la trasformazione dell'abito femminile, dall'estroso chitone ricco di pieghe e con la mantellina obliqua, al peplo lineare e alle vesti con semplici decorazioni.
Invece più animata pomposità presentavano i doni votivi (cfr. W. H. D. Rouse, 1902). Anche in questo caso, se i doni erano opere d'arte minore, la χάρις prevaleva sui vincoli rituali: sui vasi votivi dell'acropoli di Atene e di Egina spesso le raffigurazioni non mostrano alcun riferimento alla divinità venerata.
All'interno dell'οῒκος soltanto all'αvδρών veniva assegnata una certa funzione sociale. La rappresentatività si concentrava essenzialmente nel mobilio (klìnai, tavolini, panche, cuscini), che era anche il patrimonio più consistente dell'οῒκος, e nei vasi potori. Per quanto riguarda il mobilio, gli esemplari con zampe lavorate al tornio, con la sega, o a sbalzo, vennero sostituiti da forme di panche in legno, semplici e lavorate con la sega (Kyrieleis, 1969, tipo C). I recipienti per bere in metallo pregiato si trovavano principalmente nei santuari oppure erano patrimonio pubblico (Ath., VI, 231-234; Plut., Alc., 13). Anche sull'uso di metalli pregiati nella realizzazione di mobili e recipienti per bere veniva formulata l'accusa di μηδισμός (Herodot., IX, 80-82). Come nel periodo arcaico, anche in quest'epoca dominava la ceramica fine, dipinta ora con la tecnica delle figure rosse, la cui vasta produzione raggiunse livelli elevatissimi (v. attici, vasi).
Anche l'arredo sepolcrale rientra nel patrimonio dell’οῒκος. A causa del suo ruolo politico-sociale fu severamente regolato dalla comunità della pòlis, a volte anche con provvedimenti legislativi. Nel V sec., in particolare, le suppellettili sepolcrali risultano relativamente semplici (lèkythoi a fondo bianco).
Nella prima metà del V sec. alcune produzioni artigianali persero le caratteristiche di arte minore per avvicinarsi piuttosto all'arte monuiìientale: spesso le piccole figure in bronzo hanno un carattere statuario, anche quando si trovano inserite in un utensile, come nel caso dei manici di specchi. I valori ideali del nuovo stile figurativo erano già stati elaborati nella grande scultura. Lo stesso si può affermare per la pittura vascolare (Pittore di Berlino, Pittore di Pentesilea, copie da dipinti di Polygnotos, Mikon, ecc.).
Classi di materiali non attici, come i rilievi di Melo e Locri, mostrano la rapida diffusione del nuovo modello estetico nell'intero mondo greco.
Il periodo tardo-classico. - Già sul finire del V sec. si preannuncia la riduzione di quella rigorosa semplicità.
Forse il fenomeno tocca più direttamente l'ambiente privato e non tanto la vita pubblica: l'uso di metalli pregiati nei simposi privati destava tuttavia scalpore (Plut., Alc., 4). Le figurazioni vascolari dell'epoca di Meidias testimoniano il lusso delle vesti femminili. Gli άνδρώνες vennero decorati con mosaici (Olinto) e pitture murali (Plut., Ale., 16; Andoc., Ale., 17; Demosth., Or., XXI, 147; Αel., Var. hist., XIV, 17). Le forme più fantasiose delle zampe dei mobili di tipo Β sostituiscono ora le semplici panche. Anche la γυναικωνĩτις, un ambiente non aperto agli estranei, viene arredata fastosamente, come appare nelle molte scene vascolari che riproducono le stanze femminili. Beni di lusso vennero prodotti in serie in argilla poco pregiata, ma a un livello artigianale spesso elevato, come evidentemente imponeva una richiesta assai diffusa: siamo nella grande epoca della ceramica a vernice nera attica con dorature (G. Kopeke, 1964) o con appliques, delle applicazioni tarantine in terracotta dorate come imitazioni del metallo, oppure degli ornamenti in terracotta rivestiti con foglia d'oro (I. Blanck, 1976). Ad Atene i ceramografi tentarono di mantenere un legame con la pittura su tavola, mentre nell'Italia meridionale e in Sicilia l'immagine sui vasi a figure rosse veniva definita con colori variati e ricchi motivi decorativi. Inoltre si sviluppò la nuova tecnica della ceramica di Gnathia, con decorazioni raffinate. La produzione di statuine in terracotta si liberò dai tradizionali vincoli e divenne nel IV sec. una delle categorie più creative. La nuova tecnica pittorica (su fondo di gesso) permetteva una colorazione preziosa e varia.
Anche la produzione di gioielli e di articoli in metallo pregiato cesellato ebbe una rapida espansione, e spesso era destinata all'esportazione nei territori circostanti («Tomba degli ori» a Canosa; Tesoro di Rogozen) oppure realizzata sul posto (oggetti preziosi sciti, traci e achemenidi). Gli artigiani greci lavoravano così su commissione dei dinasti stranieri; e ciò favoriva l'ellenizzazione intensiva anche delle popolazioni periferiche in età ellenistica. Per quanto riguarda le forme del simposio e il lusso dell'arredamento, anche la casa reale macedone assimilò ben presto il modello culturale della pòlis.
L'ellenismo. - Il dominio territoriale dei sovrani ellenistici in Oriente mutò completamente le caratteristiche della produzione artigianale greca e del suo mondo figurativo. Tuttavia perdurano ancora i legami con l'iconografia tradizionale e il linguaggio figurativo, grazie sicuramente alla forza integrativa del modello culturale greco, che si era rivelato esportabile già a partire dal IV secolo. Quindi risulta spesso difficile individuare precisi limiti cronologici nell'ambito delle produzioni artigianali.
Con il dominio sui popoli orientali, che possedevano una propria cultura figurativa, le tecniche e le formule iconografiche vennero assorbite in blocco dagli artigiani greci così da ottenere, per la prima volta, vere forme miste. Questo vale soprattutto per l'iconografia alessandrina, p.es. nella raffigurazione del principe come faraone e βασιλεύς oppure nella interpraetatio graeca delle divinità egizie. Per la prima volta nelle arti minori greche si giunse a una produzione notevole di vetro, vetro dorato (L. Byvanck, 1970) e di faïence. Non venne abbandonata la produzione di forme tradizionali di recipienti (coppe emisferiche achemenidi). È proprio nelle arti minori alessandrine l'unione di elementi orientali e greci risultò più intensa che in altri ambiti della cultura ellenistica (v. vol. I, p. 218 e S 1970, p. 29, s.v. Alessandrina, arte). Con il dominio territoriale si dischiusero anche fonti di materie prime, soprattutto metalli e pietre preziose, che erano essenziali per la produzione di gioielli. Nelle fonti letterarie che si riferiscono al primo ellenismo si fa spesso riferimento a lavori di cesellatura, dove è esaltato il puro valore del materiale (Ath., IV, 128a-130e). Per quanto riguarda la ceramica fine, la produzione dipinta non poté resistere e scomparve quasi totalmente a esclusione di pochi tipi (ceramica di Gnathia, delle Pendici Occidentali, di Hadra), essenzialmente produzioni limitate e qualitativamente scadenti (costituisce un'eccezione la ceramica policroma di Centuripe).
Al suo posto subentrò la ceramica a rilievo, basata su modelli realizzati in metallo (vasi caleni e megaresi; ceramica-appliqué; terra sigillata ellenistica), che presto adottò la tecnica razionale della forma a matrice, p.es. per le lucerne. Quindi questa produzione assunse carattere industriale, a differenza della tradizione artigianale classica. I recipienti non presentano più nel modellato le forme armoniose del periodo arcaico o classico, ma tratti più marcati e appariscenti.
Il mondo culturale greco si orientò verso le corti principesche specialmente nella fase iniziale dell'ellenismo. Questo innovativo processo di centralizzazione impose nuovi scopi all'artigianato: a volte furono gli stessi sovrani a esercitare una certa influenza (Antioco IV: Ath., V, 194c; Pol., XXVI, 10). Acquistò inoltre maggior rilievo la «cultura delle feste» nelle grandi città: l'addobbo effimero per le cerimonie, i cortei, ma anche il lusso degli arredamenti e la creazione di gioielli (cammei) portarono a soluzioni insolite (H. von Hesberg, 1989).
Le tipologie classiche di klìnai vennero elaborate in forme metalliche. Nella realizzazione dei mobili (zampe di mobile tipo Kyrieleis A e D) dominavano nuovamente le forme artistiche tornite e le zampe feline spesso venivano lavorate in metallo prezioso e, a partire dall'ellenismo maturo, decorate con pietre dure, avorio, ecc. Invece la toreutica del primo periodo ellenistico e i lavori di gioielleria risultano fortemente influenzati dal puro splendore dell'oro. Proprio per quanto riguarda le soluzioni più eccezionali, rimangono purtroppo soltanto le descrizioni nella tradizione letteraria (tavolo di Tolemeo II a Gerusalemme: Lettera di Aristea, 50-78; thymiatèrion di Antioco XIII: Cic., Verr., II, 4, 60-64). Invece, a partire dal tardo ellenismo, le realizzazioni in marmo destinate al mercato d'arte romano, p.es. i thymiatèria, riprendono forme classiche.
È evidente che nel tempo il modello del simposio e quello del teatro rimangono vincolanti, e che nelle arti minori non compaiono insegne della regalità (all'infuori della ταινία regale).
Caratteristico dell'ellenismo è l'aspetto virtuosistico, ereditato dal IV sec., come è possibile rilevare già nel Cratere di Derveni (v.). Nella toreutica, nella gioielleria e nelle altre produzioni si superano i consueti limiti estetici con la resa naturalistica degli ornamenti vegetali.
La persona del principe riceve naturalmente la massima attenzione, anche nei ritratti di piccolo formato, p.es. nella piccola plastica in bronzo, nella ceramica (D. Burr Thompson, 1973), nelle statuette in marmo, o infine nelle gemme che riproducono l'immagine del sovrano, per le quali non è del tutto chiaro se si voglia porre l'accento sulla lealtà o l'autorità di colui che le indossa.
Nelle corti dei sovrani, fin dall'inizio dell'ellenismo, vennero realizzate grandi biblioteche e scriptoria. Non è sicuramente un caso che in questo periodo, per la prima volta nel mondo classico, ci sia data testimonianza di illustrazioni e decorazioni di libri, che escono dai limiti delle astratte rese grafiche prodotte fino a quel tempo (v. vol. IV, p. in, s.v. Illustrazione).
Durante l'ellenismo sono utilizzate, anche nella produzione di suppellettili e oggetti di arredamento, immagini che non hanno un diretto legame con la loro destinazione d'uso, p.es. i bronzetti o le terrecotte provenienti dagli scavi di città (Priene), che a volte venivano usati come soprammobili. La loro miniaturistica vivacità (danzatori grotteschi di Mahdia, Danzatrice Baker) e la loro complessa ricchezza di significati (mendicanti e storpi: L. Giuliani, 1987) testimoniano l'indipendenza delle opere delle arti minori nell'ultima fase della produzione iconografica greca.
Epoche successive. - In epoca imperiale romana non erano soltanto le opere d'arte monumentale del passato a essere considerate formative del gusto: anche nella produzione di suppellettili venne recepito il patrimonio formale tardo-arcaico, classico ed ellenistico (candelabri, mensae Delphicae). Le collezioni di originali si concentrarono prevalentemente su oggetti preziosi. Vi è una ricca tradizione sulle dactyliothecae del periodo tardo-repubblicano e dell'inizio dell'epoca imperiale. Erano molto apprezzate anche la toreutica e la ceramica greca (Plin., Nat. hist., XXXIII, 154 ss.; Strab., VIII, 23: νεκροκορίνθια, cfr. Iacopi, 1963).
La presenza delle arti minori greche nel Medioevo si limitò quasi esclusivamente alle opere della glittica, conservate nei tesori reali ed ecclesiastici.
In epoca moderna le testimonianze dell'arte minore greca sono ormai considerate realizzazioni artistiche valide e indipendenti. Tali oggetti sono, purtroppo, particolarmente esposti allo scavo e al commercio clandestino e quindi costituiscono la parte più rilevante delle moderne collezioni, pubbliche e private, al di fuori dei paesi classici.
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(O. Dräger)