Vedi ETRUSCA, Arte dell'anno: 1960 - 1994
ETRUSCA, Arte (v. vol. III p. 466)
La voce Etrusca arte è stata scritta da R. Bianchi Bandinelli nel 1960, quando, sull'onda della grande mostra del 1955-1956, erano da poco iniziati scavi destinati a segnare una svolta nella conoscenza del mondo etrusco, anche sotto il profilo artistico: basti pensare alle nuove tombe dipinte di Tarquinia, ai templi di Pyrgi, alle terrecotte di Acquarossa e poi di Murlo. Il momento, obiettivamente prematuro, ha contribuito a rendere presto carente la voce, così che lo stesso Bianchi Bandinelli ha sentito il bisogno di un aggiornamento, apparso postumo in altra sede nel 1976 (nel quale tra l'altro sono state corrette le cronologie troppo basse seguite nel i960 sulle orme delle posizioni imperanti negli anni '40 e '50). Oggi tuttavia anche quell'aggiornamento, a vent'anni di distanza, si rivela insufficiente, incalzato com'è dai progressi della ricerca. Si è quindi resa necessaria una totale riscrittura, diversamente organizzata, che tuttavia non può prescindere dalla informazione di base e dalla bibliografia contenute nella voce del i960, alla quale si rimanda in particolare per la parte introduttiva sulla storia e la civiltà degli Etruschi, nonché per quella sulla vicenda degli studi.
SOMMARIO: Urbanistica e Architettura. 1. La protostoria. 2. Le prime esperienze urbane: a) Gli abitati; b) Le tombe. 3. L'apogeo urbano tra vi e v secolo a.c.: a) Gli abitati; b) Le tombe. 4. La città tardo-etrusca: a) Gli abitati; b) Le tombe.
Arti Visive, 1. L'età dello stile geometrico (ix-viii sec. a.c.): a) Il Villanoviano antico; b) Il Villanoviano recente. 2. L'esperienza orientalizzante (fine viii-inizio vi sec. a.c.). 3. L'arcaismo (inizi vi-metà v sec. a.c.): a) La fase alto-arcaica; b) La fase tardo-arcaica. 4. L'età classica e del primo ellenismo (metà v-metà ih sec. a.c.): a) La fase alto-classica; b) La fase tardo-classica e alto-ellenistica. 5. L'ellenismo medio e tardo (metà del iii-metà del i sec. a.c.): a) L'Etruria meridionale; b) L'Etruria settentrionale.
Urbanistica e Architettura. - 1. La protostoria. - Il quadro delle conoscenze relative a questo periodo è profondamente cambiato, anche qualitativamente, rispetto a quello che si poteva avere nel i960. La ricerca sul terreno ha rivelato che l'Etruria meridionale (ma non molto diversa sembra essere la situazione nel resto del paese) è interessata già dal Bronzo Medio (XVI-XIV sec.) da un embrionale sistema di insediamenti stabili, dislocati per lo più sopra e intorno ad aree naturalmente difese, di limitata estensione (4-5 ha). Il sistema è in forte espansione nel Bronzo Finale, specialmente nei secoli di transizione all'Età del Ferro («fase di Allumiere», XI-X sec.), per i quali tra il Tevere e la riva sinistra del Fiora sono stati segnalati c.a 70 insediamenti. I maggiori di essi possono arrivare a disporre di c.a 15 ha come area sommitale (Vignale di Civita Castellana) o come area complessivamente abitata (Sorgenti della Nova: la determinazione è stata resa possibile dall'esplorazione sistematica del sito, in corso dal 1974). Per alcuni di questi insediamenti è provata l'esistenza di difese artificiali, come il fossato scavato di traverso alla base del promontorio nel caso di lingue tufacee (Pontone di Barbarano, Ferleta presso Tarquinia) o l'aggere anulare di pietrame nel caso di alture isolate (come Monte Cimino, Monte S. Angelo, l'Elceto presso Allumiere). Sono documentati terrazzamenti interni (Crostoletto del Lamone, Sorgenti della Nova, Torrionaccio), «magioni» rettangolari profondamente incavate nel masso, probabile dimora di capi (Monte Rovello, Luni sul Mignone), tombe eccezionalmente a cista entro tumulo di sassi (Crostoletto del Lamone). Il tipo di capanna più caratteristico è quello a pianta ovale, anche di grandi dimensioni, con sostegni interni e pareti sorrette da pali distanziati o ancorate a un solco perimetrale continuo, sostituito talora da uno zoccolo di pietrame (S. Giovenale, Luni sul Mignone, Sorgenti della Nova). Frequenti a Sorgenti della Nova sono le grotte artificiali, per uso di abitazione o per servizi, come forni, silos, ecc., con una singolare prefigurazione di quel che si verifica largamente nella regione in età altomedievale.
Tra la fine del X e la metà del IX sec. si manifesta in tutta l'Etruria, con maggiore o minore intensità (in generale maggiore nella fascia marittima, da Veio e Cerveteri a Populonia), il fenomeno della concentrazione del popolamento in aree ristrette, a forte densità abitativa rispetto al restante territorio: dove sussistono adeguate condizioni geomorfologiche, cioè nell'Etruria meridionale, si prescelgono uno o più pianori contigui, estesi da 80 (Orvieto) a 200 ha c.a, sempre dotati di adeguati confini naturali. Spesso tali pianori hanno già conosciuto qualche forma di limitata occupazione nel Bronzo Finale, cui negli ultimi anni è stata prestata anche troppa attenzione, perdendo di vista le dimensioni della nuova realtà insediativa e la portata storica della sua apparizione, che resta irriducibile a dinamiche di sviluppo interne alla cultura protovillanoviana. Le aree ad alta concentrazione di popolazione, su uno (Veio, Orvieto) o due pianori contigui (Cerveteri, Tarquinia, Vulci, secondo le più recenti osservazioni), oppure su colline (Chiusi, Vetulonia, Volterra, Verucchio, Populonia), corrispondono puntualmente a quelle che saranno le città capoluogo dell'Etruria storica. Parallelamente, della miriade di insediamenti del Bronzo Finale le sopravvivenze di IX-inizio VIII sec. sono assai scarse e quasi sempre motivate da particolari funzioni «strategiche» nei confronti del territorio, delle sue risorse e delle vie di comunicazione che l'attraversavano (S. Giuliano e Monte S. Angelo sulla via Tarquinia-Veio; Bisenzio e il Gran Carro sulla via Vulci-Orvieto, oltre che in rapporto alle risorse del grande lago; Montetosto sulla via Cerveteri-Tarquinia; i villaggi della costiera di Civitavecchia in rapporto alla pesca, alla «pirateria» e forse all'accesso alle risorse metallifere dei Monti della Tolfa, rimasti privi di insediamenti stabili).
Si può in conclusione parlare di un sinecismo primario, che all'inizio dell'Età del Ferro rivoluziona l'assetto del popolamento in Etruria, da Veio a Bologna, in concomitanza con la svolta culturale manifestata dal Villanoviano. Lievi sfasamenti cronologici tra area e area sono verosimili, ma è difficile ammettere che il fenomeno si sia verificato prima nella zona mineraria toscana che nell'Etruria meridionale costiera, come alcuni vorrebbero (il particolare sinecismo di Populonia ricorda quello già citato della costiera di Civitavecchia, rimasto tuttavia senza esito urbano). Gli agglomerati constano di più nuclei di insediamento, o «villaggi», di regola ognuno con un proprio sepolcreto, rispecchianti la pluralità e varietà di gruppi umani confluiti nelle nuove sedi. La loro dislocazione generalmente lungo il perimetro dei pianori induce a pensare che il compito della difesa degli stessi fosse equamente ripartito dalla comunità tra i nuclei che la componevano.
Le vaste aree libere, specialmente centrali, dovevano essere destinate non alla pastura ma a una parte almeno degli orti con le loro colture pregiate, assegnati in proprietà individuale alle singole famiglie (sul modello dell’heredium romuleo, che era di due iugeri, cioè di mezzo ettaro: in un pianoro come quello di Veio potevano trovar posto anche più di 300 heredia, senza contare che l’heredium etrusco di inizio IX sec. poteva corrispondere a una estensione ancora minore). Laddove l'aggregato si distendeva su più pianori, come a Tarquinia, la superficie disponibile per i lotti di terra privata era sensibilmente superiore, includendo ampie, e forse ambite, porzioni di fondovalle. Comuni restarono certamente, nell'immediato suburbio, le aree contigue alle principali vie d'accesso, sulle quali, e specialmente sui dossi, trovarono la loro prima collocazione i sepolcreti.
La successiva storia dei maggiori insediamenti d'Etruria può essere ricondotta entro i termini di un processo, fin dove possibile, di compattazione interna degli agglomerati. Una sorta di sinecismo secondario, spesso sopravvalutato o frainteso, che provoca, a partire dall'VIII sec., l'abbandono dei pianori satelliti (p.es. a Tarquinia quello dei Cretoncini, oltre che i più lontani Monterozzi), l'occupazione intensiva del pianoro principale, la concentrazione dei sepolcreti in vere e proprie necropoli, ubicate in aree appositamente prescelte (p.es. i Monterozzi a Tarquinia, la Banditacela e Monte Abatone a Cerveteri). Il processo, assai più graduale del precedente, trova il suo epilogo nell' unificazione anche urbanistica della città, che è un fatto pienamente compiuto in Etruria già nel VII secolo.
Il «secondo momento» nella vicenda storica dei grandi insediamenti della regione si accompagna alla creazione di una maglia di insediamenti minori, generalmente ubicati sui siti già occupati nel Bronzo Finale, e al potenziamento dei pochi già esistenti se in posizioni munite (vengono quindi abbandonati i villaggi litoranei, sia marittimi che lacustri). Il fenomeno è indice anch'esso di una tendenza al coagulamento demico, che si esercita nei confronti della popolazione rimasta a vivere nelle campagne, fuori del sinecismo primario di cui si è detto, oltre che indice di preoccupazioni specificamente difensive. A partire dalla fine dell'VIII sec. l'Etruria è costellata di insediamenti «medi», posti generalmente sotto la diretta tutela di gruppi aristocratici che hanno promosso la loro formazione, o hanno avuto parte preponderante nell'attuarla.
In tutto il periodo fin qui considerato le abitazioni hanno conservato forme e strutture tradizionali, note almeno dal Bronzo Finale, a giudicare dai non molti siti che sono stati oggetto di scavo. A parte i dati alquanto sfuggenti dell'abitato perilacustre del Gran Carro e quelli, assai limitati, di Veio e di Torre Valdaliga presso Civitavecchia, la documentazione più consistente è fornita dal villaggio del Calvario sul colle dei Monterozzi, scavato da R.E. Linington (1975-1978). In un'area di c.a 2 ha sono state localizzate 25 capanne, in maggioranza a pianta rettangolare, all'opposto di quel che si verificava a Sorgenti della Nova. Le più grandi e complesse sono a pianta ovale, in media di 80 m2, con due o tre coppie di sostegni interni che si ritrovano anche, in numero minore, in alcune di quelle rettangolari. A Torre Valdaliga le capanne sono accompagnate da capaci silos a pozzetto.
Informazioni preziose sull'alzato sono desumibili dalle urne cinerarie a capanna, oggetto di un recente studio, presenti specialmente a Tarquinia, Vulci, Vetulonia e Bisenzio. Il tetto è sempre del tipo testudinato, con manto di strame trattenuto da un «giogo» di pali incrociati sul displuvio; il che dà luogo a forme assai originali di ornato ligneo, destinate a restare nel repertorio tipologico degli acroteri (né mancano già in quest'epoca anticipazioni per quanto riguarda gli acroteri con figurazioni plastiche di uomini e animali). Sui lati corti la falda è spesso meno inclinata, lasciando in alto un'apertura per il fumo e la luce che richiama i tipici frontoni «aperti» dei templi etruschi. Spesso su ima delle pareti lunghe si trova una finestra, talora sostituita da una porta.
Le tombe villanoviane, a pozzetto e più tardi anche a fossa, sono segnalate in superficie da rozze stele, tumuletti di sassi (Chiusa Cima) e, nella sola Vetulonia, da circoli di pietre posti a intervalli regolari. A Populonia, già forse nel tardo IX sec., appaiono le prime tombe a cameretta costruita: la pianta circolare, coperta da pseudocupola, fa pensare a una ispirazione proveniente dall'architettura nuragica.
2. Le prime esperienze urbane. - a) Gli abitati. - Con l'inizio dell'età orientalizzante il processo di organizzazione urbana diventa in Etruria una realtà. I recenti scavi sul Pian di Civita a Tarquinia hanno mostrato che già nella prima metà del VII sec. si costruiscono in buona opera a telaio litico recinti e case ai lati di una strada larga 3 m, ortogonale all'asse principale della dorsale: strada che all'inizio del V sec. sarà sistemata con fondo ghiaiato e fogne laterali senza mutare tracciato. Fulcro del «quartiere» è un edificio a mègaron di m 6,50 x 11, collocato a ridosso di un profondo crepaccio utilizzato come inghiottitoio. Numerosi indizi, a cominciare dal seppellimento di un gruppo di bronzi dal forte contenuto simbolico (ascia, scudo e tromba-lituo), segnalano il valore «politico» e, secondariamente, sacrale del complesso, che è stato paragonato a quello che per la Roma arcaica dovette essere una curia.
Meglio conservati, anche a causa del ben più breve arco di vita, sono gli edifici che, a partire dalla stessa epoca, furono eretti nella piccola San Giovenale (v.), usando largamente l'opera quadrata di tufo. Sul pianoro sono state portate in luce due case signorili, composte da una sala con banchina tricliniare di ciottoli e un vestibolo con ingresso laterale sull'adiacente cortile recintato. Una terza casa, a tre vani allineati, anch'essi con ingresso laterale, affaccia sullo stesso cortile di una delle precedenti, della quale sembra essere una dipendenza con funzioni produttive e di servizio. Più modeste e irregolari le case del quartiere sovraffollato del «Borgo», occupanti un'area urbanizzata a prezzo di un costoso terrazzamento della pendice con canalizzazione delle acque di superficie, eseguito anch'esso in pieno VII secolo.
Il panorama più ampio che oggi possiamo avere di un centro urbano di VII-primo venticinquennio del VI sec., è offerto da Acquarossa, anche se la superficie scavata non raggiunge un ettaro e mezzo dei 32 occupati dall'insediamento. L'impianto è nel complesso irregolare, con tendenza alla ortogonalità solo nella zona monumentale F e sul pianoro periferico di Pian del Sale. Le case - c.a 70 tra scavate o solo individuate - sono costruite in opera quadrata di tufo, o più spesso a telaio ligneo con tamponature di pisé, mattoni crudi od opus craticium. Le piante sono quanto mai varie: caratteristica è la tendenza ad affiancare i vani nel senso della larghezza, facendoli precedere da un portico o da una tettoia (anche se le letture proposte dallo scavatore, C. E. Östenberg, sono state sottoposte recentemente a una radicale e forse eccessiva revisione). Contrariamente a S. Giovenale, i tetti di tegole sono spesso integrati da terrecotte decorative, realizzate nella tecnica della pittura «bianco su rosso» (lastre di rivestimento, mutuli, sime, tegole di gronda, antefisse), a ritaglio (acroteri, antefisse) o ad applicazioni plastiche (acroteri laterali). Le più recenti di queste terrecotte dipinte accolgono nel loro repertorio decorativo motivi (doppia treccia, rosoni) ispirati alla nascente tradizione architettonica greca, provenienti verosimilmente, attraverso la mediazione di Cerveteri, dalla Sicilia.
Di tipo «siciliano» del resto è fin dall'inizio il sistema di copertura dei tetti in Etruria, con tegole piatte e coprigiunti semicircolari; e lo stesso si può dire delle case a pianta trasversale con portico o vestibolo anteriore, anticipanti la casa classica a pastàs, della quale sempre più numerosi sono gli antecedenti di età arcaica in Sicilia.
Le incertezze al riguardo segnalate per Acquarossa sono in parte compensate dai dati forniti dall'esplorazione sistematica, in corso dal 1980, dell'insediamento dell'Accesa, presso Massa Marittima, nella zona mineraria vetuloniese. È questo un modesto insediamento, fiorito nella prima metà del VI sec., con una peculiare distribuzione a nuclei distinti composti da una decina di case, ciascuno con il proprio sepolcreto, distribuiti sulle pendici digradanti verso il lago, con le «strade» nel senso del pendio (come al Borgo di S. Giovenale e sulla collina Ν di Roselle), per facilitare il drenaggio dell'area abitata. Pur in assenza di un piano unitario si osservano, anche più che ad Acquarossa, spunti di regolarizzazione. Le case, almeno in parte in mattoni crudi, hanno spesso più vani affiancati con «corridoio» antistante, coperti con tetto a falda unica costantemente privo di decorazioni. Dello stesso tipo è una casa, di un periodo più recente, messa in luce a Verucchio.
La creazione di un «centro» direzionale, attorno al quale si organizza la nascente città, è provata a Roselle (v.) dalla sistemazione della vallecola posta tra le due colline occupate dall'insediamento, dove in età recente sorgerà il foro. Verso la metà o poco prima del VII sec. viene costruito in mattoni crudi un ampio recinto rettangolare bipartito con al centro, in posizione enfatica, un piccolo edificio a pianta quadrata con vano circolare coperto a thòlos senza ancora rivestimento di tegole. Ne ignoriamo la funzione, ma essa va certamente ricercata nell'ambito del pubblico e probabilmente del sacro, ricordando la romana aedes Vestae. Alla stessa epoca si data la prima cinta fortificata della città, con muro in mattoni crudi su alto zoccolo di pietrame largo m 1,80. Il muro venne sostituito nel corso del VI sec. da quello rimasto in uso fino al Medioevo, in opera pseudopoligonale a grandi massi di calcare. Lungo oltre 3 km, descrive una linea spezzata interrotta da almeno sette porte e una postierla, tutte del tipo sceo, tranne quella del lato Ν che è del tipo a camera interna.
Se Roselle restituisce l'immagine di una città in formazione, quella di un potentato signorile della stessa epoca, allo stato puro, ci è rivelata da Murlo nell'agro senese. Gli scavi americani hanno messo in luce su Poggio Civitate (v.) un «palazzo», che ebbe due fasi edilizie, prima di essere ritualmente distrutto verso il 530 a.C. Nella fase orientalizzante constava di due ali a L, la maggiore, a quanto pare a due piani, con il terreno adibito a magazzino. Verso il 580 l'edificio fu ricostruito dopo un incendio come un quadrilatero disposto intorno a un cortile, difeso esternamente da un fossato su due lati e, a quanto pare, da torri. Tre ali dell'edificio erano porticate, mentre contro quella opposta all'ingresso principale si trovava, a ridosso di una specie di esedra, un sacello o recinto, sede del culto domestico. Eccezionalmente ricca la decorazione architettonica: in entrambe le fasi sono impiegate fin dall'inizio tegole del tipo evoluto che si affermerà nell'Etruria meridionale e nel Lazio solo nella seconda metà del VI secolo. Singolare il contrasto tra la raffinatezza, oltre che della progettazione, anche delle matrici, certamente importate, e la rozzezza delle parti eseguite a mano libera. Le terrecotte della seconda fase costituiscono, dopo i precedenti di Veio-Piazza d'Armi e di Vignanello, la più antica serie tipologica ottenuta a stampo nota in Etruria, di forte impronta corinzieggiante. Molte delle tegulae e degli imbrices recano lettere o contrassegni isolati impressi a crudo, forse per distinguere le varie partite di materiale. In un caso è possibile l'integrazione raś (nal), che alluderebbe alla proprietà della figlina da parte del locale populus.
Anche ad Acquarossa esisteva un «palazzo» porticato, ma ad ala unica, nella zona che è stata giustamente definita come monumentale, quasi al centro della figura triangolare cui si può ricondurre l'insediamento, tralasciando il periferico Campo dei Pozzi. Verso il 560-550 il complesso fu ricostruito con due ali porticate disposte a squadro intorno a un cortile; quella meglio conservata, a N, comprendeva un ampio vano centrale con l'ingresso bipartito da una colonna avente funzioni di vestibolo per i due vani laterali, il destro con banchina tricliniare. Le colonne avevano basi e capitelli di peperino, di tipo dorico-etrusco, con echino a toro. Le terrecotte consistevano solo in antefisse e lastre di rivestimento, senza traccia di sime frontonali e di acroteri: il che basta a escludere l'attribuzione, peraltro sproporzionata e anacronistica, di un immane frontone di tipo aperto con tetto ad antefisse sull'ala O (Strandberg Olofsson, 1984). Tra le opere pubbliche della città alto-arcaica va ricordata almeno la costruzione della strada carrabile, larga m 10,40, collegante con lunghi rettilinei Cerveteri al centro portuale di Pyrgi, che sembra aver ricevuto contestualmente, all'inizio del VI sec., il suo primo impianto urbano. Arcaico è anche l'ardito ponte-viadotto gettato sul Fosso Pietrisco presso S. Giovenale, con spalle in opera quadrata di tufo e torre di guardia. E lo è pure l'immensa cisterna a cielo aperto, costruita al centro della collina di Piazza d'Armi a Veio, sproporzionata rispetto al colle su cui si trova, del quale postula le funzioni di acropoli per l'intera comunità.
b) Le tombe. - È impossibile dar conto esaurientemente, in questa sede, delle rigogliose manifestazioni dell'architettura sepolcrale, che accompagnano il primo sviluppo della città in Etruria. Architettura connotata dal requisito della durata, a differenza di quella urbana, anche a scapito della rifinitura formale, e quindi preferibilmente costruita in pietra o, dove possibile, cavata nel masso.
Il centro più produttivo è Cerveteri, dove si forma una corposa tradizione che influenza i centri minori dell'Etruria interna (Monterano, S. Giovenale, S. Giuliano, Blera, Castel d'Asso, Tuscania, Acquarossa) e dell'agro falisco, facendo arrivare il suo insegnamento fino a Vulci e a Orvieto.
Il passaggio dalle fosse alle camerette, che ha luogo all'inizio dell'Orientalizzante, è attuato col ricorso alla pseudo-volta in opera quadrata, che comporta la necessità statica ed estetica del tumulo. Questo conosce un'improvvisa fortuna, ricevendo ben presto un trattamento monumentale, sia per le dimensioni (fino a 60 m di diam.), sia per il ponte o podio a gradini per l'accesso alla calotta, sia per le cornici che scandiscono la giunzione della calotta col tamburo di base. Già nella prima metà del VII sec. si scolpiscono in quella posizione sequenze complesse di fasce e di tori, che possono arrivare a 1,50 m di altezza. Si è pensato per esse a una ispirazione vicino-orientale, in sintonia con quel che è suggerito, con maggiore immediatezza, dall'iconografia delle statue di dignitari seduti, scolpite ad altorilievo sulle pareti laterali del vestibolo di una tomba di Ceri (Colonna, v. Hase, 1984). Sulla stessa linea sono, nella seconda metà del secolo, le pietre funerarie protofelsinee, e in particolare i due grandi «cilindri» modanati di recente scoperti a Bologna in Via Fondazza, forse da interpretare più come monumenti votivi che come altari, a causa della decorazione a bassorilievo con motivi fitomorfi presente anche sul piano superiore (paragonabili quindi, come funzione, ai dischi di pietra di Pieve a Sòcana e altre località). Sono monumenti che esprimono una raffinata cultura architettonica, evocante le corti palaziali del Vicino Oriente. Col tempo si assiste per i tumuli a una progressiva semplificazione e insieme a un irrobustimento delle modanature, che valorizza al massimo la curva del toro (alla quale si tenderà nel VI sec. ad assimilare l'echino del capitello dorico). Nella stessa epoca il toro comincia a essere abbinato a quello che diverrà il suo inseparabile complemento, il becco di civetta, di sicura origine greca. Ma il tumulo avrà allora già ceduto il passo alle strutture a dado, delle quali si dirà più avanti.
All'interno dei tumuli ceriti o di tipo cerite le camere crescono rapidamente di dimensioni e successivamente di numero. Sono realizzate o nella forma di un «corridoio», lungo anche oltre 15 m (vedi la Tomba Regolini Galassi nel suo assetto finale), coperto da una pseudovolta costruita, oppure nella forma, di gran lunga più frequente, di vani quadrangolari imitanti la casa, interamente cavati nel tufo. In questa seconda direzione la libertà progettuale non conosce limiti, se non di spesa, ma con condizionamenti di natura ideologica e culturale che portano a preferire determinate tipologie o a elaborarne di convenzionali, prive di adeguato riscontro nella realtà. Incontra fortuna dapprima il modello della «capanna» rettangolare, ad angoli spesso arrotondati con ripido tetto appoggiato a un columen a bastoncello e prolungato fino a terra o quasi (tipo Bi di Prayon, c.a 700-670 a.C.). Quindi si afferma stabilmente il modello della casa, con pareti adeguatamente sviluppate in altezza, tetto displuviato di moderata pendenza (atto a sopportare le tegole) con largo columen squadrato, mobilio reso realisticamente, ecc. Il tipo di casa imitato dalle tombe più impegnative (tipo B2 di Prayon) presenta un curioso tetto a quattro falde, delle quali le due insistenti sui lati corti incurvate a ventaglio, con travatura irraggiante dalle estremità del columen dilatate a tale scopo in un disco. Il columen a sua volta è sopportato da due incastellature poggianti su un architrave sorretto dai muri laterali con l'aiuto, frequente, di una coppia di semplici pilastri rompitratta. Nelle redazioni a piccola scala gli architravi e i sostegni del columen possono essere omessi, e così anche le falde a ventaglio, pur restando presenti i dischi.
Il tetto in questione rappresenta una sopravvivenza di quello delle grandi capanne ovali villanoviane, difficilmente compatibile con la copertura di tegole. La sopravvivenza è esclusa nella realtà dalla testimonianza indiretta delle numerose urne cinerarie coeve a forma di casa, tutte con tetto a doppia falda, e dall'assenza nei citati complessi di Acquarossa e di Murlo di tegole e terrecotte per tetti a falde incurvate. Le tombe dei magnati ceriti perpetuano quindi un tipo di tetto ormai in disuso nell'edilizia civile, ma circondato ancora da grande prestigio (secondo Varrone a Roma i templi più antichi fiirono tutti modo testudinis facta: Serv., Aen., I, 505). Lo stesso va detto dei vestiboli a pianta circolare che nelle tombe più importanti sono giustapposti alla camera principale e coperti in piano da un soffitto a lacunari decorati. Sono ambienti dal forte contenuto simbolico, probabilmente collegato all'antichissima tradizione delle capanne circolari, ancora viva in ambienti periferici come Bologna e il Lazio.
Verso la fine del VII sec. si impone anche a livello funerario il modello della camera a vani affiancati (in genere tre) preceduti da un vestibolo trasversale o da un portico. Quest'ultimo nelle tombe diventa un grande vano talora a colonne interne, con capitelli eolici o dorici, arredato con scudi o mensole alle pareti, troni, sgabelli, ecc. Un bellissimo esempio ne è venuto recentemente alla luce alla Banditacela (Tomba Giuseppe Moretti, con sette camere affacciate sul vano di ingresso). La formalizzazione offerta dalle tombe assicura il carattere centrale e preminente del vano all'interno della casa, facendo riconoscere in esso la forma più antica di atrium, ancora priva di apertura nel tetto (con possibilità anzi di un secondo piano: Vitr., VI, 3, 2).
Nell'Etruria meridionale interna si sviluppano nella stessa epoca tipologie funerarie degne di nota. Già la camera principale della Tomba Cima di S. Giuliano, pur rientrando nella categoria delle tombe magnatizie ceriti a coppie di pilastri interni, presenta il soffitto piano a lacunari come nel vestibolo, che è a pianta quadrata. L'innovazione ha largo seguito nella regione, con redazioni a coppia unica di colonne doriche (Tomba di Valle Cappellana) o di pilastri sagomati a becco di civetta (tombe del CaioIo, Gabrielli, ecc.). L'esempio più notevole, purtroppo assai deteriorato, è la ruota di Grotta Porcina presso Blera (v.), tagliata sulla punta di una lingua tufacea risparmiando un ponte «sodo» per l'accesso alla calotta. In basso, sulla pendice, è stata ricavata un'area rettangolare a gradini attorno a un altare cilindrico dal tamburo scolpito con un fregio di animali, creando un luogo di culto gentilizio (cfr. la Cuccumella a Vulci).
A Tuscania ben presto per le tombe più ricche si abbandona il tumulo a favore di colossali «dadi» a forma di casa dal tetto a doppia falda, con interno a tre vani affiancati, dei quali il mediano funge da vestibolo agli altri due, come nell'ala principale del «palazzo» di Acquarossa. L'esempio più notevole, in località Pian di Mola, è preceduto da un portico tetrastilo fra ante, chiuso lateralmente e coperto a terrazza. Ricchissima è la decorazione a blocchi di nenfro riportati: oltre all'intero portico con le sue modanature, si hanno acroteri a disco e animalistici, distribuiti sul colmo del tetto. Il monumento può dare un'idea del fasto anche architettonico esibito dalle dimore dei principes etruschi.
A Tarquinia il panorama dei tumuli orientalizzanti, realizzati più o meno interamente in muratura, si è arricchito di alcune notevoli testimonianze che hanno in comune la sistemazione a piazzale dell'area di accesso per motivi di culto, in un caso con ampia gradinata (località Infernaccio: altri esempi in località Poggio Gallinaro e sulla vetta di Poggio del Forno). La falsa volta delle camere può essere sorretta da pilastri a spigoli smussati, come nella Tomba Avvolta.
Anche nell'Etruria settentrionale, con l'eccezione di Chiusi, le tombe a tumulo sono di regola costruite senza riferimenti alla casa. Vanno distinte tre zone. Nel versante interno della regione prevalgono le camere a pianta rettangolare del tipo a teca di lastroni, con tramezzo o pali per sostenere la copertura (Saturnia, Asciano, Castelnuovo Berardenga, Comeana), talora esibenti il filare in chiave messo in opera coi forfices (Cortona). Sulla fascia costiera invece la pianta è circolare con copertura a falsa cupola (thòlos), spesso con pilastro centrale (Casaglia, Casal Marittimo), il che si verifica anche nella media valle dell'Arno (Comeana, Quinto Fiorentino), sul modello delle tombe populoniesi di età villanoviana. Recentissima (1990) è la scoperta, all'esterno del già noto Melone II del Sodo a Cortona, di un monumentale podio gradinato, tra ante scolpite con una sfinge divorante un guerriero che la trafigge con la spada.
3. L'apogeo urbano tra vi e v sec. a.c. - a) Gli abitati. - Nel corso del VI sec. a.C. matura in Etruria una pratica, se non una dottrina, urbanistica, che esprime le esigenze di comunità cittadine in via di compiuta strutturazione. Si vuole che la città sia ordinata, con vie incrociantisi ad angolo retto e case riunite in isolati, di aspetto possibilmente omogeneo, servite da complesse opere di drenaggio. Il maggiore impegno architettonico è assorbito dall'edilizia pubblica: residenze ufficiali di re o magistrati e soprattutto templi che ogni città erige al suo interno o nel suburbio, senza contare i grandi santuari extraurbani che assolvono a nuove funzioni nei confronti del territorio e soprattutto del mondo esterno. Ed è l'edilizia pubblica che monopolizza ormai l'impiego delle terrecotte architettoniche decorate, concedendo uno spazio crescente alla rappresentazione del mito greco.
Le occasioni di applicare principi di urbanistica regolare sono offerte dalla fondazione di nuovi insediamenti che si verifica sia nell'Etruria propria che in quella «coloniale», anche in relazione con la ristrutturazione del territorio che vede il declino, o l'abbandono violento, di molte delle piccole e medie città fiorite nella fase precedente (Acquarossa, Murlo, Tuscania, ecc.). Le città marittime danno forma urbana alle loro dipendenze portuali: oltre al già ricordato caso di Pyrgi, forse più antico e comunque ancora in attesa di essere indagato, si segnala quello del porto di Vulci, Regae, dove scavi recenti hanno messo in luce strade con marciapiedi e case che, partendo dal tipo «largo», hanno assunto uno sviluppo longitudinale, grazie all'atrio ad alae con gli ambienti circostanti, evocante le case pompeiane. Che già dalla metà del VI sec. fosse questo il tipo di casa signorile è confermato dalle scoperte recentissime avvenute a Roma sulle pendici del Palatino verso il Foro. La più varia testimonianza resta però quella offerta da Marzabotto, la città progettata ex novo all'inizio del V sec. nella valle del Reno su un preesistente impianto di tipo capannicolo. Le case di Marzabotto mostrano che era ormai generale l'apertura completa, verso l'atrio, del vano centrale di fondo, assimilabile pertanto al tablinum della casa romana. L'atrio inoltre, a giudicare dalla cisterna e dalle canalizzazioni, tende ormai a trasformarsi in un cortile, sul quale gravita l'intera casa, realizzato nella forma dell’atrium tuscanicum, cioè a tetto compluviato con falde interamente a sbalzo rivestite sulle linee di compluvio da tegole speciali. Gli isolati comprendono un numero variabile di case, a seconda delle dimensioni e della collocazione, che può essere anche in doppia schiera; di media occupano da 600 a 800 m2. Angusti canali di scolo a cielo aperto separano le singole case, confluendo nei canali che seguono l'andamento delle strade. La larghezza di queste ultime è di 5 m; quella delle quattro arterie principali è di 15, per l'aggiunta di spaziosi marciapiedi.
Impianto regolare avevano anche gli altri abitati fondati tra la fine del VI e il V sec. nella Valle Padana, da Spina, della quale si è messo in luce un «quartiere» nella valle di Mezzano, al Forcello di Bagnolo S. Vito presso Mantova. In entrambi i siti la tecnica edilizia era basata sull'uso del legno e dell’opus craticium, con esclusione della pietra e dei mattoni crudi, normali invece a Marzabotto. A Spina inoltre le strade erano spesso sostituite da canali, come sappiamo da Strabone essere stata la norma per Ravenna. In Campania, il primo impianto di Pompei, con la cerchia delle mura in «pappamonte» e la piazza centrale con il Santuario di Apollo, si data secondo gli orientamenti più recenti nella prima metà del VI sec. e sarebbe dovuto a un precoce apporto etrusco. Dopo il 470 la città viene ristrutturata con nuove mura a blocchi di calcare, forse contestualmente al piano urbanistico della Neustadt, realizzato comunque solo in età sannitica. Uguale sviluppo è stato supposto per Capua.
Nell'Etruria propria appare notevole la testimonianza di Cerveteri dove l'area del c.d. Tempio di Hera, nella parte centrale della città, viene trasformata verso il 480-470 a.C. costruendo, sopra le case demolite e le contigue cisterne colmate, un grande tempio di tipo tuscanico peraltro mal conservato. La piazza antistante accoglie una struttura ad anello ovale lungo almeno 35 m, nella quale si è proposto di riconoscere un luogo per spettacoli e assemblee, paragonabile agli ekklesiastèria greci (Colonna).
Per quanto riguarda i templi, che divengono rapidamente il tema sul quale si concentra il massimo sforzo architettonico della città, si assiste nel VI sec. alla «invenzione» del tempio che Vitruvio (e forse già Varrone) definisce tuscanico. Si tende oggi a pensare che tale invenzione sia avvenuta nella Roma dei Tarquinii, che ne ha lasciato le più antiche e, con il Tempio di Giove Capitolino, la più grandiosa e complessa testimonianza. Il tipo trae ispirazione dalle case «larghe» a tre vani affiancati, del quale sviluppa il vano o portico antistante in un pronao a colonne interne, profondo come e più che nelle tombe ceriti ispirate al medesimo modello, così che l'edificio assume una pianta quadrata o quasi quadrata. Gli esempi più antichi in Etruria sono il Tempio di Portonaccio a Veio, il tempio C di Marzabotto, il Tempio del Belvedere a Orvieto, il tempio di Cerveteri sopra ricordato e il tempio A di Pyrgi, cui ora si raggiunge il tempio suburbano di Vulci in località Legnisina. Isolato è invece il tempio Β di Pyrgi, a cella unica e peristasi esterna, richiamante un tipo di tempio attestato a Satricum, Minturno e Pompei, ossia in un'area tipicamente costiera che vede la propagazione dalla Campania verso l'Etruria anche di un nuovo «stile» di terrecotte architettoniche, diverso perfino nella tecnica: la II fase di Della Seta e Andrén, presente in Etruria per la prima volta appunto col tempio Β di Pyrgi e col Tempio di Portonaccio a Veio. Già in questi edifici è normale che le colonne siano di pietra, così come i capitelli, e che le pareti siano intonacate e dipinte.
Assai interessante è anche la tipologia e l'ornato degli altari monumentali, dei quali abbiamo esempi a Vignanello, Pieve a Sòcana e Marzabotto.
b) Le tombe. - L'universo funerario etrusco accusa nel VI sec. evidenti ripercussioni delle esperienze in atto nelle aree urbane. La tipologia esterna delle tombe di area cerite abbandona il tumulo a partire dal secondo quarto del secolo, sostituendolo con il «dado», una struttura a pianta quadrangolare, con pareti sviluppate in altezza, porta affacciata sulla strada e camera a livello, o quasi. Un ricordo del tumulo sopravvive nelle cornici, che spesso profilano la sommità delle pareti, e nel rialzo di terra che sovrasta la struttura, accessibile con una scala laterale. La vaga assimilazione alla casa, suggerita da esterni così conformati, è rinforzata dalla loro disposizione, di norma, in blocchi di più unità ai lati di strade rettilinee, tracciate allo scopo di dare assetto urbanistico alle «città dei morti». A Cerveteri tali interventi sono sempre parziali e come di ricucitura di situazioni preesistenti, sia alla Banditacela che al Sorbo. A Orvieto invece, con più libertà progettuale, vengono pianificati interi sepolcreti, al Crocifìsso del Tufo e alla Cannicella, il primo con le strade maggiori nel senso del pendio, il secondo su terrazze parallele. L'uniformità delle facciate e la pressoché costante segnalazione epigrafica del titolare della tomba denunciano chiaramente una normativa emanante dall'autorità cittadina.
Anche nel viterbese la tomba a dado incontra larga accoglienza, convertita in architettura rupestre, cioè scolpita sui cigli tufacei dei quali la regione abbonda, come nel caso delle tombe tuscaniesi a forma di casa già ricordate. Il coronamento di terra è sostituito da un podio modanato, occupato da cippi. Prende così l'avvio una tradizione di tombe a facciata rupestre in cui il motivo della porta incorniciata assume un valore simbolico, di pari passo con la collocazione a quota sempre più profonda della camera di deposizione. Nel caso di una tomba di Castro il podio assume l'aspetto di un altare monumentale con colossali protomi di leone e di ariete in posizione angolare, come in una poco nota serie di cippi o altari orvietani e sovanesi. Mentre a Tarquinia la tradizione dei tumuli caoticamente accostati sul pianoro dei Montarozzi non accenna a venir meno tra il VI e il V sec., a Populonia si osserva la loro sostituzione con tombe a forma di edicola, con ingresso su un lato corto e tetto a due falde completato da acroteri di pietra e talora anche da terrecotte architettoniche, in particolare antefisse.
Gli interni delle tombe tendono in generale ad assumere in quest'epoca forme convenzionali e stereotipe, via via più lontane dalla realtà architettonica della casa. A Cerveteri il tipo a tre camere di fondo precedute da un vestibolo trasversale vede le camere ridursi a due e più tardi a una sola, finché non si afferma col V sec. la camera unica con uno o due sostegni assiali e banchina continua al posto dei letti. Le porte interne sono spesso comprese tra una coppia di finestre, inquadrate le une e le altre da cornici di tipo dorico con proiecturae incurvate in basso a cavetto, ispirate forse ai capitelli dorici di anta. Non mancano però tombe di pianta complessa, come quella della Ripa, in cui è riprodotto il tablino della casa con un vestibolo alludente all'ala di fondo dell'atrio, secondo uno schema a Τ che avrà fortuna a Vulci nel IV sec. (Tomba François).
A Tarquinia e nei centri dell'interno si incontrano tombe con vestibolo quadrato sul quale si affacciano tre camere disposte in croce (pianta ripresa nel IV sec. dalla Tomba degli Scudi). Di Vulci e del suo entroterra (Grotte di Castro) sono invece caratteristiche le tombe con «atrio» sviluppato in lunghezza, sul quale affacciano lateralmente coppie di camere (pianta ripresa nel IV-III sec. dalla Tomba Torlonia di Cerveteri e dalla Tomba dei Volumnii). A Chiusi si prediligono interni di tipo cruciforme con vestibolo trasversale e soffitti piani con grandi e ben caratterizzati cassettoni (Tomba della Scimmia e altre).
Anche l'apparato pittorico delle tombe tarquiniesi fornisce utili informazioni sugli interni delle case, specie per i frontoni aperti col sostegno modanato del columen in grande evidenza; nonché sulle tende o edicole provvisorie costruite in occasione delle esequie (tombe delle Leonesse, del Padiglione di caccia, del Letto Funebre, della Pulcella).
4. La città tardo-etrusca. - a) Gli abitati. - Tra il V e il IV sec. anche le città che ne erano fino ad allora sprovviste si cingono di mura a sviluppo continuo (con la comprensibile eccezione di Orvieto). Le cerchie più lunghe e tatticamente complesse arrivano a 7-8 km (Tarquinia, Volterra). Costruite in un'opera quadrata che spesso nell'Etruria settentrionale non è isodoma, eccezionalmente in mattoni crudi (Arezzo), presentano bastioni e salienti ma non torri, se non nel caso di Populonia (solo su un limitato settore) e soprattutto di Falerii Novi. Frequente è nell'Etruria meridionale l'aggiunta nei tratti più esposti di aggeri e specialmente fossati, secondo una consolidata tradizione. Rara è invece la struttura a doppia cortina con concamerazioni interne (la Civita di Bolsena e un tratto delle mura della stessa Bolsena), dipendente da esperienze magno-greche.
Le porte urbiche sono generalmente di apparecchio modesto, ma talora si è in presenza di una spiccata monumentalizzazione con strutture ad arco adorno, secondo un uso tipicamente etrusco, di busti e teste di divinità protettrici (Volterra, Perugia, Falerii Novi). A Perugia le porte sono inserite in una facciata a due piani, il superiore a finto loggiato con altre figure di divinità (Porta Marzia) o ad arco cieco inquadrato da lesene ioniche (Arco d'Augusto).
Urbanistica regolare hanno tutti gli insediamenti di nuova fondazione. I più notevoli sono Bolsena (post 264 a.C.), Falerii Novi (post 241 a.C.) e Fèrento (III sec. a.C.), ossia le città nate a seguito di diretti e traumatici interventi di Roma nell'Etruria tiberina. Ma già di impianto regolare sono i centri nati per iniziativa di Tarquinia nell'Etruria interna nel tardo IV sec., come Musarna, attualmente in corso di scavo da parte dell'École Française: attorno a un unico asse N-S, largo m 6,70, si attestano dodici insulae, separate da assi viari larghi c.a m 4. La funzione di piazza è assolta da un allargamento laterale dell'asse N-S, che per c.a 80 m diviene largo m 18. Su tale slargo affaccia un edificio pubblico, trasformato nel tardo lI-inizio I sec. a.C. in bagno con pavimento a mosaico recante in etrusco i nomi dei due personaggi responsabili della ristrutturazione, esponenti dell'aristocrazia locale (probabilmente magistrati).
Di impianto apparentemente regolare sono anche altri insediamenti minori vissuti tra il IV e il III sec. a.C., come Ghiaccio Forte nella valle dell'Albegna, di cui conosciamo soprattutto le mura con basamento di pietrame e le rituali tre porte, e la Civita di Bolsena, con le sue case disposte su due terrazze composte da due o tre grandi ambienti a sviluppo trasversale. Nel bolognese il sito di altura di Monte Bibele, in corso di scavo, abitato da una popolazione mista etrusco-gallica, presenta una decina di terrazze con schiere di piccole case mono-vano, con muri di pietrame e tetti coperti di strame (o di scandulae).
Nel complesso conosciamo abbastanza poco le case etrusche di età recente, specialmente quelle del ceto medio-alto. Le sontuose case ad atrio messe in luce a Bolsena, Vulci e Roselle non sono anteriori al II sec. a.C. e vanno considerate nel più vasto quadro della edilizia tardo-repubblicana, assieme a quelle, peraltro più modeste, di colonie quali Cosa (post 273 a.C.). L'architettura funeraria tardo-etrusca è meno illuminante nei confronti della casa di quanto non lo sia per le manifestazioni più antiche, sia perché le allusioni realistiche sono sempre più rare sia perché occorre tener conto della conservatività di certe tipologie, come già si è accennato. Un bellissimo esempio di atrium displuviatum a quattro spioventi (Vitr., VI, 3, 2) è restituito dalla camera superiore della Tomba della Mercareccia a Tarquinia (IV sec. a.C.), mentre la Tomba dei Volumnii a Perugia riproduce ancora verso il 220 a.C. il tipo della casa ad atrio longitudinale a due spioventi con alae e tablinum. Grandi lacunari quadrati con sculture sono noti sia da questa tomba che da altre più antiche di Vulci e di Sovana, così come sopravvivono sporadicamente, ridotti quasi a motivo ornamentale, i mensoloni a sostegno del columen (Tomba dei Tute a Vulci, la ceretana Tomba Torlonia, Tomba dei Volumnii). D'altra parte una precoce conoscenza degli apparati pittorici parietali di «I stile» è rivelata nella seconda metà del IV sec. dalla cella di fondo della Tomba François di Vulci.
Le maggiori realizzazioni dell'architettura urbana risiedono, come nell'età precedente, nei templi, ai quali qui si accenna soltanto (v. tempio). Al IV sec. si datano i grandi templi poliadici di Tarquinia (Ara della Regina) e di Vulci, entrambi su alto podio; il tempio non meno monumentale in località Celle nel suburbio di Falerii; il tempio dello Scasato pure a Falerii, del quale sono state ricostruite due colonne; il tempio di Talamone, che più tardi accoglierà il celebre frontone fittile di tipo «chiuso». Al III sec. risalgono il piccolo tempio di Fiesole, conservante parte dell'alzato di tipo tuscanico a cella unica tra alae, e il maggiore dei due templi dell'acropoli di Volterra, mentre nel II sec. fu realizzato lo scenografico complesso di Castelsecco presso Arezzo, unico in Etruria per l'ispirazione ai santuari laziali tardo-repubblicani: la grandiosa sostruzione a contrafforti era sovrastata da un edificio teatrale e questo dal podio del tempio, ancora non esplorato. Le colonne dei templi, costantemente di pietra mentre gli architravi e i tetti restano di legno, conservano il fusto liscio anche quando, come a Tarquinia, hanno basi e capitelli di tipo ionico-italico. I caratteristici capitelli figurati a protomi umane sorgenti da cespi di acanto tra volute, propri della cultura di koinè etrusco-italica, sono finora noti in Etruria solo nell'architettura tombale (Tomba Campanari e altre di Vulci, tombe Pola e Ildebranda di Sovana, tomba inedita di Cerveteri).
Santuari a recinto porticato, con o senza tempietto all'interno, confrontabili con analoghe esperienze di area latino-italica e greco-provinciale (Dodona), sono noti in Etruria a Bolsena (Pozzarello) e sui monti della Tolfa (Grasceta dei Cavallari).
b) Le tombe. - Tra i molti aspetti dell'architettura funeraria tardo-etrusca ci si limiterà per ragioni di spazio a ricordare quelli che appaiono come i più originali. In generale si osserva la tendenza a rivalutare l'importanza degli apprestamenti esterni, che arriva fino alla riapparizione isolata dei tumuli (Tomba Torlonia a Cerveteri, «Tanelle» di Cortona). Più spesso di quel che comunemente non si creda le tombe dell'aristocrazia erano segnalate da dadi o edicole arricchite da sculture, di norma interamente costruite e per questo motivo giunte a noi allo stato di membra disiecta. A Cerveteri si conoscono i resti dell'edicola esistente sulla Tomba dei Sarcofagi e soprattutto il dado «doppio» della monumentale tomba recentemente scoperta in località Greppe S. Angelo, con corte anteriore, facciata adorna di finte porte, fregi e statue, camera sinistra coperta da una enorme volta a botte in conci di tufo a doppia armilla: l'ispirazione alle tombe ellenistiche macedoni pare evidente. A Tarquinia e Vulci abbiamo resti di edicole con frontoni scolpiti del tipo chiuso, mentre a Tuscania e Musarna sono attestate strutture costruite a dado.
Altrove nell'Etruria interna, e specialmente a Norchia, Castel d'Asso e Sovana, si dispiega l'assai più conservata e meglio nota categoria delle tombe a facciata rupestre, per lo più a dado, già elaborata in età tardo-arcaica. Un tratto caratteristico è ora, oltre all'accurata intonacatura dipinta, la facciata a due piani, l'inferiore consistente in un vestibolo coperto con fìnta porta e banchine, atto alla sosta e al culto. Tale vestibolo, noto anche a Tarquinia in tombe come quelle dei Caronti e del Fondo Scataglini, assume spesso a Norchia e Castel d'Asso la forma di un portico a colonne tuscaniche, coperto con tetto a falda unica scolpita con tegole, spesso a due ali evocanti un atrio di tipo corinzio. Apprestamenti analoghi si incontrano a Civita Castellana, mentre nelle più tarde tombe rupestri di Falerii Novi il portico consta di tre arcate separate da pilastri lisci.
Anche il tipo di tomba a edicola trova fortuna nell'Etruria interna, dove la tecnica rupestre consente la realizzazione di progetti assai ambiziosi, che si pongono tra le più originali creazioni di architettura ellenistica in Italia. A Norchia le due tombe gemelle a tempio mostrano un fregio dorico con metope a testa femminile, gèison a dentelli e colonne tuscaniche, oltre che frontoni scolpiti di tipo chiuso, mentre il prospetto della Tomba Lattanzi consta di un portico a due piani, il superiore arretrato e cieco, separati da un fregio continuo di grifi e rosoni. Ancora più monumentali sono alcune tombe di Sovana, veri e propri mausolei, come le tombe Pola e Ildebranda, a facciata su alto podio con otto o sei colonne scanalate, dotate di alte basi a rocchetto e capitelli figurati. L'Ildebranda imita nella pianta un tempio perípteros sine postico con brevi alae sul fondo. Si è accertato che al di sopra del fregio, in cui si alternano una Rankengöttin e coppie di grifi, si innalzavano bassi frontoni, a quanto pare sulle tre fronti, con cornice a dentelli e girali vegetali nel campo: soluzione che ricorda la c.d. Ara Guglielmi. Le tombe a edicola vera e propria annoverano, oltre alle già note tombe del Tifone e della Sirena, la Tomba del Sileno, a forma di tempietto circolare pseudo-periptero, con tetto conico e antefisse a testa di sileno.
Nella strutturazione degli interni delle tombe tardo-etrusche convivono la tendenza alla semplificazione, in parte compensata dalla introduzione dei sarcofagi e delle urne con il loro apparato decorativo, e quella dell'imitazione di modelli illustri del passato, cui già si è fatto cenno. Un'altra tendenza è verso la concezione della camera come heròon del fondatore, percepibile nell'edicola sul fondo della camera inferiore della Tomba della Mercareccia e nelle «alcove» delle tombe ceretane (Torlonia, Alcova, Rilievi). Unica è la struttura decorativa della Tomba delle Cariatidi a Luni sul Mignone, con zoccolo, lesene, cornice a dentelli e sovrapposte mensole a grandi protomi femminili. Le camere crescono di dimensioni mostrando di essere predisposte ad accogliere, contro la norma precedentemente in auge, i defunti di più generazioni esaltando la continuità dei gruppi gentilizi. A Cerveteri e nell'agro falisco si arricchiscono di pilastri interni e di loculi parietali, a Tarquinia di gradoni perimetrali a mo' di cavea per l'appoggio dei sarcofagi. Nell'Etruria rupestre le camere assumono presto uno sviluppo longitudinale prolungabile a seconda dei bisogni, previa la rinuncia a ogni decoro interno, con le inumazioni per lo più in fosse scavate a spina di pesce ai lati del passaggio centrale. A Volterra le tombe più notevoli hanno la camera a pianta circolare con pilastro, mentre a Chiusi e Perugia è frequente, dal tardo IlI-inizio II sec., il tipo di camera coperta con volta a botte costruita, secondo il modello attestato in età alto-ellenistica a Cerveteri, nella citata tomba in località Greppe S. Angelo, e a Orvieto. La fortuna di questo tipo architettonico, che a Cortona è ripreso dalle pseudovolte delle Tanelle, è probabilmente legata all'evocazione dell'Ade suggerita dalla volta arcuata e dalla nudità delle pareti.
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Arti visive. - L'età dello stile geometrico (ιx-viii sec. a.c.) - a) Il Villanoviano antico. - Per tutta la durata della protostoria, dal Bronzo Finale alla prima Età del Ferro (XII-VIII sec.a.C.), le manifestazioni artistiche dell'Italia definibile a posteriori come etrusca, dal bolognese al salernitano, appaiono sostanzialmente circoscritte alla «decorazione» di oggetti d'uso, quale che sia la loro destinazione (vasellame, utensili, armi, ornamenti personali, ecc.). In assenza di una scultura in pietra, quale invece s'incontra sul Gargano e forse nella Sardegna nuragica, le tombe villanoviane a pozzetto sono segnalate da stele e lastre grezze (in un caso a Bologna con l'immagine incisa di una capanna) o da cippi a forma di tetto di capanna e di scudo (a Veio, Tarquinia, Bisenzio, Vetulonia, Chiusi e nell'agro falisco): attributi alludenti all'appartenenza del defunto alla categoria dei domini e dei portatori di armi.
L'aniconicità imperante è mitigata da sporadiche apparizioni di piccola plastica, per lo più applicate al coperchio, all'orlo o all'ansa di vasi. Sono figurette di animali, di coppie umane variamente atteggiate (Pontecagnano, Tarquinia, Chiusi), di piangenti (Bisenzio), prive di una specifica connotazione stilistica e genericamente avvicinabili alla coeva produzione laziale e di altri comparti culturali dell'Italia centro-meridionale. Eccezionalmente è lo stesso vaso ad assumere la forma di un animale (askòi a figura di bovide o di uccello, carretti a figura di uccello), arrivando a risultati anche di notevole coerenza formale (come nel caso di un askòs tauriforme con ansa a figura di cavaliere armato, da Bologna, di pieno VIII sec.).
Ispirata a un rigoroso geometrismo è la decorazione a disegno, inciso o, nei bronzi, sbalzato, della superficie di vasi e suppellettili, nella quale risiede la più evidente caratteristica dell'artigianato sia protovillanoviano che villanoviano. Occorre in proposito distinguere, più di quanto generalmente non si faccia, due diverse e parallele tradizioni, quasi prive di interferenze reciproche, l'una attiva nell'ambito della toreutica, l'altra in quello della ceramica. In questi due ambiti operano figure diverse di artigiani: professionisti da lungo tempo i primi, in possesso di un sofisticato sapere tecnologico e, per la necessità di provvedersi di materie prime, ancora in qualche misura itineranti o comunque partecipi di flussi di scambio anche interregionali; stanziali gli altri, forse pervenuti all'impegno a tempo pieno solo con la prima Età del Ferro e comunque rimasti sempre collegati al mondo dell'oboi e del lavoro femminile.
La tradizione geometrica dei metallurghi ha il suo punto di partenza nello stile «a punti e borchie» della cultura centro-europea dei Campi d'Urne, introdotto nell'Italia centrale fin dal XIII-XII sec. a.C. Il suo rilancio avviene a partire dalla fine del IX sec., quando lo sviluppo socioeconomico delle comunità villanoviane determina una crescente richiesta di beni di lusso, e quindi in primo luogo di prodotti della toreutica (e secondariamente dell'oreficeria). Funzionale a tale richiesta è l'incremento degli oggetti di bronzo laminato: un repertorio abbastanza limitato di motivi - tra i quali predominano le «borchie», in un'ampia varietà di grandezze, gli uccelli d'acqua e la barca solare - è organizzato in fregi continui o metopali che tendono a coprire l'intera superficie dei manufatti, esaltandone accortamente la tettonica. Tra i prodotti più raffinati di questa fioritura, che si prolunga ben addentro nel successivo periodo orientalizzante, si annoverano i bronzi decorati a incisione, come i cinturoni a losanga delle donne, che raggiungono vertici di perfezione artigianale (p.es. l'esemplare della Tomba Benacci 543 di Bologna). Notevoli pure i foderi di spada e i rasoi, nel cui decoro geometrico si insinuano, forse per apporto enotrio, spunti narrativi (soprattutto scene di caccia), resi con un'elementare stilizzazione filiforme.
L'artigianato ceramico affonda anch'esso le sue radici nel patrimonio formale del Bronzo Finale, ma se ne distacca più precocemente e con maggiore nettezza. Partendo dallo stile protovillanoviano basato sui fasci di solcature e sulle cuppelle, che aveva attinto la più compiuta espressione con la facies di Allumiere, si arriva presto, anche grazie all'introduzione della stecca a «pettine», a uno stile che lasciava ben più ampi margini all'iniziativa e alla creatività del vasaio, come appare dalla pressoché inesauribile varietà di motivi angolari, meandri retti e obliqui, croci gammate, zig-zag diramati, pannelli metopali, ecc. Si può dire che sia questa la manifestazione artistica peculiare, a partire dall'inizio del IX sec., dell'area villanoviana in tutta l'estensione da essa raggiunta, da Bologna a Verucchio e a Fermo, dall'Arno alla foce del Tevere, da Pontecagnano a Sala Consilina. Uno stile geometrico inconfondibile, squisitamente «italiano», a differenza di quello adottato dai bronzieri, in probabile relazione con l'arte tessile, come è suggerito dalla spaziatura della decorazione, che rispetto allo spazio disponibile è sempre parziale, dal gusto per le cimose e i riquadri isolati, dalla bicromia ottenuta anche col riporto di lamelle di metallo «bianco» sul fondo nero dell'impasto, dall'occasionale ripresa, infine, di motivi di remota ascendenza, propri della media Età del Bronzo (cultura appenninica). Le scoperte avvenute nel villaggio del Gran Carro sulla riva orientale del lago di Bolsena hanno definitivamente confermato che questo stile ceramico non era riservato ai vasi utilizzati nel rituale funerario, ma, alla pari di questi, aveva una distribuzione praticamente indifferenziata.
b) Il Villanoviano Recente. - Nel corso dell'VIII sec. è proprio l'ambito, sentito come antiquato, della decorazione ceramica a offrire spazio per un radicale rinnovamento. Già nella prima metà del secolo diviene frequente la rinuncia alla decorazione dei vasi biconici, cui sporadicamente si affianca la realizzazione in pittura rossa su fondo imbiancato del tradizionale repertorio villanoviano (p.es. a Veio, località Valle La Fata). Contemporaneamente si fanno strada le prime importazioni di vasi di argilla figulina dipinti, sia dall'area enotria dell'Italia meridionale (per mediazione di Sala Consilina e di Pontecagnano) che dalla Grecia o dagli stanziamenti greci del golfo di Napoli. La frequentazione euboica del basso e medio Tirreno, iniziata sullo scorcio del IX sec. e culminata con la fondazione prima dell'emporio di Pithecusa e poi della pòlis di Cuma, tra il 770 e il 740 a.C., offre al mondo villanoviano il modello di una ceramica geometrica tecnicamente superiore, sia per la lavorazione al tornio che per le potenzialità insite nell'apparato decorativo, includenti con larghezza spunti figurativi. Dopo le prime, isolate importazioni o imitazioni di modeste coppe a chevrons, e a metope o semicerchi pendenti, medio- e tardo- geometriche, comuni anche ad altri contesti indigeni con consistenti agglomerati demici (Roma, Capua), l'Etruria meridionale attira verso di sé un afflusso di ceramisti euboici, che danno vita a una produzione di notevole e, fino a pochi anni fa, insospettato livello, evidentemente al servizio delle nascenti aristocrazie che sono le principali responsabili della svolta culturale in atto.
Grazie ai progressi compiuti negli ultimi anni possiamo distinguere una fase iniziale (750-730 a.C.), che ha dato la nota idria di Tarquinia, località Poggio Selciatello, e i sostegni fincstrati da Roma e Veio (prodotti certamente nel secondo centro), e una fase matura (730-700 a.C.), da ambientare a Vulci, che ha la prima manifestazione di spicco nel raffinato cratere di Pescia Romana, forse troppo fiduciosamente in passato attribuito al Pittore di Cesnola, dal quale si può dire comunque ispirato. Il Pittore del Cratere di Pescia Romana e il Pittore Argivo - così battezzato per le forti venature dialettali che ne arricchiscono il repertorio, peraltro ben ancorato alla tradizione euboica - sono le personalità emergenti di un artigianato in piena espansione (bottega dei Primi Crateri, del Biconico di Vulci, del Cratere Ticinese), che intorno al 700 a.C. trova a Cerveteri una limitata ripresa in chiave più specificamente pitecusana (bottega del Cratere Ludwig).
Dall'epicentro vulcente trae origine e stimolo la non meno copiosa produzione di Bisenzio da tempo nota, che oggi siamo in grado di valutare più correttamente come un episodio provinciale, anche sul piano tecnologico (uso dell'impasto e quindi della pittura in rosso su bianco), forse a sua volta collegato, per le vie interne alla penisola, alle ancor più impoverite manifestazioni di Capua. Il quadro così ricostruito consente di collocare in una più giusta luce anche la c.d. Metopengattung: produzione minore anche se quantitativamente rilevante, iniziata a Vulci dalle stesse botteghe responsabili delle creazioni di maggiore impegno, e poi diffusasi anche a Tarquinia (Tomba del Guerriero), perdurando fin verso la metà del VII secolo.
Non si sono registrate in questi ultimi decenni acquisizioni di pari importanza nel settore della plastica bronzea, ma è indubbio che anche per essa sia possibile oggi un giudizio storicamente meglio motivato. La localizzazione a Vulci e a Bisenzio delle manifestazioni compositivamente più elaborate, a cominciare dal noto carrello e dalla situla con le due teorie di figure umane ruotanti intorno a un grosso animale incatenato, non può essere casuale, data anche la coincidenza cronologica con le citate esperienze ceramografiche. Messa da parte l'etichetta di folcloristico, non pertinente per creazioni non meno sofisticate di quelle della pittura vascolare e probabilmente più significanti sul piano concettuale, investendo la sfera del culto, è lecito riconoscere in esse un'eco formale del geometrico greco (di area cretese oltre che euboica ?), mediata dagli stessi ceramisti immigrati a Vulci. Ad ambito genericamente greco è del resto riconducibile con sufficiente evidenza la matrice stilistica delle figurette fuse di cavalli, inserite nei morsi equini ora frequentemente deposti nelle tombe «ricche», così come delle figurette di cavalieri arrampicati sulle gambe dei tipici tripodi vetuloniesi, invero recenziori.
L'importanza storica dell'ampliamento di orizzonti, introdotto nell'operato dei metallurghi dal contatto con gli ambienti artigianali dei centri più evoluti dell'Etruria meridionale, si misura dalla rapida propagazione di tipologie e di soluzioni formali nella direzione di altre aree culturali, sia dell'Italia (a cominciare dalla Campania, come provano i bronzi esuberanti di Capua, Suessula e Lucera, ma anche del Piceno), sia del Nord continentale. Si può dire che tutta la piccola plastica bronzea della cultura di Hallstatt, a cominciare dal carrello di Strettweg, tragga origine da tali insegnamenti. Il che trova conferma nella traduzione metallica di forme vascolari etrusco-geometriche che si registra nella stessa epoca in quei domini culturali, con un fenomeno inverso a quello che in un lontano passato aveva portato in Italia lo stile danubiano «a punti e borchie».
2. L'esperienza orientalizzante (fine viii-inizio vi sec. a.c.). - I decenni che videro la massima fioritura dei ceramografi etrusco-geometrici sono in realtà un'epoca di transizione. In pieno parallelo con quello che accade nel mondo greco uno spazio via via crescente è occupato nella produzione artistica da tematiche, iconografie, stilemi e tecniche provenienti dal Mediterraneo orientale e in genere dal Vicino Oriente. Alla base di tale imponente fenomeno storico è una nuova ondata espansiva fenicia e levantina (dopo quella dei pionieri di X e IX sec. a.C.), che tocca estesi settori delle coste mediterranee, da Rodi alle isole egee e alla terraferma greca, dall'Italia tirrenica alla Sardegna e alla penisola iberica, provocata in larga misura dal nuovo tipo di relazioni che le città portuali del Levante instaurano nei confronti dell'impero assiro, nei decenni che vanno da Tiglatpileser III a Esharaddon (c.a. 740-670 a.C.). Gli apporti vicino-orientali non sostituiscono ma si affiancano a quelli che continuano impetuosamente ad affluire dal mondo greco, anch'esso in vivace fermento e assai interessato all'Occidente, come risulta dall'intensità della diaspora coloniale che negli stessi anni si riversa sulle coste dell'Italia meridionale e della Sicilia.
A tale duplicità di modelli di riferimento, che permea l'intera esperienza orientalizzante d'Etruria, si aggiunge la conservazione, che non è l'eccezione ma la regola, di tipi e forme locali. Il che significa, in termini stilistici, conservazione della tradizione geometrica in entrambi gli aspetti presenti nell'VIII sec., e specialmente in quello di impronta greca ben acclimatato nella ceramografia e nella piccola plastica bronzea. Si può dire che solo nell'Orientalizzante Recente - segnalato dall'apparire verso il 630 a.C. della ceramica etrusco-corinzia - si raggiunga una sorta di omogeneizzazione stilistica, pur ricca di venature e di accenti vernacolari: espressione, sul piano artistico, della civiltà urbana divenuta, almeno nell'Etruria costiera, un'operante realtà.
Nell'Orientalizzante Antico e Medio - segnalato quest'ultimo dalla generale affermazione del bucchero sottile intorno al 670 a.C. - l'eccezionale congiuntura economica goduta dalle comunità meridionali viene gestita dalle sempre più invadenti aristocrazie, che investono il surplus disponibile in manifestazioni vistose di lusso e di magnificenza, funzionali alle proprie esigenze di autocelebrazione.
Come modello indiscusso per i beni suntuari e per lo stile di vita a essi sotteso si guarda al Vicino Oriente. Accanto alle non frequenti importazioni s'incontrano oreficerie, lavori di intaglio (su avorio, ambra, gemme), nuovi tipi di toreutica (calderoni, tripodi, ecc.), ceramiche (bucchero sottile), opera di artigiani immigrati o, assai più spesso, di loro apprendisti e imitatori. È un artigianato specializzato, i cui prodotti non conoscono frontiere, collegati come sono a circuiti «internazionali» di scambio, attivati a livello aristocratico dalla Campania (Pontecagnano, Cuma) al Lazio (Palestrina, Satricum, ora anche Rocca di Papa), dall'Etruria al Piceno (Fabriano, Pitino di S. Severino) e alla periferia padano-adriatica (Verucchio, Bologna). Tra le scoperte più recenti spiccano quelle avvenute nell'Etruria settentrionale (specialmente gli avori di S. Casciano, Comeana, Artimino, Quinto Fiorentino) e a Verucchio (mobili in legno riccamente intagliati). Proprio di tale artigianato è uno stile che è stato detto fenicizzante, prevalentemente animalistico, che introduce nelle arti visive d'Etruria il principio di una consolidata figuratività, organizzata in nitide sequenze di fregi sovrapposti. Bene esemplificato a Cerveteri dai bronzi e dalle oreficerie della Tomba Regolini-Galassi, dalla pittura parietale delle grandi tombe medio-orientalizzanti e dalla ceramica d'impasto dipinta in «bianco su rosso» che ne dipende, lo stile risulta pienamente formato, contrariamente all'opinione vulgata, già nel secondo quarto del secolo, che è la data assegnabile, in base alla ceramica protocorinzia associata, ai corredi principali della Tomba Regolini-Galassi e di quella, per molti aspetti affine, del Tumulo di Montetosto pure ceretano.
Parallelamente non viene meno la tradizione ellenizzante della ceramica di argilla figulina dipinta. Dopo una fase di stretta osservanza protocorinzia e «cumana», documentata soprattutto a Tarquinia (Pittore delle Palme, Pittore dei Cavalli Allungati, cui si deve anche una complessa scena figurata, forse mitologica), prevalgono i modelli dell'Orientalizzante cicladico e protoattico, mediati almeno in parte dalla Sicilia greca. A essi si rifa la produzione ceretana e secondariamente veiente, da poco indagata con la definizione, tra gli altri, del Pittore delle Gru, di Amsterdam e dell'Eptacordo, cui è stato attribuito il noto biconico di Monte Abatone (Martelli, 1987). Con questo pittore siamo alla metà del secolo: la componente greca compie in questi anni un salto di qualità, manifestato sia dal livello delle importazioni tardo-protocorinzie sia dall'opera di un ceramografo immigrato che firma in greco, Aristonothos. Il momento storico è quello nel quale la tradizione antica poneva l'arrivo a Tarquinia del corinzio Demarato, accompagnato da uno stuolo di artigiani includente i tre fictores specializzati nella decorazione architettonica: Diopos, Eucheir ed Eugrammos (Plin., Nat. hist., xxxv, 152). A essi era fatta risalire l'introduzione in Italia della plastice, ossia della coroplastica, con probabile allusione a decisivi progressi tecnici allora realizzati. In realtà verso il 650 a.C. si registra in Etruria, e poco dopo nel Lazio, l'innovazione delle tegole di terracotta, realizzate con cassaforme, preliminari a una autentica rivoluzione edilizia e architettonica, parallela a quella da poco avviata nel Peloponneso. Poco più tardi, dal 630 in poi, sono segnalati anche in località periferiche, come Acquarossa, Murlo e Castelnuovo Berardenga nel Chianti, tetti arricchiti da acroteri e antefisse, ottenute queste ultime con matrici e quindi dipinte, rispecchiando le «invenzioni» attribuite al sicionio Boutades (matrici, antefisse a protome umana, rubricazione). Innestate su un'antica tradizione artigianale di tetti a decorazione lignea (e metallica), tali innovazioni sono alla base degli importantissimi sviluppi di epoca arcaica, che fecero apparire la plastice quasi come l'arte «nazionale» degli Etruschi (Plin., Nat. hist., XXXV, 157).
Anche nella ceramografia si compie intorno al 630 una notevole accelerazione di segno ellenizzante con l'avvio a Caere e a Vulci - città questa in rapida ascesa - della produzione etrusco-corinzia, destinata a un incontrastato predominio, a fianco delle crescenti importazioni da Corinto e dall'area greco-orientale, fino quasi alla metà del VI secolo. Si tratta di una produzione tutt'altro che omogenea, che a Cerveteri adotta largamente, accanto alla tecnica delle figure nere (Gruppo degli Anforoni Squamati), quella policroma della suddipintura, sia in uno stile monumentale di impronta nettamente locale (Gruppo di Monte Abatone) sia in uno stile miniaturistico di ascendenza protocorinzia (Gruppo Castellani). A Vulci invece appare predominante la tecnica delle figure nere e l'ispirazione è assai più esplicitamente greca: corinzia e secondariamente greco-orientale (Pittore della Sfinge Barbuta, con oltre cento vasi attribuiti), componente quest'ultima prevalente nel meno prolifico Pittore delle Rondini. Anche il coevo bucchero a decorazione incisa - che nella precedente fase fenicizzante aveva dato una delle più antiche firme d'artista (mi araθiale ziχuχe) - si adegua al nuovo indirizzo con prodotti spesso raffinati, e lo stesso può dirsi, come si vedrà, delle ultime manifestazioni della ceramica in bianco su rosso. Nella seconda generazione dei pittori etrusco-corinzi, che scende nei primi due decenni del VI sec., la produzione è interamente accentrata a Vulci, dove opera una molteplicità di botteghe di buon livello, ispirata non pedissequamente a modelli del Corinzio Antico (Pittore di Feoli, Pittore di Pescia Romana, Pittore dei Caduti) o di linguaggio del tutto locale (Pittore di Boehlau).
Non va infine dimenticato il filone subgeometrico, che a Cerveteri e a Veio nel corso dell'Orientalizzante Antico e Medio dà vita a una monotona produzione di argilla figulina in cui, accanto a motivi lineari di matrice protocorinzia, si ripete all'infinito il motivo degli «aironi» (così come più tardi si sfrutterà a lungo il motivo tardo-protocorinzio dei cani correnti). Lo stesso filone s'incontra, largamente contaminato da apporti fenicizzanti, nel bucchero inciso e negli impasti dipinti in bianco o incisi. Questi mostrano di essere, specie nell'agro falisco, il terreno privilegiato per esperienze «grottesco-espressive» (Szilágyi, 1989), che trovano un'eco anche nella ceramografia policroma etrusco-corinzia (in particolare nel Gruppo di Monte Abatone).
Indipendentemente dalle diverse componenti culturali e dalle loro fasi cronologiche, la civiltà orientalizzante d'Etruria è percorsa al suo interno da un'aspirazione al monumentale, al sovradimensionato, al duraturo, che appare congeniale all'ideologia aristocratica non meno del virtuosismo delle tecniche e della preziosità dei materiali, richiesti dai beni suntuari. Già si è detto dell'architettura delle case e di quella, a noi meglio nota, delle tombe, che trova negli smisurati tumuli ceretani la manifestazione più precoce e vistosa. È a tale architettura, in entrambi i suoi ambiti, che direttamente si connettono le origini della grande scultura e della pittura parietale. Per la prima una scoperta illuminante è stata quella della Tomba delle Statue presso Ceri (1971), in cui sulle pareti laterali del vestibolo sono scolpite, in un altorilievo che sfiora il tutto tondo, due figure di «dignitari» barbati solennemente vestiti e dotati di insegne. La dipendenza iconografica e stilistica da noti esempi di statuaria siro-ittita è tale, al di là della impressione di rozzezza dovuta alla roccia tufacea, da giustificare l'ipotesi che, tra gli artigiani immigrati in Etruria da quell'area culturale, vi siano stati anche scultori avvezzi a scolpire la pietra. La tomba si data, per i suoi caratteri tipologici, nella prima metà del VII sec.: ancora più antico dovrebbe essere il perduto avanzo di statua umana con le braccia conserte, rinvenuto nel dròmos della Tomba della Capanna, mentre di poco più recente è probabilmente la mal conservata sfinge rinvenuta all'esterno del Tumulo di Montetosto. Più tardi ancora la sequenza di grandi statue stanti, maschili e femminili, addossate come altorilievi alle pareti della cella o, meglio, del dròmos coperto del Tumulo della Pietrera a Vetulonia, rivela, entro la dominante intonazione orientale, precoci interferenze dedaliche (specie nelle figure maschili), comprensibili solo nel clima demarateo del terzo quarto del secolo. Su questa via si arriva verso il 600 a.C. o poco dopo alla statua di dignitario con bastone ricurvo esibito come insegna, dal Tumulo del Molinello di Asciano, cui è stata riferita una testa con Etagenperücke dai tratti marcatamente dedalici.
La lezione orientale giunge invece quasi pura a Bologna, dove dà origine a segnacoli funerari di aspetto monumentale, come la Pietra Malvasia - una sorta di betilo ridotto alla forma di un albero della vita stretto tra due capri retrospicienti - e come la stele opistografa di Via Tofane, sulle cui facce l'albero della vita, scolpito a rilievo leggero, si distende in fiorite circonvoluzioni. Sulla scia di queste esperienze si arriva, alla fine del secolo, ai già menzionati cippi di Via Fondazza, modanati e scolpiti come parti preziose di arredo nonostante le enormi dimensioni, e alla ben nota stele Zannoni, in cui il fastoso fregio floreale di stampo siro-ittita incombe sulla non meno esotica e inaspettata raffigurazione del signore che incede sul carro. L'albero della vita ritorna nella stele di San Varano di Forlì, tra due capri in questo caso nell'atto di brucarlo, mentre a Rubiera i due cippi a colonnetta recentemente scoperti con iscrizioni etrusche funerarie sono scolpiti su più registri con fregi di animali di stile fenicizzante.
Di fronte a manifestazioni così raffinate gli sporadici tentativi di scultura in pietra esperiti nell'Etruria settentrionale interna hanno il carattere di povere semplificazioni geometrizzanti. È il caso della colossale stele funeraria di S. Angelo a Bibbione presso S. Casciano Val di Pesa, alta in origine oltre tre metri, in cui la piatta silhouette del cacciatore con arco in movimento laterale sembra presa di peso da bronzi orientalizzanti vetuloniesi come il prometopìdion Ludwig.
La spinta verso la monumentalità si manifesta nella seconda metà del secolo anche nella coroplastica, che a Cerveteri, indipendentemente dal coinvolgimento negli apparati decorativi dei tetti delle case, gareggia apertamente con la scultura in pietra, mutuandone, nel nuovo clima demarateo, tipi e funzioni. Basti ricordare le statue sedute, di piccolo formato, dalla Tomba delle Cinque Sedie, in cui è ancora sensibile l'ispirazione orientale nel modellato a larghe masse tondeggianti; la sfinge alata e seduta dal dròmos della Tomba dei Dolii e degli Alari, degli inizi dell'Orientalizzante Recente, notevole anche perché lavorata in parti separate con la stessa tecnica dei grandi bronzi; il Sarcofago dei Leoni dalla tomba omonima del Procoio di Ceri, in cui alle statuette di leoni appollaiate sul sommo del coperchio si oppongono le grandi figure pure di felini della cassa, dal rilievo basso accuratamente scontornato, evocanti un rivestimento in lamina bronzea sbalzata. Sulla stessa linea si pone l'urna fittile a bauletto da Orte, già creduta da Veio, con testa umana prominente dal coperchio, mentre le statuette femminili di formato gigante che si ergevano sul coperchio degli ossuari chiusini del tipo Paolozzi e Gualandi mostrano forme piuttosto geometrizzate.
Un caso a parte è costituito dai busti funerari di Vulci e Marsiliana d'Albegna, realizzati in bronzo nella tecnica dello sphyrèlaton. Si va da esemplari di stile sub-geometrico, anche d'argento, in cui la testa è simbolicamente sostituita da un globo, a quello che ha dato il nome alla Tomba di Iside, accogliente uno dei corredi-chiave per la fase finale dell'Orientalizzante Recente in Etruria. Il busto, montato in origine su un supporto verosimilmente ligneo, vestito di stoffa operata con migliaia di perline, raffigurava certamente una divinità, a giudicare dall'uccello cornuto rivestito di lamina d'oro proteso nella destra. È questo il più antico simulacro divino finora conosciuto in Etruria, posto nella tomba - secondo una innovazione che, come in molti altri casi, avrà a Chiusi un lungo seguito - a protezione del morto (ufficio ribadito da una seconda statua femminile, questa in gesso alabastrino e di stile dedalico, forse importata dalla Grecia orientale e più specificamente da Rodi). La grossa testa, dai tratti marcati e vigorosi, trova il miglior referente nella plastica fittile dei canopi. Questi costituiscono un fenomeno proprio di Chiusi e dei vicini insediamenti minori (Dolciano, Sarteano, Cetona), ossia di un ambito culturale rimasto tenacemente fedele al rito crematorio. Scoperte recenti o recentemente pubblicate consentono di affermare che la cronologia non si attarda dopo gli inizi del VI sec. (ancora nel 1974 il Gempeler proponeva la fine del VI-inizio del V sec., in base a una analisi stilistica che, da sola, si è rivelata clamorosamente fallace) e che la pertinenza sociale è spesso alta, come insegna la frequente collocazione su piccoli troni e la qualità dei corredi, includente in un caso anche un modello fittile di quel simbolo del potere che è la bipenne. I canopi della fase evoluta (p.es. della tomba a camera scavata a Macchiapiana di Sarteano nel 1953) sono opera non di sprovveduti vasai ma di abili plasticatori precocemente esperti nell'uso delle matrici e dei ritocchi a stecca, capaci di creare originali sintesi di elementi orientali (capigliatura maschile a zazzera, derivata attraverso la mediazione delle coppe fenicie dal klaft egizio), spunti dedalici e espressività indigena. Anche se il confronto rimane limitato alle teste, è abbastanza evidente il rapporto con le statuette votive di bronzo, prodotte nell'Orientalizzante Recente nell'Etruria settentrionale interna, e forse proprio a Chiusi prima che ad Arezzo e Volterra (cui appartengono le serie più corsive). I bronzetti migliori rivelano infatti anche nella solida strutturazione dei corpi la stessa maturità artigianale dei canopi del livello della citata tomba di Macchiapiana.
Passando alla pittura parietale, è ovvio cogliere nella sua «invenzione» il segno della stessa esigenza di monumentalità rivelata dall'architettura e dalla statuaria. La prima testimonianza a noi giunta è quella della Tomba delle Anatre di Veio, scoperta nel 1958, databile anche in base al corredo negli anni centrali della prima metà del VII secolo. Sulla parete principale della camera marciano in fila verso il tettuccio che incombeva sul letto della defunta cinque «aironi», gli uccelli fantastici prediletti dalla ceramografia subgeometrica di Cerveteri e Veio, qui dipinti nella tecnica dell’outline, integrata da ornati interni in nero sovrapposti in alcune figure alla campitura in rosso del corpo. È un compendio delle tecniche che gli antichi ponevano alle origini della pittura, dalla skiagraphìa di Kleanthes corinzio o di Saurias samio alla graphikè di Ekphantos corinzio o di Kraton sicionio (Colonna, 1989). L'artigiano che ha dipinto la tomba, ripartendone accortamente gli spazi (a un alto zoccolo rosso segue la banda di cinque fasce policrome alternatamente nere, rosse e gialle, e quindi la parete gialla, assimilabile a un fregio, con la teoria degli uccelli), sembra provenire non dalla cerchia dei ceramografi, come si ripete, ma da quella dei pittori di case, che probabilmente costituivano già allora un artigianato specializzato. Con l'Orientalizzante Medio gli interni delle grandi tombe ceretane, che ormai imitano fedelmente quelli delle case dei principes, vengono regolarmente dipinti, sia con motivi geometrici e fitomorfi che con teorie di animali e raffigurazioni anche più complesse, d'impianto narrativo, come la caccia della Tomba degli Animali Dipinti, la nave all'ormeggio e altri temi non più comprensibili nella Tomba della Nave e il Signore dei leoni nella Tomba dei Leoni Dipinti.
Un'eco della pittura parietale delle case si coglie anche nella ceramica d'impasto dipinta in bianco sul fondo volutamente rosso-cupo del vaso (simile a quello del tufo o dei rivestimenti di legno stagionato delle pareti). La testimonianza più antica, per lo più trascurata, è quella in tecnica bicroma (bianco e rosso-chiaro) di un'olla della tomba tarquiniese di Bocchoris, dove una teoria di «opliti» sfila dinanzi alle torri merlate di una leggendaria città. Notevole anche un arredo domestico come il grande sostegno (hòlmos) di Narce a Filadelfia con cavalieri, choròs di donne e aironi in registri sovrapposti.
Ma è a Cerveteri che la classe vascolare incontra il massimo sviluppo, prima col Pittore delle Gru e poi con la bottega dell'Urna Calabresi, che fa uso anche del disegno preparatorio inciso. Il pezzo più notevole, di cui recentemente è stata rialzata la datazione al 630-620 a.C. (Martelli, 1987), è una pisside-cratere che affianca a una coppia di leoni contrapposti un vasto quadro mitologico con la nascita di Atena e la caccia calidonia, ispirato con ogni verosimiglianza alla grande pittura corinzia. L'eccezionale exploit, paragonabile solo a quelli di talune ceramiche policrome di Megara Iblea - il che fa balenare una possibile mediazione siceliota - è sottolineato dalla firma, che tuttavia menziona per nome non l'artigiano ma il suo patrono, che è una donna: «nella (casa) di Kusnai» (Colonna, 1993). Gli artigiani migliori lavorano al servizio delle grandi famiglie, secondo il modello demarateo, sotto la tutela della domina che si estende a tutto l'insieme delle produzioni domestiche. Una testimonianza coeva dell'accettazione sempre più larga del mito greco è resa da un'olpe di bucchero a rilievo recentemente rinvenuta a Cerveteri con scene della saga degli Argonauti, recanti ascritti alle figure i nomi etruschizzati di Medea (Metaia, dalla forma dorica del nome) e Dedalo (Taitale). Nel novero di simili vasi, eseguiti certamente su commissione, si colloca la nota oinochòe in tecnica policroma da Tragliatella, che intreccia saghe greche e locali accompagnandole con la rappresentazione simbolica di Troia come un labirinto (Truia, anche in questo caso dalla forma dorica).
I monumenti citati si datano agli inizi dell'Orientalizzante Recente, in coincidenza con l'affermazione della ceramica etrusco-corinzia a figure nere. In questo periodo le tendenze ellenizzanti prendono, almeno nell'Etruria meridionale, dove l'istituto della città è ormai consolidato, un deciso sopravvento. Gli stessi beni suntuari, tradizionale appannaggio dell'artigianato orientalizzante, se non di quello locale di ascendenza geometrica, si aprono al nuovo linguaggio. Casi limite sono quelli delle uova di struzzo a decoro exciso dalla Tomba di Iside (in origine completate in avorio come oinochòai), in cui sul fondo scuro risaltano non solo complesse teorie o gruppi di animali lottanti, ma anche sfilate al passo o di corsa di carristi, cavalieri e opliti, e delle situle d'avorio della Pania (da Chiusi, ma di lavoro vulcente), nel cui immaginario hanno un largo spazio le storie di Ulisse. In questi monumenti è degna di nota la trama degli elementi floreali, che s'intreccia alle figure in un opulento continuum di forte suggestione decorativa. Ciò risponde a una diffusa tendenza di gusto, manifestata su scala monumentale dalle pitture della Tomba Campana di Veio, in cui la decorazione è circoscritta a una sola parete e la riveste dal pavimento al soffitto, con un effetto che anche per la ricca policromia, esaltata dal fondo imbiancato, ricorda quello di un arazzo.
Nella ceramografia un'eco impoverita di questo stile fiorito si apprezza nella coppia di anforoni da Trevignano, in cui le figure - anche qui animali e gruppi cerimoniali - e i corposi riempitivi vegetali risaltano a risparmio sul rosso di cui è campito il fondo con un effetto da intarsio simile a quello suggerito dalle uova excise vulcenti. Ma le creazioni più raffinate dello stile fiorito sono da ricercare nel bucchero inciso e soprattutto nella toreutica, che ora conosce una straordinaria fortuna, annunciata da un'anfora di tipo chiusino rinvenuta a Orvieto e pienamente realizzata nei rivestimenti di cinturoni, di mobili, di carri e di altri arredi, acceduti in varie riprese alla Gliptoteca Ny Carlsberg a partire dagli anni '60 e in parte ancora inediti. Particolarmente notevoli tra queste lamine a rilievo, prodotte forse da botteghe ceretane, sono quelle provenienti da una tomba principesca di Colle del Forno nella Sabina tiberina, appartenenti a un carro da parata e alla testiera dei relativi cavalli. Riflessi della toreutica meridionale di stile fiorito suborientalizzante arrivano del resto nel Piceno (elmo recentemente pubblicato da Pitino di S. Severino), a Bologna (il c.d. tintinnabulo della Tomba degli Ori) e soprattutto a Este (situla Benvenuti) e da Este nel mondo veneto-alpino in senso lato, dove danno vita alla c.d. arte delle situle. Un fenomeno di grande rilevanza storica, che rappresenta, dopo quella tardo-geometrica, la seconda e per molti secoli ultima ondata di apporti mediterranei nell'area della cultura hallstattiana orientale.
Le pitture della Tomba Campana non sono tuttavia solo una testimonianza di stile fiorito. Nelle figure di animali snelle e sottili, dall'incedere incerto da trampolieri, nel prevalere del gioco delle linee sulla consistenza dei corpi si avverte una intonazione di stile che, al di là delle consonanze rilevate con monumenti cretesi, trova eco in Etruria anche al di fuori dell'orientalizzante fiorito. Si possono citare l'uovo di struzzo a decorazione incisa della Tomba di Iside, i vasi del Pittore di Boehlau (incluso il profilo instabile della sua forma prediletta, l’oinochòe), i più antichi fregi architettonici a rilievo da Roma e Veio, bronzetti come quelli fungenti da supporto a un prezioso arredo del deposito di Brolio in Val di Chiana. Diafane e longilinee immagini di raffinata eleganza, che sembrano anticipare tendenze cui la plastica votiva dei vicini Umbri si manterrà a lungo fedele.
3. L'arcaismo (inizi vi-metà v sec. a.C.). – a) La fase alto-arcaica. - Il consolidamento delle strutture urbane porta nell'Etruria del VI secolo a una sensibile crescita nella domanda di beni artistici, cui ora si accostano cerchie allargate di abbienti (paragonabili alle minores gentes della Roma di Tarquinio Prisco).
Un ambito sempre più ricercato è ormai quello del vasellame da tavola, adatto al nuovo costume del simposio. Mentre le esigenze delle élites vengono soddisfatte da una consistente importazione di ceramica greca, soprattutto corinzia (cui dal 570 c.a inizia a sostituirsi quella attica), la produzione etrusca tende ad adagiarsi su livelli artisticamente mediocri. Istruttivo è il caso della ceramica etrusco-corinzia. Alla varietà di botteghe e di esperimenti artigianali della prima e della seconda generazione subentra intorno al 580 a.C. il dominio pressoché incontrastato di due enormi cicli produttivi - rispettivamente detti delle Olpai e dei Rosoni - praticamente identificabili con l'attività di due botteghe, entrambe vulcenti, nelle quali collaborano, in modo non sempre districabile, maestri, affiliati e apprendisti. Il repertorio si cristallizza nella ripetizione di motivi e stilemi di ispirazione antico- e soprattutto medio-corinzia, con rare eccezioni dovute a specifiche commissioni, come il cratere da Cerveteri del Pittore delle Code Annodate (ciclo dei Rosoni), dipinto con scene mitologiche tra le quali primeggia il duello di Eracle e di Gerione, e quello del Pittore dei Rosoni pure da Cerveteri con Eracle e Alcioneo. Dopo il 560 le botteghe sono ancora attive per uno o due decenni, ma senza più alcuna pretesa artistica: conservano tuttavia un discreto livello come manifattura (Gruppo a Maschera Umana e altri) e soprattutto non perdono l'eccezionale capacità nella distribuzione, che aveva fatto arrivare i vasi del ciclo dei Rosoni (e del tarquiniese Gruppo Senza Graffito) non solo nel Lazio e in Campania, ma anche in Sardegna, a Cartagine e nel golfo del Leone insieme agli ancora più esportati kàntharoi di bucchero e alle non meno richieste anfore vinarie, apprezzate ovviamente per il loro contenuto.
La massificazione è un fenomeno generalizzato nella produzione vascolare alto-arcaica: nell'impasto rosso, ormai non più dipinto, e nel bucchero la qualità della decorazione è come congelata dal ricorso sistematico alle matrici e agli stampi, piani o a cilindretto. Ogni abitato di media, e talora anche piccola, grandezza ha le sue botteghe e il suo mercato, tendenzialmente autosufficiente. Cerveteri produce grandi vasi di impasto rosso (pìthoi e bracieri) stampati con metope o fregi per lo più di soggetto animalistico, imitati nella minuscola S. Giovenale da un Larice Crepu, a noi noto perché orgogliosamente ha inserito nel cilindretto da lui usato il proprio nome a mo' di firma. Buccheri con ornati a rilievo stampati sono prodotti, in una grande varietà di forme - prevalentemente per conservare e per versare - e di decorazioni, a Tarquinia, Vulci e relativo hinterland (crateri tetransati, grandi kyathoì, ecc.), Bisenzio (stàmnoi con leoni), Orvieto, Murlo e soprattutto Chiusi.
In questo centro i vasi di bucchero assumono, a partire dal secondo quarto del VI sec., il carattere di vasi d'apparato, dalla decorazione sovraccarica e onnivora, cui è chiamato a contribuire con una certa larghezza anche il repertorio mitologico greco.
Le applicazioni più significative, anche sul piano artistico, dell'uso delle matrici si ebbero però nella coroplastica architettonica, che ne uscì radicalmente rinnovata. A cominciare dagli inizi del VI sec. si constata la totale sostituzione dei fregi solo dipinti, in bianco, con fregi a rilievo ottenuto a stampo e quindi vivacemente dipinto, dalle tematiche per lo più narrative. Parallelamente divengono normali le antefisse pure a stampo con protomi per lo più femminili, già attestate a Murlo e a Castelnuovo Berardenga nel VII secolo. Gli esempi più antichi di tali fregi sono quelli, già ricordati, di Veio, Roma e Vignanello, ai quali segue, verso il 580 a.C., il complesso corinzieggiante del secondo «palazzo» di Murlo, con gara equestre, banchetto, processione nuziale e consesso divino. Vengono quindi le serie di Tuscania (in giacitura secondaria dalla necropoli), di Cerveteri a bassissimo rilievo a Copenaghen, di Poggio Buco, di Acquarossa e nuovamente di Cerveteri a Berlino-Londra-Copenaghen, in tutte le quali il tema ricorrente è la sfilata di carri tra cavalieri e opliti.
Se la prima ispirazione sembra essere venuta, attraverso le vie interne della penisola, dalle città greche dello Ionio, temi e contenuti sono solidamente funzionali all'ideologia gentilizia etrusca e latina. Nelle serie più recenti si coglie già, attraverso le allusioni al trionfo e alla connessa apoteosi, quell'esaltazione della regalità di stampo tirannico che diverrà esplicita nella seconda metà del secolo a cominciare dai fregi di S. Omobono e di Velletri. Ad Acquarossa la promozione del rex a novello Eracle, degno dell'apoteosi, è implicita nell'inserimento di alcune fatiche dell'eroe al centro delle sfilate (Torelli), mentre nella serie Berlino-Londra-Copenaghen l'assimilazione del corteo di carri a un trionfo è suggerita dalla loro trasformazione in quadrighe, sulla prima delle quali sale il rex in corazza a campana ed elmo con largo cimiero, atteso sull'altra dal suo vice in corazza leggera. Stilisticamente le due serie accusano qualche cenno di ionismo, che diviene del tutto esplicito nelle antefisse associate a quella di Acquarossa.
Collegata meno di quel che si è portati a pensare alla coroplastica architettonica, nella quale comunque le è riservato un ruolo primario, è la statuaria in terracotta. Nell'alto arcaismo s'impone alla nostra attenzione il secondo «palazzo» di Murlo, il cui tetto era popolato da una folta schiera di statue raffiguranti personaggi seduti (dei e antenati), Gorgoni, belve, cavalli, ecc. In contrasto con l'ambiziosità del progetto e con il buon livello tecnico dell'esecuzione, il modellato appare piuttosto sciatto e corsivo, inferiore a quello che a Chiusi avevano saputo fare gli artigiani dei canopi. Più riuscito è l'altorilievo di un grande sostegno troncoconico con scena di battaglia, che doveva essere collocato bene in vista nel cortile e nel quale si è tentati di riconoscere la mano di chi ha progettato l'eccezionale complesso.
Nella ricostruzione varroniana della storia delle arti in Italia è posta in questi anni l'attività di Vulca di Veio, autore delle più antiche statue di culto in terracotta esistenti in Roma: il Giove seduto del Capitolium e l’Ercole fittile. Un'eco di quest'ultimo potrebbe riconoscersi nel kouros a grandezza superiore al naturale dal santuario di Portonaccio a Veio: una statua forse di culto, di cui resta solo il tronco, mentre le gambe erano state lavorate separatamente con una tecnica insolita, databile stilisticamente verso il 560-550 a.C. Per il forte allungamento e la convenzionale anatomia del torace il confronto meno gratuito è con un bronzetto di grande formato da Chiusi a Berlino (Fr. 2159).
La statuaria in pietra conosce nell'alto e medio arcaismo un'ineguagliata fioritura, che arriva alle soglie dell'ultimo quarto del VI secolo. Suoi centri irradiatori sono Vulci e, per diretta e precoce filiazione vulcente, Chiusi. Da Vulci dipendono le testimonianze sparse nell'Etruria meridionale interna (Tuscania, Blera, Falerii, Veio, Orvieto), da Chiusi quelle della Valdichiana (Asciano, Casalta, Cortona). La pietra usata è il nenfro o il normale tufo nell'Etruria meridionale, l'arenaria (pietra fetida) e il calcare a Chiusi e in Valdichiana: il marmo apuano comincia a essere utilizzato, come hanno accertato recenti indagini (Bonamici, 1989), nel distretto pisano-versiliese, ma solo per cippi aniconici a clava e a bulbo. A parte alcune sculture del santuario di Celle a Falerii, la destinazione è ovunque funeraria, ma nell'Etruria meridionale le statue trovano ora posto di norma fuori della tomba, in piena vista. Caso limite è quello della Cuccumella di Vulci, il cui rigoglioso «bestiario» tanto impressionò gli scavatori ottocenteschi. Ma anche l'esplorazione della necropoli di Castro, iniziata da una missione belga, ha rivelato un gran numero di statue animalistiche, a quanto pare collegate scenograficamente in allineamenti lungo le vie sepolcrali. Né meno eloquente al riguardo è stato il recente scavo della tomba con portico di Pian di Mole a Tuscania. Senza contare le enormi protomi di leone e di ariete scolpite agli angoli del coronamento a terrazza di una tomba rupestre di Castro, o i gruppi di sfingi divoranti guerrieri scolpiti alla base della balaustrata di una monumentale gradinata addossata al Melone II del Sodo a Cortona, scoperta nel 1990. Il repertorio delle statue, sostanziosamente incrementato negli anni '50 e '60 dagli scavi clandestini nel territorio vulcente, comprende leoni, pantere, sfingi, cavalli, ippocampi, talora con cavaliere, centauri, gorgoni, ecc. Lo stile rispecchia fedelmente il passaggio dai modi dedalico-peloponnesiaci della prima metà del secolo, esemplarmente rappresentati dal noto Centauro di Vulci, a quelli ionizzanti che si affacciano verso la metà del secolo e incontrano subito largo favore.
La stessa funzione ostentatoria avevano i bassorilievi scolpiti all'esterno di tumuli e strutture a essi collegate, come insegnano in primo luogo il basamento circolare rupestre di Grotta Porcina presso Blera, con corteo di animali, e quello costruito a gradini di Poggio Gaiella a Chiusi, dai fregi vicini anche stilisticamente a quelli di poco più antichi delle terrecotte di Murlo. Ma è soprattutto a Tarquinia che il rilievo su pietra tenera è sistematicamente praticato con i noti lastroni «a scala», presenti sporadicamente anche a Vulci, scolpiti con fregi verticali a metope e fregi orizzontali continui, di soggetto in prevalenza animalistico ma anche narrativo e mitologico (p.es. il suicidio di Aiace). Anche se resta ancora irrisolto il problema della loro specifica funzione, sembra comunque certa la collocazione esterna alle camere, in corrispondenza della porta o comunque della testata del dròmos, che nei tumuli tarquiniesi spesso non veniva interrato (come provano i casi in cui esso assume una pianta allargata, a piazzale, con sedili e gradinate). La produzione dei lastroni mostra la stessa latitudine stilistica della statuaria di ispirazione vulcente e, come quella, viene bruscamente a cessare intorno al 530-520 a.C. Si è parlato per questo arresto di «raisons inconnues» (Hus, 1977), ma sembra evidente la connessione con la sobrietà degli esterni che la città riformata in senso timocratico tende a imporre anche alle necropoli, e che è a noi rivelata a Caere e a Orvieto dalla diffusione fin dalla prima metà del secolo delle tombe a dado. Non è affatto inverosimile che a un dato momento leggi antisuntuarie abbiano vietato gli apparati scultorei esterni alle tombe (il che a Tarquinia avviene in non casuale coincidenza con il proliferare della decorazione dipinta degli interni).
Diverso è il quadro offerto dall'Etruria settentrionale, dove le strutture cittadine erano meno sviluppate e dove nulla lascia supporre eventuali interventi restrittivi nei confronti del lusso funerario. A Chiusi le statue-cinerario - eredi funzionali dei canopi a partire da quella, stante, già ritenuta di Chianciano, ma in realtà proveniente da Casalta in Valdichiana - e, ovviamente, le urne scolpite con bassorilievi a partire dalla metà del secolo, erano collocate nel chiuso delle tombe, ma un'originaria collocazione all'esterno va riconosciuta, nonostante perduranti incertezze, ai cippi e alle relative basi riccamente scolpite, che restano in uso, divenendo anzi più numerose, fino al 460 circa a.C. La proiezione della tomba verso l'esterno è ancora più forte nell'agro senese, volterrano e fiesolano, dove la stele iconica, in auge già nel VII sec., continua a esserlo per tutto il VI e la prima metà del V sec., spesso accompagnata dall'iscrizione che ricorda sia il defunto che il dedicante. La tipologia più comune nel VI sec. è quella che prevede la figura del guerriero o sacerdote, stante in un campo arcuato in alto, forse per suggestione di modelli anatolici o levantini introdotti verso il 600 a.C. (Pallottino, 1963). Dal tardo VI prevalgono invece le figurazioni narrative, desunte dal patrimonio iconografico dei rilievi chiusini (le «pietre fiesolane»), contemporaneamente all'avvio a Bologna della grande stagione delle stele figurate del tipo della Certosa.
All'opposto della scultura e della coroplastica la pittura parietale è stata poco praticata nell'età alto-arcaica. A parte le testimonianze, ancora orientalizzanti nella vivace policromia, di Poggio Renzo a Chiusi e di Magliano nella valle dell'Albegna, non conosciamo altro che la Tomba delle Pantere, scoperta a Tarquinia nel 1968. La tavolozza, ristretta al rosso e al nero, e la tecnica esclusivamente dell’outline segnalano una voluta rottura con lo stile fiorito della Tomba Campana, confermata dalle tombe dipinte solo con motivi lineari in nero, di allusione architettonica, a cominciare dalla finta porta (tombe della Capanna, Marchese e altre); motivo questo destinato a vasta fortuna, in chiave simbolica, nell'universo funerario d'Etruria. I grandi felini maculati della Tomba delle Pantere, contrapposti in schema araldico sulle pareti d'ingresso e di fondo, sono imparentati non tanto con le ceramiche orientalizzanti quanto con la coroplastica monumentale (vedi il citato sarcofago ceretano dei Leoni e i felini a rilievo della fase serviana del Tempio di S. Omobono a Roma) e con i rilievi bronzei che a quella s'ispirano, come nel caso del carro Dutuit da Capua.
Per trovare dei precedenti ai successivi, clamorosi sviluppi tardo-arcaici della pittura tarquiniese occorre spostarsi a Cerveteri. In questa città dopo le esperienze, deludenti sul piano tecnico della durata, di età medio-orientalizzante la pittura delle tombe si limita, di norma, a sottolinearne semplicemente le componenti architettoniche. Continuò invece, e conobbe un salto di qualità, l'uso certo già assai antico di dipingere portici e «atrii» di case e palazzi, come più tardi di templi, servendosi come supporto di appositi rivestimenti fìssi in terracotta (e certo più spesso in tavoli di legno). Tali rivestimenti, concepiti come un tutto continuo, solo per ovvie ragioni pratiche furono realizzati in lastre verticali, onde si rivela equivoco e fuorviarne nei loro confronti l'abusato termine pìnakes. Il primo insieme giuntoci almeno in parte, databile verso il 570-560 a.C., mostra, al di sotto di una cornice dipinta con temi (banchetti e corse di cavalieri) analoghi a quelli dei coevi fregi fittili architettonici, una grandiosa narrazione mitologica in cui campeggiano Perseo, Atena, Medusa e le altre Gorgoni fuggenti, nonché un probabile giudizio di Paride e altre storie non identificabili. Lo stile monumentale, l'affollamento e la parziale sovrapposizione delle figure evocano quelle che dovettero essere le megalografie corinzie del tempo. Segue, nel decennio successivo, il più modesto insieme Boccanera, in cui ritorna il giudizio di Paride accanto a una probabile scena di matrimonio e a sfingi araldiche ai lati della porta (l'insieme proviene infatti da una tomba, documentando l'occasionale trasferimento della pittura su terracotta alle camere funerarie). Lo stile accusa in questo caso segni di incipiente ionismo, avvicinabili a quelli presenti in opere insigni della metallotecnica come il carro a quattro ruote di Castel S. Mariano e la stessa biga di Monteleone di Spoleto.
b) La fase tardo-arcaica. - Dopo le prime avvisaglie, percepibili dal 560 c.a, esplode in Etruria verso il 540-530 a.C. la svolta stilistica dello ionismo trionfante, certamente collegata, come e più che nella fase demaratea, all'arrivo di artisti e artigiani greci, provenienti questa volta dalle coste dell'Asia minore e dalle isole adiacenti. La cornice storica del fenomeno è stata da tempo individuata nella espansione occidentale di Focea, che conobbe un inarrestabile crescendo dalla fondazione di Marsiglia (600 a.C.) e di Alalia, dirimpetto all'Etruria (565 a.C.), all'esodo in massa verso quest'ultima città, provocato dall'avanzata persiana in Asia Minore (545 a.C.). Il conflitto con Etruschi e Cartaginesi, insorto verso il 540 a.C., ebbe per conseguenza l'abbandono della Corsica e la dispersione dei Focei, solo in parte tamponata dalla successiva fondazione di Elea nel Cilento. Molti di essi, come anche altri Greci d'Asia, a cominciare dai profughi politici samii, avranno allora raggiunto le allettanti città dell'Etruria marittima, attraverso il canale preferenziale offerto dagli empori del genere di Gravisca, dove hanno lasciato ampia traccia epigrafica del loro passaggio.
La ceramografia consente un buon osservatorio sulla svolta di cui si discorre. Nonostante la formidabile concorrenza delle ceramiche figurate che gli stessi mercanti ionici importavano dalla Grecia (ceramiche attiche in primo luogo, ma anche laconiche, «calcidesi» e greco-orientali), prende piede quella che antonomasticamente si continua a chiamare ceramica etrusca a figure nere (ma tale era già in realtà gran parte della ceramica etrusco-corinzia), relegando quest'ultima a una posizione del tutto marginale, cui ben presto seguirà l'estinzione. Cronologicamente al primo posto tra i maestri ionizzanti è il Pittore di Paride, che alla metà del secolo o poco dopo fonda a Vulci l'officina «pontica». Sulla scia della popolarità goduta dalle anfore «tirreniche» attiche con le loro ricorrenti narrazioni mitologiche, ma con un linguaggio aperto alle suggestioni calcidesi e greco-orientali, evidentemente ben più vicine e pressanti, l'officina domina la scena della nuova produzione, presto affiancata dal più ostentatamente atticizzante Gruppo delle Foglie d'Edera.
Invece a Cerveteri il poco spazio lasciato libero dalle invadenti ceramiche attiche è improvvisamente preso, verso il 530, da ceramografi ionici immigrati, il Pittore delle Idrie Ceretane e quelli del Gruppo dei Dinoi Campana, tra i quali è stato proposto di annoverare anche l'autore della raffinatissima idria Ricci (Martelli, 1981). La loro è una produzione di superiore qualità, che si iscrive a buon diritto nella storia della ceramografia greca, pur essendo ambientata, e non solo geograficamente, in Etruria. Un'eco locale, in cui tuttavia la felice vena narrativa dei maestri nord-ionici appare irrigidita e scaduta sul piano della decorazione, se ne coglie nel Gruppo della Tolfa. Più alto è il livello delle pitture parietali su terracotta, note dai frammenti di provenienza urbana a Berlino e Cerveteri, per i quali si è parlato, forse non del tutto a torto, del Maestro delle Idrie, e dall'insieme delle lastre Campana, di provenienza forse solo secondaria dalla necropoli. Opere queste che sembrano conservare una vivida eco della pittura parietale greco-orientale, quale ci è nota p.es. da Gordion. La predilezione ceretana per la pittura (che a detta di Plinio aveva lasciato nella città le più antiche testimonianze esistenti ai suoi tempi in Italia: Nat. hist., XXXV, 18) era tale che la si adotta sistematicamente anche per le terrecotte architettoniche, in sostituzione dei normali fregi a bassorilievo figurati.
Tra il 520 e il 490 a.C. la ceramografia etrusca è dominata dal Pittore di Micali e dalla sua scuola, con il quale i modi ionizzanti scadono su un piano di facile anche se spesso piacevole decorativismo, nonostante il tardivo approccio del pittore al disegno attico di fine secolo. La copiosità della produzione, certamente localizzata a Vulci (oltre duecento vasi attribuiti al solo pittore), richiese l'apporto di manodopera servile, provata dalla firma su una mediocre anforetta di un Kape Mukathesa, forse di origina campana.
L'ondata ionizzante investì in pieno Tarquinia, attraverso l'emporio di Gravisca, improntando di sé la fioritura tardo-arcaica della pittura funeraria. La roccia calcarea, assai più idonea del tufo alla pittura, rendeva superflui i rivestimenti in terracotta, consentendo l'adozione della tecnica dell'affresco. Le tombe dipinte più antiche - la cronologia è confermata dal tipo architettonico a banchine - hanno solo i frontoni dipinti con figure, per lo più di animali, databili al 550-530 a.C. La realizzazione più impegnativa per questa fase è la Tomba dei Tori, in cui al centro della parete principale è dipinto il quadro con l'agguato di Achille a Troilo: episodio da tempo popolare in Etruria, riproposto ora in una chiave esplicitamente funeraria. Le incertezze compositive e taluni vezzi grafici hanno fatto pensare a un ceramografo occasionalmente distolto dal suo mestiere, esercitato nell'officina dei vasi pontici (Giuliano, 1969), ma la proposta, la si accetti o no, non può essere generalizzata. Nulla hanno infatti da spartire con la ceramografia in genere, e con i vasi pontici in particolare, i due maestri che intorno al 530/520 «fondano» la pittura funeraria tarquiniese nei suoi caratteri più duraturi, affrescando rispettivamente la Tomba degli Auguri e la Tomba delle Leonesse. Cicli pittorici di pari respiro e monumentalità erano in auge a Cerveteri, come si è visto, già nella generazione precedente, e prima nella città che nelle tombe, sicché è lecito almeno sospettare che anche a Tarquinia la grande pittura funeraria sia un riflesso di quella urbana, andata in questo caso completamente distrutta (forse perché di norma su intonaco, come in Asia Minore).
Le tombe dipinte di Tarquinia, assai numerose tra il 530 e il 500 a.C., sono l'espressione sul piano sociale di un nuovo ceto emergente, che almeno nel privato della tomba (e della casa) aspira a omologarsi al ceto signorile di un tempo. Eloquenti in proposito sono i temi prediletti del simposio e dei ludi, accolti nel repertorio delle tombe proprio quando scompaiono, perché troppo legati al mondo dell'òikos aristocratico, da quello delle terrecotte architettoniche destinate all'edilizia pubblica e in particolare templare. Il che non esclude che gli stessi temi, una volta introdotti nella tomba, evochino non un generico stile di vita signorile, ma specificatamente quello esibito nel cerimoniale funerario. La stessa rappresentazione della caccia, frequente nel V sec., aveva assunto fin dall'Orientalizzante il valore di una metafora della morte e del sacrificio cruento, di cui i defunti erano destinatari in quanto potenziali dii animales, secondo la dottrina che sarà codificata nei Libri Acheruntici (Roncalli, 1990). Né sarebbero giustificate, in una rappresentazione astratta di status, le didascalie che talora individuano i personaggi o ne dichiarano la azioni (p.es. nella Tomba delle Iscrizioni).
Sul piano stilistico sono state rilevate, entro il comune linguaggio greco-orientale, venature dialettali in senso foceo, clazomenio e samio (Cristofani, 1976), senza tuttavia poter arrivare a plausibili ricostruzioni di personalità di pittori e di eventuali botteghe, date le reciproche interferenze. La profonda adesione a contenuti ed esigenze specificamente etrusche, messa in evidenza dall'analisi iconologica (d'Agostino, 1983), depone comunque per un totale radicamento dei pittori nella realtà locale, quale che ne sia stata la provenienza. Etrusco e di condizione servile appare il pittore della Tomba dei Giocolieri, se coglie nel vero l'ipotesi che nell'unica iscrizione della tomba, riferita spiritosamente a una figura nuda in atto scurrile, sia da riconoscerne la firma: Aranth Heracanasa (Colonna, 1975). Dal 510 in poi è evidente l'attenzione portata alle conquiste del disegno attico, culminante verso il 490 a.C. negli scorci del piccolo fregio della Tomba delle Bighe. L'affioramento di contenuti escatologici ellenizzanti è stato segnalato nella stilisticamente isolata Tomba del Barone (affidamento della defunta alla tutela dei Dioscuri) e nella perduta Tomba di Dioniso e dei Sileni, con notevole anticipo sul probabile lettisternio dalla Tomba del Letto Funebre.
L'impatto del linguaggio ionizzante è ben percepibile nella scultura in pietra, come si è accennato. Con particolare vivezza ciò si verifica a Orvieto, dove nel santuario della Cannicella viene dedicato un simulacro di dea nuda riccamente ingioiellata, a metà del vero, di marmo greco insulare: le forme piene, la grossa testa, le proporzioni atticciate (falsate dal restauro delle gambe) denotano un rapporto con il Marte di Ravenna e altri bronzetti di guerrieri attribuiti su altre basi a fabbrica volsiniese (Martelli, 1983), nonché con cippi e stele funerarie di provenienza locale. A Chiusi le statue-cinerario raffigurano ora personaggi maschili solennemente seduti su troni, in un recupero della tipologia orientalizzante che passa attraverso il modello della statuaria milesia; né si esita ad affrontare per le urne il tema, destinato a una lunghissima fortuna, della coppia coniugale banchettante sulla klìne, come insegna un recente trovamento di Asciano. Anche le stele dell'Etruria più settentrionale sono toccate dal nuovo indirizzo di stile, a cominciare da quella monumentale di Avile Tite a Volterra e da quella di Larth Ninie a Fiesole. Un'origine ionica è stata postulata per le basi di cippo in marmo con teste angolari di arieti, di produzione pisana, la cui tipologia arriva i fino a Marzabotto e a Casal Marittimo, e così per i cippi a leoni angolari stanti, del tipo Settimello, e per le stele con coronamento ad anthèmion di Populonia.
È tuttavia nella coroplastica e nella bronzistica, tecniche come sempre congenitamente alleate, che si producono le opere più significative del nuovo corso. Ciò avviene specialmente nel comparto Cerveteri/Veio, con l'importante appendice della Roma dei Tarquinii e di altri siti del Lazio, specialmente costiero. A Cerveteri l'officina dei due celebri sarcofagi degli Sposi - cui è essenziale la splendida policromia, rivelata dal recente restauro dell'esemplare al Louvre - è affiancata da quella responsabile in campo architettonico di antefisse, acroteri e altorilievi, largamente imitati da Roma a Velletri, da Ardea a Satricum. Basti citare il gruppo acroteriale di Thesan che rapisce il suo amato, da Cerveteri, e quello di Eracle e Atena dal Tempio di S. Omobono a Roma. Sono opere in cui il modellato assai parco ed epidermico, ottenuto più aggiungendo che scavando e talora sostituito nelle teste dal ricorso più o meno scoperto alle matrici, è integrato dai molti dettagli esclusivamente dipinti e in genere da una policromia in origine generosamente profusa, essenziale per il risultato finale. Lo stesso linguaggio parlano opere di toreutica come i monumentali tripodi Loeb da Marsciano di Perugia e la biga con gli altri bronzi e argenti sbalzati rinvenuti a Castel S. Mariano: dove il posto della pittura è preso dal ricamo del cesello, capace di un'ampia modulazione di toni, o addirittura, nel caso dei rilievi in argento, dal riporto di panneggi o altri particolari in fulvo elettro. L'attribuzione a Cerveteri di opere così raffinate, alle quali forse è da aggiungere la più recente biga di Ischia di Castro con i suoi kouroi dal profilo nitidamente inciso e dal tenue rilievo, trova un valido sostegno nella fama goduta nel mondo greco dall'άγύλλιοςχαλκός, il «bronzo agilleo», giunta fino al poeta Riano, che nel III sec. a.C. fu l'erudito cantore della storia arcaica del Peloponneso e di Olimpia, dove non mancavano bronzi arcaici donati da Etruschi.
Veio è responsabile negli stessi anni dei fregi con cortei, corse di cavalieri, banchetti e assemblee divine, di cui il più completo repertorio è conservato dal tempio di Velletri (ma non meno degne di nota sono le serie recenziori di Cisterna e di Palestrina). Lo stile disegnativo, metallico, affollato di particolari ricorda non solo la ceramica pontica ma anche le lamine bronzee sbalzate, invero più recenti, di Tarquinia e di Bomarzo. Ma è solo con il radicale rinnovamento di tecniche e di tipologie che investe la coroplastica architettonica verso il 510 a.C. (c.d. seconda fase), che la scuola veiente balza in primo piano. Vengono ora abbandonati i fregi figurativi delle lastre di rivestimento e delle sime, in uso dall'inizio del secolo: il loro posto è preso da decorazioni vegetali o geometriche, che comportano anche l'attribuzione del nimbo a conchiglia alle protomi delle antefisse. La svolta si accompagna a un aumento generalizzato di modulo, che ê in rapporto con la crescente monumentalità degli edifici templari, cui ora le terrecotte architettoniche sono praticamente riservate, e a una diversa tecnologia d'impasto e di cottura.
Tecnologia e repertorio tipologico sono influenzati da esperienze precedentemente maturate in Campania, tra Cuma e Capua, e quindi pervenute in Etruria per la via del Lazio costiero. Le esigenze narrative e di comunicazione ideologica sono ora affidate non solo alle tradizionali statue acroteriali ma anche agli altorilievi che, applicati alle testate delle travi portanti del tetto (columen e mutuli), parzialmente ingombrano il campo frontonale, dilatati come spesso sono oltre quanto richiesto dalla originaria funzione protettiva. Anche le antefisse talora consistono in figure o gruppi di figure intere a tutto tondo o ad altorilievo, cui è affidata una parte non del tutto secondaria nel programma narrativo, paragonabile a quella del coro nella tragedia di V secolo.
Il primo tempio decorato in Etruria secondo i principi e le tecniche della c.d. seconda fase è per noi il Tempio di Portonaccio a Veio, seguito a brevissima distanza di tempo dal più ellenizzante tempio Β di Pyrgi. Il tempio veiente si distingue per l'ineguagliata ricchezza della decorazione, figurata e non, e in particolare per la serie di statue acroteriali, anche a grandezza superiore al naturale, che in numero probabilmente di venti, secondo le più recenti ricerche, sorgevano sul colmo e sul margine dei lati corti del tetto, impegnate per lo più a distanza nella rappresentazione di «storie» mitologiche.
Restano le statue di Apollo e di Eracle, affrontati nella contesa per la cerva cerinite, alla presenza pacificatrice di Hermes, e quella di Latona con il piccolo Apollo che dardeggia il serpente Pitone. Al di là della scontata pluralità di mani, tutto il complesso, antefisse e altorilievi dei mutuli compresi, tradisce l'impronta di una spiccata personalità creatrice, che non può essere il già ricordato Vulca, attivo a Roma sul finire del regno di Tarquinio Prisco, ma piuttosto l'anonimo Veiens quidam artis figulinae prudens, autore delle quadrighe acroteriali (e certo anche del resto dell'ornato architettonico) del Tempio di Giove Capitolino, realizzate su commissione di Tarquinio il Superbo (Fest., p. 275 Müller).
Diversamente dai coroplasti ceriti, il Maestro dell'Apollo predilige forme scavate, tese, dinamiche, che colpiscono lo spettatore con l'icasticità imprevedibile di gesti e movenze. Comprensibilmente un tale operare rispondeva in pieno alle esigenze poste dalla collocazione assai in alto e in piena luce delle statue acroteriali (per la quale sono state chiamate a confronto senza eccessiva forzatura basiliche del Barocco romano). Il che contribuisce a spiegare la convinta ripresa di un tipo di apparato allora già antico, rifiutato con maggiore coerenza da chi ha progettato il tempio Β di Pyrgi e la maggior parte dei templi tuscanici dell'epoca (tuttavia con eccezioni come quella di Satricum).
Nella cerchia dell'officina veiente è stato da poco individuato un secondo e non meno dotato maestro, assai diverso dal Maestro dell'Apollo, che ha plasmato verso il 500 a.C. il gruppo di Eracle e di Atena riemerso dai depositi del Museo di Villa Giulia (Colonna). Il gruppo era probabilmente un grande donario, esposto nel pronao del tempio con chiaro riferimento all'ideologia tirannica dell'apoteosi. L'opera è animata da un'energia tutta interiore, che percorre il nudo dell'eroe-dio facendone vibrare le superfici, nella linea delle ricerche perseguite dalla coeva scultura attica.
Dietro le creazioni dei due maestri veienti si intravedono più in generale le esperienze della statuaria per eccellenza, la statuaria bronzea, rese possibili dalla nuova tecnica «samia» della fusione cava a cera persa e della saldatura a stagno. Non è un caso che nell'unico grande bronzo etrusco di V sec. giuntoci integro - la Lupa Capitolina - siano state avvertite sicure tracce della maniera artistica dei Veienti. Al contrario la testa superstite di un altro grande bronzo, proveniente da Ariccia e posto in relazione col simulacro tricorpore di Diana Nemorense quale è riprodotto su una moneta (Riis), ripropone verso il 500/490 a.C. la tendenza della bronzistica cerite verso le forme piene e luminose, cui i grandi occhi spalancati, un tempo colmi di materie colorate, conferivano la nota dominante. Sono le tendenze che ritroviamo negli acroteri della seconda fase del tempio di Satricum, raffiguranti una gigantomachia (Lulof), in cui le statue degli dei, in patente divergenza compositiva dal tempio veiente, sono accostate due a due come in un ritmato passo di danza. Il complesso può essere convenzionalmente assunto a punto di arrivo della coroplastica cerite tardo-arcaica, che aveva esordito nella c.d. seconda fase intorno al 510 a.C. con le raffinatissime manifestazioni di maturo ionismo degli altorilievi del tempio Β di Pyrgi (fatiche di Eracle) e del tempio in località Montetosto (testina di egiziano, forse Busiride), per poi avvicinarsi a modi eginetico-peloponnesiaci, inizialmente solo sul piano tipologico-iconografico (coperchio di grande cinerario con giovane simposiasta).
L'influsso della coroplastica e della bronzistica cerite s'intreccia nell'Etruria settentrionale interna con quello veiente. Se a Orvieto (gigantomachia Curtius, acroteri da Campo della Fiera e dalla Cannicella) e ad Arezzo (Piazza S. Jacopo) i più antichi altorilievi e acroteri templari hanno una inconfondibile impronta cerite, la nota testa bronzea Tyskiewicz, di cui ora si è appurata la provenienza dalla media Valdarno, tradisce nel viso nervoso e nella cornice di riccioli uncinati, rinviante alla Lupa, tratti veienti, forse non estranei anche alla statua apollinea di Chianciano, di cui resta solo parte del busto e della testa. Invece nell'Etruria nord-occidentale continuano a vigoreggiare anche nell'arcaismo finale modi nord-ionici, di probabile ascendenza foceo-massaliota. Monumento principe è verso il 500 a.C. la Testa Lorenzini di Volterra, in marmo apuano, che per le dimensioni superiori al vero è stata attribuita a una statua di culto. Poiché di marmo, in questo caso greco,; sono anche la c.d. Venere del Santuario della Cannicella e altri due simulacri dello stesso santuario di cui restano frustuli, sembra di intravedere in quest'epoca l'insorgere di una tendenza a scolpire in quel prezioso materiale le statue di culto. La tendenza non ebbe seguito, ma forse bastarono le manifestazioni tardo-arcaiche a far sedimentare nella tradizione antica la convinzione, anch'essa imputabile a Varrone, che gli Etruschi abbiano introdotto in Italia non solo la statuaria fittile (p.es. Tert., ApoL, XXV, 3) e bronzea (Cassiod., Var., VII, 15, 3), ma anche quella di marmo (Porphyr., Hor. Ep., II, 2, 180, p. 405 Holder).
La Testa Lorenzini si pone a capo di una serie di bronzi votivi, anche alquanto più recenti, rinvenuti nell'Etruria settentrionale e transappenninica (Monteguragazza, Verucchio), in passato per lo più ascritti all'officina vulcente. Quest'ultima sembra in realtà orientata soprattutto verso la produzione di suppellettili, vasellame e armi decorate con riporti e appliques figurate, fuse in uno stile ionizzante di sicuro e piacevole effetto decorativo. Sono candelabri, incensieri, tripodi a verghette, brocche, attingitoi, elmi, ecc., largamente richiesti anche fuori dall'area italiana, da Atene - dove sappiamo da fonti letterarie di V sec. a.C. che i bronzi etruschi erano molto apprezzati - all'Europa continentale. A Vulci va anche riportata una nutrita serie di scrigni istoriati d'avorio o d'osso, utilizzati nel mundus muliebris e forse anche, come contenitori d'incenso, nel rito del sacrificio. La loro produzione inizia nel segno di un maturo ionismo, con ricercate figurazioni mitologiche, per poi scadere, come accade alla coeva ceramografia, su livelli banali e ripetitivi. Tenuta anch'essa in gran conto fuori d'Etruria, non solo nel mondo greco ma anche in quello punico, non sembra risentire del calo di qualità per quanto riguarda l'intensità dell'esportazione. L'intero settore dei beni suntuari conosce del resto nel periodo tardo-arcaico uno sviluppo ragguardevole, dalle oreficerie, ora completamente rinnovate nei tipi e nelle tecniche, alle gemme e in particolare agli anelli-sigillo, che spesso alla raffigurazione di eroi greci accompagnano il relativo nome etruschizzato. Anche in questo ambito è stato rilevato l'apporto di intagliatori greco-orientali immigrati in Etruria, in particolare samii, come il Maestro del Dioniso di Boston (Mastrocinque).
Dopo il 500 a.C. la splendida congiuntura vissuta dall'Etruria anche sul piano artistico a partire dal conflitto di Alalia, comincia a declinare. A monte della crisi è il tramonto della grande emporia ionica, col suo intenso movimento di beni e di persone, surrogato solo per breve tempo da quella eginetica, come mostrano le scoperte epigrafiche dei santuari di Gravisca e di Adria. L'ambito delle relazioni esterne tende ora a restringersi alla Magna Grecia e alla Sicilia, cui subentra verso la metà del secolo Atene (esemplare al riguardo la composizione dell'unico ripostiglio di moneta greca di V sec. rinvenuto in Etruria, che rimane quello di Pyrgi). I ceti urbani intermedi già in rapida ascesa - cui è da imputare il definitivo consolidamento timocratico della città, a danno delle gentes e dei centri del territorio da esse dominati, nonché la spinta alla «colonizzazione» della Campania e della Valle Padana - perdono terreno di fronte alle élites di vecchia e nuova estrazione. Queste, vincendo, tendono a chiudersi in una ristretta oligarchia privilegiante i consumi pubblici a scapito di quelli privati (e più tardi la tesaurizzazione rispetto ai consumi tout court). Alla mobilità degli artisti in cerca di lavoro si sostituisce quella, più rarefatta e selezionata, di artisti chiamati per specifiche commissioni: esemplare è il caso di Damophilos e Gorgasos, i «plastae laudatissimi (...) iidem pictores» (Plin., Nat. hist., XXXV, 154), chiamati a Roma forse dalla Reggio del messeno Anassilao per decorare il tempio della triade aventina tra il 496 e il 493 a.C. Contemporaneamente il fabbisogno di ceramica d'arte (o, detto con un brutto neologismo, di «vasi-mercanzia») è coperto quasi per intero dall'importazione di ceramiche attiche, in parte anch'esse in qualche modo «commissionate» nella scelta delle fogge e delle tematiche raffigurate (si è arrivati a parlare di una produzione «delegata» da parte etrusca, forse con qualche esagerazione) (Torelli, 1985). Si arriva al punto che, appena dopo la metà del secolo, un greco Μήτρων firma in etrusco (Metru menece) una coppa della bottega del Pittore di Pentesilea, evidentemente destinata all'Etruria dove è stata rinvenuta.
Questo tipo di relazioni, pur intense, produce in Etruria una ellenizzazione procedente a salti, estremamente diseguale e incostante, in cui gli spunti di aggiornamento alle conquiste dello stile severo sono calati in modo più o meno felice in un tessuto connettivo che resta sostanzialmente tardo-arcaico. È il caso, per certi versi affascinante, di alcune notissime tombe tarquiniesi degli anni 480-450 a.C., dipinte da artisti dotati: le tombe del Triclinio, del Letto Funebre, della Scrofa Nera, 5513 e della. Nave, tutte in precario equilibrio tra conservatività e innovazione. Il tema ora dominante è quello del simposio, domestico e collettivo (donne comprese), celebrante la solidarietà interna e le relazioni gentilizie delle nuove élites, anche con aperture verso rituali ellenizzanti come il lettisternio (Tomba del Letto Funebre). Lo stile, intonato per lo più a compostezza e armonia, anche cromatica, tocca punte di manierata eleganza. Non manca qualche sorprendente novità, come il paesaggio marino della Tomba della Nave, con rocce, navi e barche scaglionate su piani diversi apparentemente secondo i principi della composizione polignotea.
Nella perdurante ceramografia a figure nere, per lo più di mediocre fattura nelle sue scene di genere dipinte a silhouette, prodotta in maggioranza in centri ancora artisticamente provinciali come Orvieto e Chiusi, un'«idria» con Epeo al lavoro si distingue solo per le scritte in greco, includenti un'acclamazione al modo attico, e appena più accurati appaiono i vasi del Pittore dei Satiri Danzanti. Di ottima qualità sono solo alcuni grandi vasi eseguiti a Vulci su commissione (Berlino F 2154, Würzburg L 799, Napoli H 2781), con robuste figurazioni narrative ispirate alla ceramica attica a figure rosse di stile tardo-arcaico e severo (per le teste si è citato il Pittore di Pistoxenos). Stilisticamente vicini sono specchi con complesse narrazioni mitologiche come quello da Palestrina con il ratto di Arianna e quello all'Ermitage con il trasporto del cadavere di Memnone.
Sempre a Vulci un notevole sforzo di aggiornamento è compiuto dalla bottega in cui lavora il meteco Arnth Praxias, che scrive in greco calcidese: bottega responsabile dell'introduzione della tecnica delle figure rosse suddipinte sulla vernice del vaso e animate dal disegno graffito o talora anche dipinto in rosso scuro. La produzione, imitante la coeva ceramica attica, è continuata dopo il 460-450 a.C. a Chiusi (Gruppo Vagnonville), con esiti di buona qualità, anche se generalmente compromessi dalla cattiva conservazione delle suddipinture.
Nella bronzistica, oltre agli specchi prima citati, sono tipici di questa età quelli a rilievo, pure vulcenti, con Eos e Cefalo e con Eracle e Mlacuch. Ma ancora più notevoli per il nuovo ethos che li pervade sono i gruppi di Peleo e Teti, Perseo e Medusa, fungenti da basi di un tripode monumentale, o quella sorta di vulneratus deficiens che è l'Aiace suicida da Populonia. Più tradizionale, anche se della metà del secolo, il Marte in assalto Firenze 586, che si propone col suo agile profilo tra i modelli che da Orvieto o Chiusi hanno agito sulla bronzistica votiva umbro-meridionale (Gruppo Todi). Infine tra i grandi bronzi si può forse collocare in questo orizzonte il leone ruggente a metà del vero già Campana all'Ermitage, ispirato a un'iconografia greco-orientale rara in Etruria (Brown, 1960): il contrasto cromatico tra la soffice massa della giubba e i nitidi piani del volto, dai dettagli incisi con intento esornativo, sembra continuare tendenze proprie della scuola cerite.
La grande coroplastica secondo la tradizione varroniana vede tramontare con Damophilos e Gorgasos lo stile «tuscanico», che aveva avuto in Vulca il massimo esponente. Un'eco diretta dell'attività romana dei due greci è stata vista nel torso dell'Esquilino di guerriero che cade ferito, notevole anche per la tecnica «corinzia» allora sconosciuta in Italia centrale. In Etruria la realizzazione più significativa sono gli altorilievi della fronte posteriore del tempio A di Pyrgi, dei quali si è potuto ricomporre per intero quello centrale, narrante due episodi della saga dei Sette contro Tebe: Zeus che fulmina Capaneo e Tideo caduto che colpisce alle spalle il morente Melanippo provocando lo sdegno di Atena. Una creazione originalissima sotto ogni (rispetto, che associa a modi ancora tardoarcaici una magistrale orchestrazione compositiva con sei personaggi interagenti tra loro su quattro piani diversi, senza confronto in tutta la coroplastica antica. Il risultato è uno straripante quadro plastico, che anche nella scarsa cura del dettaglio rivela di essere stato espressamente previsto per una visione dal basso e da lontano, ad almeno 12-15 111 di distanza. Un'opera indiscutibilmente posteriore alle terrecotte del secondo tempio di Satricum, cui pure è collegata da un'affinità di bottega, da porre al più presto verso il 470 a.C. (accogliendo la possibilità che lo stereobate del tempio sia rimasto per qualche tempo allo scoperto prima dell'accumulo del terrapieno esterno, datato dalla ceramica attica al 460-455 a.C.). Il superamento dei modi «eginetici» del complesso di Satricum avviene non nella direzione dello stile severo ma in quella di un rinnovato, quasi enfatico arcaismo, evidentemente sentito come più consono al genere «tragico» della rappresentazione.
Lo stesso linguaggio subarcaico parlano la grande antefissa cerite con Eracle dissetato da Atena e la bella testa ghignante di satiro da Orvieto-S. Giovanni Evangelista, mentre nel complesso abbastanza ben conservato dei Sassi Caduti di Falerii i tratti seriori appaiono ormai di matrice protoclassica. Si vedano, nella serie delle antefisse a coppia di satiro e menade, i riccioli della barba dell'uno e le ciocche sulle guance dell'altra; nel resto inedito di altorilievo i due efebi stanti, uno dei quali con bastone; nello stesso ben noto acroterio con i duellanti i lembi in vista dei chitonischi; nell'«acroterio» laterale a volute il fiore campanulato centrale. Tutto questo vieta, contro l'opinione vulgata, di pensare a una data anteriore al 460-450 a.C.
4. L'età classica e del primo ellenismo (metà v-metà iii sec. a.c.). - a) La fase alto-classica. - La svolta che, per impulso precipuo di Atene, portò il mondo greco alla classicità, trovò un'eco debole e tardiva in Etruria, nonostante i rapporti che gli Etruschi direttamente intrattenevano, ora anche e soprattutto attraverso il porto di Spina, con la città che era divenuta il cuore dell'Eliade. Le ragioni della riluttanza a impossessarsi del linguaggio figurativo classico risiedono almeno in parte nel mancato stimolo da parte della committenza pubblica, che almeno per una generazione, tra il 450 e il 420 a.C., ê del tutto languente: non si eressero templi in Etruria e a Roma nell'età di Fidia e del Partenone, né si fecero doni importanti nei santuari. Più in generale la contrazione dei consumi originata dalla mentalità oligarchica ormai imperante produsse un complessivo ridimensionamento delle produzioni artigianali, specie di beni artistici, solo in minima parte compensato dalle importazioni, ora anch'esse in subitaneo e rovinoso declino (tranne che nella Padania e, parzialmente, in Campania).
Contrariamente a quel che fino ad allora era stata la norma, l'atteso, anche se ritardato, ricambio stilistico non partì dalle città tirreniche ma da quelle dell'asse interno gravitante sui corsi del Tevere e della Chiana, da Veio a Falerii, da Orvieto a Chiusi e ad Arezzo. Sono città che non furono direttamente toccate dalla crisi della talassocrazia e dei commerci marittimi, provocata dal sempre più minaccioso affacciarsi nel medio Tirreno della potenza di Siracusa, tra la battaglia navale di Cuma (474 a.C.) e le scorrerie che portarono alla temporanea occupazione dell'Elba e forse della Corsica (453 a.C.). Sono città che al contrario trassero vantaggio dai vasti spazi «coloniali» recentemente aperti o potenziati nella Padania e in Campania, con gli ancor più vasti spazi «commerciali» che a essi stavano dietro, in direzione continentale e appenninico-adriatica. Espansione favorita dal cambio culturale lateniano e da quello in atto pure tra le popolazioni italiche dell'interno (come appare dallo sviluppo dell'umbra Todi, impensabile senza lo stimolo orvietano).
Nessuna produzione consente di seguire il travagliato affermarsi delle forme classiche in Etruria meglio della scultura in pietra di Chiusi. In questa città ritornano in auge verso il 460 a.C. le statue-cinerario sedute, ora però femminili, seguite più tardi da quelle di banchettanti su klìne, anch'esse già note in età arcaica nel Chiusino (Asciano). Committenti sono i principes locali che hanno ormai di nuovo in mano il potere dopo la parentesi, «popolare» e tirannica, dell'età di Porsenna (ma due tra le più antiche statue-cinerario provengono da una tomba principesca di Sovana, attestando un'insospettata influenza chiusina nell'alto Fiora). Le rare tombe dipinte prima (della Scimmia, del Colle, ecc.), le statue e i gruppi-cinerario poi sostituiscono l'artigianato dei cippi e delle urne scolpite a bassorilievo, che avevano in qualche modo rappresentato sul versante funerario le tendenze isonomiche del precedente periodo storico. Lo stile muove da formulazioni subarcaiche, consonanti con le più tarde tombe dipinte ma già improntate nelle teste a una severità protoclassica (p.es. la statua della Marcianella), per arrivare verso il 440-430 a risultati di piena coerenza formale, che vanno già oltre l'insegnamento del Maestro di Olimpia (la c.d. Mater Matuta di Chianciano). Più tardi i modi protoclassici non vengono mai del tutto abbandonati - e anzi conferiranno un certo sapore locale a tutta l'arte classica in Etruria fino alla metà del IV sec. e oltre - ma s'intrecciano prima con echi policletei, specie, nelle capigliature e nei nudi, poi con ricercatezze post-fidiache nei panneggi.
Alla fine del secolo s'incontrano manifestazioni tra le più riuscite della classicità etrusca, come il gruppo del banchettante con Vanth esibente il rotolo (da Chianciano) e la statua seduta da Marciano a Berlino. Sul piano dei contenuti il ritorno alle statue di seduti e ai gruppi di recumbenti avviene nel segno della religione, perché il posto dei primi è preso da una dea infera, rappresentata ben presto come curotrofa su un trono fiancheggiato da sfingi e coperto da pelle ferina (Phersipnei-Cavatha?), mentre nei secondi il posto della consorte è preso dal demone Vanth in atteggiamento protettivo: quando compare la donna viene assimilata a una «sposa» divina, con il poggiapiedi conformato eccezionalmente ad altare (urna del Bottarone, in alabastro, di stile severizzante di primo IV secolo). Il posto che occupa la religione nell'ideologia del magnate è sottolineato del resto dal berretto di aruspice posato sui libri sacri nel Gruppo di Berlino.
Mancano finora a Chiusi testimonianze di pari impegno nella coroplastica (a parte alcune antefisse a testa femminile di stile protoclassico dall'aspetto «imbronciato»), mentre assai notevole è la bronzistica. Un'opera di raffinata cultura arcaizzante, pur nella diffusa ispirazione a modi severi, è il colossale lampadario di Cortona, dono votivo, come sarà esplicitato da una targhetta appostagli in età ellenistica, della gens dei Mušni: una collocazione nel tardo V sec. sembra richiesta dalle nervose testine di Acheloo (da avvicinare a un pendaglio aureo da Preneste della Collezione Barberini). All'iniziale IV sec. risalgono l'eccezionale trasposizione in bronzo di una statua-cinerario di banchettante da Perugia, di stile compiutamente classico; l'affine, ma più evoluta, Testa Carpegna dal Montefeltro e quella da Tarquinia edita da M. Torelli (confrontabile con la testa di un gruppo cinerario chiusino a Palermo, inv. 8348).
Un ruolo di primo piano nell'introduzione di forme classiche in Etruria è stato certamente rivestito da Veio. La città tiberina, confermatasi dominatrice delle vie interne del Lazio dopo la vittoria sui Fabii al Cremera (477 a.C.) e l'indebolimento della Lega Latina provocato dalla pressione di Equi e di Volsci, aveva continuato a ricevere tenui ma ininterrotti flussi di cultura greca da Taranto e da Neapolis, attraverso la mediazione di Capua (via Preneste) e forse anche del porto di Anzio. Nei suoi santuari, a cominciare da quello del Portonaccio, l'innesto di forme protoclassiche e poi schiettamente classiche si può seguire, come in un fervido laboratorio, nella produzione delle statue votive e delle teste plasmate a stampo: un'innovazione questa di lontana ispirazione magnogreca, che apre la via alla valanga di ex voto anatomici che inonderà nel IV-III sec. il Lazio e l'Etruria centro-meridionale. Le statue rappresentano offerenti che indossano l’himàtion alla greca o sono in nudità eroica, echeggiando il canone policleteo. Tra le teste eccelle la Testa Malavolta, dai tratti acerbamente aggressivi, penetranti quasi fossero un ritratto. La maniera manifestamente metallica, tradizionale a Veio, evoca una coeva bronzistica, che purtroppo ci è praticamente sconosciuta (veiente potrebbe essere, anche per la grafia dell'iscrizione, il bronzetto di Eracle di inizio IV sec. a Toledo negli USA).
Anche Falerii partecipa, come provano le teste fittili e i bronzetti votivi (del Ninfeo Rosa), del medesimo clima artistico, del resto già chiaramente annunciato dalle terrecotte templari dei Sassi Caduti. Ma è Orvieto la città che, alla saldatura della valle del Tevere con il bacino della Chiana, offre le testimonianze più significative per la ripresa in chiave classica della coroplastica architettonica, dopo il vuoto dei decenni centrali del secolo. La città, assurta a un ruolo di primo piano anche in quanto probabile sede del santuario federale degli Etruschi, il fanum Voltumnae, promuove dal 430-420 a.C. un denso programma di costruzioni o ricostruzioni templari, che nell'arco di un cinquantennio interessa i santuari di Vigna Grande, Via S. Leonardo, Cannicella e Belvedere. Particolarmente pregevoli i resti di altorilievi da Via S. Leonardo, nel cuore della città, includenti un torso di eroe e alcune teste di impronta robustamente classica, nonostante le scontate reminiscenze severe: teste alla quali può essere avvicinata una barbata, ora a Londra. Il complesso del Belvedere conclude, assieme a quello della Cannicella, la grande stagione orvietana, offrendo un ciclo di altorilievi in cui si è recentemente riconosciuto un episodio dell'assedio di Troia (il sorteggio tra gli Achei del campione da opporre a Ettore), narrato con molta efficacia, anche psicologica, non senza tuttavia forzature espressive di gusto «locale».
Contemporaneamente Orvieto si segnala come sede di una bronzistica di alto livello, anche se non omogenea stilisticamente. La scandiscono nel tempo opere quali la statua votiva del Marte di Todi, donata dall'umbro Ahal Trutitis, ispirata con qualche incomprensione a modelli fidiaci (Roncalli, 1973); la statua virile di cui resta la testa (dal lago di Bolsena), singolarmente vicina a taluni raggelati esiti della scultura in pietra chiusina (testa di Berlino R 32) e nello stesso tempo prezioso incunabolo, nella sua compatta stereometria, del ritratto medioitalico; la testa pure di Marte da Cagli, che offre un'immagine del dio soffusa di giovanile fulgore. Bastano questi grandi bronzi - ai quali si può forse aggiungere il più modesto Giove Strozzi per la sua vicinanza alle statue del Belvedere - a dare un senso alla «battuta» di Metrodoro di Scepsi sulle duemila statue bronzee rapinate dai Romani col sacco di Volsinii del 264 a.C. (Plin., Nat. hist., XXXIV, 34), anche se nella maggior parte dei casi si sarà trattato al massimo di statue tripedanee, grandi circa metà del vero (Roncalli, 1982).
Le città dell'Etruria marittima non offrono molto, al confronto, nel periodo in esame. Una ripresa assai limitata delle decorazioni templari si constata a Pyrgi verso la fine del V sec. con i resti degli altorilievi dei mutuli della fronte A del tempio, occupati da una movimentata Amazzonomachia, in cui lo scudo di un'amazzone vincente penetra di taglio nel fondo con un insolito scorcio. La scultura in pietra viene maldestramente affrontata a Cerveteri col sarcofago di magistrato al Vaticano, un monumento tanto anticipatore nei temi e nella tipologia quanto conservatore nello stile e rozzo nell'esecuzione (da qui le incertezze sulla cronologia, che comunque è fissata al più tardi al primo quarto del IV sec. dalla collocazione, solo di recente accertata, in una tomba a camera anteriore di almeno una generazione, per la sua tipologia, rispetto a quella contigua e comunicante dei Sarcofagi, databile a sua volta per varie considerazioni al secondo quarto del secolo). Il defunto è raffigurato supino sul coperchio displuviato, con la stessa incongrua soluzione adottata sui sarcofagi greco-punici (peraltro finora documentata solo da epoca un poco più tarda). Su due lati della cassa si snoda il corteo del defunto che, seguito dalla biga, si accompagna a piedi alla moglie, preceduto da musici, danzatori e apparitori. È questa la prima, e largamente anomala, occorrenza di un tema che godrà ben presto di una larghissima popolarità.
A Tarquinia continua il costume di affrescare le tombe a camera, pur notevolmente diminuite di numero. Sono riproposti temi, iconografie e forme stilistiche di tradizione arcaica, con sporadiche innovazioni. Il simposio è sostituito nella Tomba del Gorgòneion da una coppia di conversanti in un paesaggio di alberelli; nella Tomba dei Pigmei fa una solitaria apparizione il tema, di chiaro significato funerario, della lotta tra gru e pigmei, assieme a quello del viaggio della defunta sulla mula; infine nella Tomba dei Demoni Azzurri, scoperta nel 1985, al reditus «trionfale» dell'uomo retrospiciente è contrapposta la catabasi della donna che, superate le rocce liminari popolate di demoni minacciosi, incontra madre e figlia premorte sulla riva del fiume infernale, dove l'aspetta Caronte sulla barca, in quella che è la prima nèkyia conosciuta in Etruria.
A Vulci fin verso il 400 a.C. è stato attivo un artigianato notevolmente innovatore, ma solo nel ramo élitario dei beni di prestigio: gemme, oreficerie e soprattutto specchi. Questi ultimi comprendono squisite manifestazioni di stile protoclassico (Eracle e Atlante) e classico, sia a rilievo (Talos e i Boreadi a Berlino, Prometeo liberato a Cracovia, Filottete e Macaone a Bologna) che a disegno (Celsclan, Peleo e Atalanta, Calcante e molti altri). Di formazione vulcente è probabilmente il Maestro di Semele, dai raffinati modi meidiaci, attivo a Chiusi (come provano le didascalie in ortografia settentrionale) all'inizio del IV sec., accanto a più modesti decoratori locali (come quello del c.d. specchio di Avia). Chiusini sono del resto per le didascalie già alla fine del V sec. lo specchio con Achille e Aiace (Telmunuś) a Basilea e, ancor prima, quello con Eracle (Herkle) e Atena da Perugia, affine per stile al Gruppo Vagnonville.
Nella ceramografia il primato nell'introduzione delle genuine figure rosse spetta, secondo le più recenti ricerche, non a Vulci ma, com'era da aspettarsi, ai centri della contigua Etruria interna. Dopo un isolato tentativo orvietano di prima metà del V sec. e altri più riusciti a Chiusi della metà del secolo, paralleli ai successi del Gruppo Vagnonville nella suddipintura, prende piede a Chiusi dal 420 c.a una bottega che produce coppe apode e grandi vasi da simposio, banalmente atticizzanti, rinvenuti nella Valdichiana con punte nel Senese, a Volterra e a Bologna (Gruppo dello Stàmnos di Bologna 824 e simili) (Gilotta, 1986; Bruni, 1993). Una coppa da Grotti conserva la firma in grafia settentrionale di un servo, Hezi Utaveš, il cui padrone mostra nel gentilizio Utave, identico a un nome individuale di origine italica, la sua bassa estrazione sociale. Di ben altra qualità è l'opera del Pittore degli Argonauti, attivo probabilmente anch'egli a Chiusi nei primi decenni del IV sec., e soprattutto quella del meidiaco, raffinatissimo Pittore di Perugia, continuata nel secondo quarto del secolo dal Pittore di Sommavilla (Gilotta, 1984), meno dotato anche se non esita a usare il greco nelle battute attribuite ai personaggi di una scena di iniziazione dionisiaca (Jolivet, 1993). Per la localizzazione di entrambi si può proporre, tenendo conto del prevalere delle provenienze «tiberine», Orvieto.
A Vulci nel contempo si assiste a un fenomeno singolare: si avvia una produzione a figure rosse che fa posto a una pedissequa ripresa di soggetti, iconografie e stilemi della ceramografia attica di pieno V sec., accanto a più moderni, ma anche assai più fiochi, prestiti apuli e finanche falisci. Caso limite è la coppa Rodin, evocante nel tondo Invidentemente proverbiale otre di vino di Aulo Vibenna (una storia «nazionale», trattata nello stile del tempo), mentre il fregio esterno ricalca quello di una coppa della cerchia di Douris, rinvenuta proprio a Vulci. Si comprende così l'oscillazione di data tra il 450 (Beazley, 1947; Shefton, 1967) e il 380 o poco dopo (Gilotta, 1984 Cristofani, 1987; inaccettabili, in questo come negli altri casi, le date ancora più basse di U. Fischer-Graf, 1980). Nella scia della coppa Rodin sono i pittori della Biga Vaticana, di Londra F 484 e, più tardi, del Cratere di Populonia. L'atteggiamento retrospettivo e autarchico denuncia quel tanto di isolamento culturale che colpisce Vulci e le altre metropoli costiere nel primo IV sec., quando l'ostilità marittima di Siracusa tocca il suo apice con le imprese di Dionigi il Vecchio (sacco di Pyrgi e della Corsica nel 384 a.C.).
Al polo opposto l'Etruria padana conosce nella seconda metà del V sec. un momento di grande floridezza e apertura alla grecità, che però non riesce a tradursi in opere di adeguato livello per l'assenza di una solida tradizione artigianale. Il ricco corpus delle stele funerarie felsinee decorate a bassorilievo con raffigurazioni prevalentemente di ludi funerari, del viaggio verso l'aldilà (a piedi, a cavallo e su carro) e di scene di commiato testimonia la formazione di un linguaggio atticizzante intessuto di modi severi e protoclassici, dalle buone capacità narrative ma piuttosto sommario e semplificato. Contrariamente a quel che riteneva P. Ducati gli esemplari recenziori non scendono più in basso dell'inizio del IV sec. (Sassatelli, 1984). Un goffo tentativo di scultura in marmo di stile postfidiaco è messo in atto a Rimini al volgere del secolo con due piccole statue votive di divinità femminili (ora a Copenaghen). Nella coroplastica architettonica, pressoché assente, si segnala l'acroterio con figura alata dal santuario della fonte di Marzabotto, di buone forme protoclassiche. Notevole anche la produzione di piccola plastica bronzea, sia votiva che applicata, specialmente in funzione di sommità di candelabri, che una bottega spinetica o, più probabilmente, bolognese produce imitando inizialmente modelli vulcenti.
b) La fase tardo-classica e alto-ellenistica. - La crisi del V sec. trovò la sua conclusione definitiva solo dopo il conflitto tra Roma e Veio, che coinvolse i Capenati e i Falisci, e dopo la grande invasione gallica che travolse l'Etruria padana, ripercuotendosi pesantemente su Chiusi e sul distretto tiberino. A essa seguì la già ricordata offensiva siracusana sul mare che colpì duramente Caere avvicinandola stabilmente a Roma. L'Etruria così ridisegnata nei suoi confini geografico-culturali e ridimensionata nel suo ruolo internazionale iniziò un processo di riorganizzazione interna, a livello delle singole città. Ne derivò, con tempi e meccanismi purtroppo solo intuibili dalle fonti archeologiche (praticamente le sole a nostra disposizione), un più diretto impegno politico dei principes, allargato, specialmente nelle città meridionali, a frange sempre più larghe di ceti medio-bassi (mentre nel Nord e a Volsinii le rivolte e i colpi di stato «servili» denunciano il permanere di forme arcaiche di dipendenza). Una volta minato nelle sue fondamenta l'assetto oligarchico della società, vennero meno anche i freni che avevano a lungo gravato sui consumi e sull'esibizione della ricchezza. Rifiorirono, tra l'altro, i centri minori, penalizzati a suo tempo dalle spinte centripete emananti dalle città tardo-arcaiche, con particolare rilevanza nelle aree interne, dal viterbese (S. Giuliano, Blera, Norchia, Castel d'Asso, Tuscania) alle valli del Fiora e dell'Albegna (Sovana, Saturnia, Magliano). Si affermò una nuova coscienza civica, esaltante i valori della virtus individuale e del buon governo, non senza influsso delle dottrine neopitagoriche che avevano trovato a Taranto il massimo esponente in Archita. Contemporaneamente ebbero un dilagante sviluppo, anche a livello «popolare», le credenze e le pratiche misteriche, specialmente dionisiache, già penetrate in Etruria da Cuma in pieno V sec., ma ora tali da incidere vistosamente nel costume e nell'immaginario, soprattutto funerario.
La risorta committenza pubblica si manifestò anzitutto nella costruzione e nella decorazione dei templi, che dal 380 a.C. in poi si moltiplicano in tutta l'Etruria meridionale. Particolarmente brillante è il caso di Falerii, la città che, dopo l'annientamento di Veio, èra divenuto il principale baluardo antiromano d'Etruria, in stretto rapporto con Tarquinia. Recenti riscoperte nei depositi del Museo di Villa Giulia hanno consentito di appurare che la nota testa barbata dallo Scasato, ritenuta finora con troppa fiducia una replica dello Zeus fidiaco, appartiene invece a un complesso di altorilievi, acroteri e antefisse, decorante un tempio eretto probabilmente verso il 380 sul ciglio orientale della città (Scasato II), scavato nel 1924 e rimasto incredibilmente inedito (Colonna, 1992; Cristofani, Coen, 1991-1992). Oltre ai resti di una Atena in peplo, l'altorilievo principale annovera una Era dal volto affilato e nervoso, che rinvia a opere come il Marte di Cagli e la Velia della Tomba dell'Orco I, mentre l'ambito di riferimento delle teste barbate resta la grande scultura attica, ma di livello post-fidiaco. Terrecotte più modeste, ma sempre di ispirazione medio-classica, sono la testa di Hermes dal tempio dell'acropoli in località Vignale e l'acroterio con Vittoria volante dal santuario di frontiera presso Fabrica di Roma.
Alla metà del secolo, all'indomani della guerra condotta con Tarquinia contro Roma negli anni 358-351, dovrebbe risalire la massima iniziativa architettonica della città, il monumentale tempio suburbano di Giunone Curite, probabilmente concepito come una celebrazione delle pretese origini argive dell’èthnos falisco. Restano avanzi degli altorilievi, tra i quali la superba figura di dea stante con una mano al fianco e la gamba di scarico accavallata, avvolta in un manto ricamato dalla grandiosa cascata di pieghe. Le pitture su terracotta, che rivestivano l'interno del tempio con figure a due terzi del vero entro ricche cornici a palmette e fiori di loto, mostrano uno stile quasi ancora parrasiano, del tutto affidato al disegno. Poco più tardo è il rinnovo della decorazione del Tempio dei Sassi Caduti, di cui resta l'altorilievo con le gambe vigorose di un Hermes stante. Nel tardo IV sec. si colloca la costruzione, al centro della città, del tempio dello Scasato I, forse sacro ad Apollo-Soranus: i resti dei suoi altorilievi e delle sue antefisse a gruppi di figure sono tra le più riuscite creazioni della coroplastica etrusca di tutti i tempi, di stampo protoellenistico mediato chiaramente da Taranto (evidente soprattutto nelle antefisse, forse decoranti un portico leggermente posteriore). Né le prestazioni della feconda officina falisca, i cui echi arrivano a Roma (teste da un tempio del Palatino, forse quello della Vittoria, dedicato nel 294 a.C.), si arrestano qui. Basti ricordare, tra le terrecotte adespote, l'altorilievo «paesistico» con eroina incatenata alla roccia, di gusto ancora classicheggiante, e quello con Eracle (o Dioniso ?) seduto, a Bruxelles, dalle forme sfumate, quali alessandrine, che ritornano in una testa maschile a Copenaghen probabilmente dallo stesso complesso, certo di pieno III secolo.
Sulla fascia costiera maestranze probabilmente orvietane partecipano, nella prima metà del IV sec., alla decorazione del «Tempio Grande» di Vulci (testa di Eracle da altorilievo) e, a giudicare dalle antefisse, del tempio colossale dell'Ara della Regina a Tarquinia, allora rinnovato in forme monumentali. Il resto meglio apprezzabile degli altorilievi mostra il ben noto tiro di cavalli alati, di stile pienamente classico, scalpitanti in attesa di spiccare il volo con l'ignoto auriga divino, in quello che era certamente il mutulo sinistro della facciata. Stridente è il contrasto con le gambe della figura femminile di un altro frammento, fasciate da un manto privo affatto di pieghe, di aspetto severo se non arcaizzante anche nel fitto ornato a fiori (che ricorda l'egida dell'Atena del complesso del Belvedere a Orvieto). Ogni richiamo retrospettivo è invece superato nell'altorilievo che poco dopo la metà del secolo fu applicato al columen anteriore del tempio A di Pyrgi, di cui notevoli porzioni sono state rinvenute tra il 1970 e il 1971. Il tema della composizione a quattro figure stanti sembra essere l'ospitalità garantita da Eracle alla spaurita Leucotea e al giovane Palemone: un tema esaltante il ruolo emporico del santuario in complementarietà, più che in concorrenza, con l'alleata Roma e i santuari del porto tiberino. Lo stile, appena venato di ricordi post-fidiaci nella fremente capigliatura dell'eroina, assume movenze prassiteliche nel nudo di Eracle. Meritano anche di essere ricordati i resti di altorilievi alto-ellenistici da Blera (v.) e da Vulci, quest'ultimo pertinente a un tempietto eretto nel secondo quarto del III sec. nella necropoli e raffigurante le nozze di Dioniso e Arianna. Il dionisismo dilagante è riflesso anche nel fregio di un tempio ceretano con le teste del dio e dell'eroina sorgenti da cespi d'acanto tra figurine di Eroti e floridi racemi vegetali, di evidente matrice tarantina. Nell'Etruria settentrionale si possono ricordare le lastre da Arezzo con nereidi portatrici di armi, da Via G. Monaco, riferibili a un tempio ancora di prima metà del IV secolo.
Un settore dove pure è lecito attendersi almeno lo stimolo della committenza pubblica è quello dei donari offerti nei santuari, specialmente nel caso di grandi bronzi. Un esempio particolarmente ragguardevole è la Chimera d'Arezzo che, pur iscritta, non menziona il dedicante, autorizzando così l'ipotesi di un dono della città. L'attribuzione a bottega chiusina (Colonna, 1985; Cristofani, 1991) è imposta dai caratteri dell'iscrizione, assieme a una cronologia non anteriore alla metà e forse all'ultimo quarto del secolo: la cifra arcaizzante del pelame irto reso con ciocche triangolari striate si conserva a lungo anche in Grecia (basti citare il mosaico di Pella con la caccia di Alessandro), né basta il convenzionale apparato della maschera facciale a giustificare una datazione alta.
Alla categoria dei donari pubblici spettano probabilmente anche le statue-ritratto in bronzo, nell'ipotesi non peregrina che assolvessero a una funzione onoraria: statue di cui ci restano le teste, tutte di livello qualitativo alto. Oltre a quella già citata dal lago di Bolsena possediamo la testa di giovane del museo di Firenze, avvicinabile alle teste della Tomba Golini I di Orvieto e quindi databile verso la metà del IV sec., e quella virile sbarbata da Fiesole, già toccata da echi ellenistici nell'espressione accigliata, evocante i ritratti di Pirro e di Filetero. Si aggiunge, ovviamente, il Bruto Capitolino, della cui provenienza nulla sappiamo, per il quale non è forse fuor di luogo richiamare l'intensa espressione di un ritratto come quello di Mausolo. Il ritrovare caratteri non dissimili nella testa virile sbarbata di S. Giovanni Lipioni nel cuore del Sannio, opera verosimilmente di un bronzista campano, non è che uno fra i tanti segnali della koinè artistica saldamente stabilita a partire dal momento tardo-classico fra Etruria, Lazio e Campania, nella cornice di una Italia «media» che Roma si accingeva a unificare anche culturalmente.
Non mancano riflessi della ritrattistica medioitalica nelle terrecotte votive, che dal tardo IV sec. divengono sempre più frequenti, come mostrano i depositi dei santuari specialmente di Cerveteri, Falerii e Tarquinia, ma è soprattutto con i coperchi dei sarcofagi in pietra dell'Etruria meridionale e di Chiusi (v. sarcofago) che sono insistenti i richiami. I ritratti dei sarcofagi - sempre intenzionali e non fisionomici - rispecchiano in realtà un arco assai vasto di esperienze, che va dalla scultura classica volsiniese del livello del Tempio del Belvedere (coperchio di Villa Bruschi a Tarquinia) e della testa del lago di Bolsena (coperchio bisome di nenfro da Vulci) alla scultura attica tardo-classica (coperchio bisome di alabastro da Vulci). Il filone dei ritratti bronzei medioitalici è evocato da numerosissime testimonianze di seconda metà del IV-prima metà del III sec., spazianti dai sarcofagi tarquiniesi del Magnate (Tomba dei Partunu) e del Poeta al coperchio chiusino dell'Obeso. La tendenza alla semplificazione e all'esaltazione geometrica dei volumi si rivela del resto in questa età con manifestazioni estreme, tra le più originali di tutta la scultura etrusca, nei sarcofagi dell'entroterra tarquiniese (S. Giuliano, Norchia) e in talune urne e statue femminili sedute di Chiusi (come quella di una Lauchmsneì). I ritratti dei sarcofagi e delle urne consentono inoltre di cogliere dal vivo, come e meglio delle coeve teste fittili votive, l'affermarsi del modello «eroico» e patetico del primo ellenismo, ispirato dai ritratti di Alessandro e soprattutto dei vari diadochi. Su questa via dal sarcofago alabastrino dell'Obeso della Tomba dei Partunu e da quello monumentale di Arnth Churcles di Norchia si arriva, nel secondo quarto del III sec., al notissimo sarcofago di Laris Pulenas e alla splendida urna fittile chiusina del Worcester Art Museum.
Mentre i coperchi di sarcofagi e urne ritraggono il defunto per lo più nella veste generica del banchettante che liba, talora con gli attributi del mỳstes dionisiaco (tra i quali è da annoverare il rotulo), nei bassorilievi delle casse si fanno strada dal 300 a.C. in poi le esigenze di autocelebrazione della nuova classe dei nobiles, protagonisti dello scenario politico dell'Etruria meridionale all'epoca del confronto con Roma. Entro una tematica funeraria largamente rinnovata dal ricorso sempre più frequente a racconti o spezzoni di racconto epico-mitologici, dal sacrificio dei prigionieri troiani a quello di Troilo o Polissena, dalle Amazzonomachie agli episodi del ciclo tebano, assume evidenza il tema squisitamente etrusco del viaggio agli Inferi, già canonico sulle stele felsinee, ma ora rivolto all'esaltazione del defunto in quanto magistrato e uomo pubblico. Dopo formulazioni ancora sperimentali, come quella del sarcofago cerite sopra ricordato, il viaggio assume il carattere di una discesa «matrimoniale» agli Inferi (sarcofago bisomo vulcente di nenfro) o dell'incontro del defunto su biga con una dea tricorpore (sarcofago pure vulcente a Copenaghen). A queste raffigurazioni, avvicinabili nella loro varietà tematica e iconografica alle tombe dipinte Golini e degli Scudi, segue il vero e proprio corteo magistratuale, la cui prima testimonianza, dopo il fregio delle tombe a tempio di Norchia, è offerta dal sarcofago di Tuscania con il magistrato in biga accompagnato dallo scriba e preceduto dai littori, quasi a commento visivo dell'«elogio» epigrafico scolpito nella fascia soprastante. Il tema ha una straordinaria popolarità sui sarcofagi di III sec., sopravvivendo al declino delle narrazioni mitologiche e anche dei comuni gruppi antitetici di eroti o mostri marini, sì da arrivare, in forme sempre più degradate, sino alla prima metà del II secolo a.C.
La tomba con sarcofagi scolpiti (o eccezionalmente dipinti) è l'innovazione che nel periodo tardo-classico s'incontra nell'Etruria meridionale in alternativa alla tradizionale tomba dipinta. Quest'ultima rimane, almeno fino alla metà del III sec., appannaggio di poche grandi famiglie. A Tarquinia la Tomba dell'Orco I ripropone verso il 380-370 a.C. il tema del simposio gentilizio in una dimensione infera, manifestata dai demoni che inquadravano la nicchia con la klìne del capostipite e dalle «nubi» avvolgenti come in un alone le figure proiettandole in uno spazio oltremondano. Stile e tecnica pittorica rivelano una matrice ancora pienamente classica, specie nel ruolo preminente assegnato al disegno, mentre le lunghe iscrizioni esaltano i meriti pubblici acquisiti dai defunti. Sulla stessa linea si collocano le tombe orvietane Golini e la tomba tarquiniese degli Scudi: il banchetto dei defunti con i loro antenati avviene al cospetto della coppia di Ade e Persefone in trono (Golini I), come il banchetto dei Giusti secondo la dottrina neo-pitagorica, ed è preceduto dal corteo del defunto più illustre che incede sulla biga accompagnato da musici e da littori. Nella Tomba degli Scudi, che scende verso il 340 a.C., compare un modesto uso di velature accanto al perdurante dominio della linea di contorno, mentre l'alone nero è divenuto un fondale interrotto in alto da una fascia risparmiata sulla quale si stagliano le teste delle figure. Queste mostrano un palese intento ritrattistico, di intonazione «medioitalica», in sintonia con le coeve statue dei sarcofagi e con una non meno evidente volontà di eroicizzazione nei confronti degli antenati.
Con la Tomba dell'Orco II - appartenente alla stessa famiglia, forse gli Spurina, che possedeva la Tomba dell'Orco I - irrompe per la seconda volta nella pittura funeraria tarquiniese il tema squisitamente greco della nèkyia, questa volta forse ispirato alla recentissima creazione di Nicia piuttosto che a quella di Polignoto. La solo parziale conservazione delle pareti (anche a seguito dell'apertura di un vano di comunicazione tra le due tombe) non consente una piena conoscenza del programma figurativo. Dopo un probabile sacrificio preliminare appare la palude d'Acheronte folta di canne tra le quali si aggirano demoni ed eroi e saltellano gli èidola evocati da Tiresia. Segue, sulla parete di fondo, l'antro con Ade e Persefone guardato da Gerione e quindi, probabilmente, il banchetto dei defunti in cospetto della coppia infernale, in gran parte compreso in una nicchia successivamente distrutta. Chiudeva la rappresentazione il paesaggio del Tartaro con le pene di Teseo e di Sisifo. La forte tensione, in senso mistico-religioso, si coniuga a un uso largo ma non sistematico del chiaroscuro, sia a tratteggio che tonale, chiaroscuro che ritorna in forme ancor più raffinate nelle pitture del Sarcofago delle Amazzoni e di quello del Magnate (queste ultime solo da poco riscoperte). Più avanzata ancora in questa direzione è la straordinaria Tomba François di Vulci, in cui i temi sino allora affrontati dalla pittura funeraria si fondono in una sintesi affatto originale, arricchita insolitamente da un fregio animalistico e da altri di tipo architettonico, nonché nella cella principale da una decorazione di I stile. Il grande fregio comprende nel settore d'ingresso personaggi mitici alludenti alla morte e alle pene dell'Ade; nel settore destro la glorificazione del fondatore della tomba, Vel Saties, raffigurato in veste di trionfatore nel prendere gli auspici (come dovevano apparire i personaggi di molte statue onorarie); nel settore sinistro e di fondo eroi e gesta della guerra di Troia cui è intercalato il fratricidio tebano, contrapposti studiatamente alla saga nazionale di Mastarna e dei fratelli Vibenna, evocante antiche vittorie vulcenti su Roma e sugli alleati etruschi di Roma. Il messaggio etico-politico sembra essere quello della concordia e dell'alleanza panetrusca, che sola potrà condurre a una nuova vittoria su Roma-Troia.
Con il primo ellenismo, a partire dalla fine del IV sec., le complesse costruzioni narrative del genere di quelle delle tombe dell'Orco II e François, o della perduta Tomba Campanari, praticamente scompaiono. Nella tomba tarquiniese Giglioli, eccezionalmente corredata ab origine di sarcofagi a cassa rupestre (del comune tipo a cofano ligneo), il fregio d'armi e d'insegne magistratuali allude al trionfo e alla virtus in chiave simbolica, attraverso il recupero di un antico motivo ornamentale tornato attuale con l'arte macedone e reso con una maniera pittorica tutta basata sul colore e sui lumi. Nella Tomba dei Festoni, che verso il 280 a.C. inaugura il tipo di camera a cielo piano e gradinate a U per i sarcofagi, il fregio parietale accoglie ormai solo scudi, festoni e ghirlande, con zoccolo di crustae a finto marmo, mentre nei lunghi comparti dei lacunari si snodano a suddipintura policroma su fondo nero fregi di girali con eroti alternati a mostri marini, resi con una tecnica a macchia di tipo compendiario, puramente ellenistica: evidente è il rapporto con le esperienze vascolari tarantine (ceramica di Gnathia) e con quelle romane della classe dei pocola deorum (Bianchi Bandinelli, 1973). Con la stessa maniera sono realizzati i fregi miniaturistici sui pilastri della Tomba del Cardinale e quelli a girali sugli pseudo-sarcofagi della Tomba degli Anina I, mentre le figure di demoni all'ingresso della stessa tomba e quelle della Tomba dei Caronti continuano, appesantito, il cromatismo a lumi della Tomba Giglioli. Un buon esempio di questo genere di pittura è ora offerto anche dalle palme dipinte in un recesso dell'edificio sotterraneo, forse adibito a culti misterici, esistente presso il teatro di Cerveteri, la cui datazione intorno al 270 a.C. risulta da un graffito con il nome del pretore C. Genucius Clevsina.
La tradizione dei grandi cicli narrativi è ripresa, in chiave profondamente diversa, da alcune tombe tarquiniesi in cui pressoché unico tema, ripetuto più volte, è il corteo magistratuale, che già aveva fatto la sua apparizione, in forme non canoniche, nel settore d'ingresso delle tombe Golini e degli Scudi e, a rilievo, nelle tombe a tempio di Norchia. Caposaldo anche cronologico è la Tomba Bruschi, i cui coperchi di sarcofago a figura femminile supina (riscoperti negli anni '60 e ancora inediti), risalgono alla stessa età della Tomba Giglioli. Sulla parete principale è rappresentato l'incontro nell'Ade, alla presenza di demoni, del corteo del fondatore della tomba, Vel Apnas, con gli ascendenti e con i figli premorti, mentre sulla parete sinistra è il corteo di un imperator a cavallo (il padre?), preceduto a distanza dal gruppo di una dama (la madre ?) che si specchia con l'aiuto di un'ancella; sulla parete destra avanza invece il corteo di un magistrato in carica affiancato dalla moglie (forse il nonno e la nonna paterni). Netto è il contrasto tra le figure isolate, messe in evidenza anche dal buon impasto cromatico sorretto da chiaroscuro tonale, e quelle assiepate e seminascoste nelle sequenze dei cortei, rese con poche e larghe pennellate facendo ricorso a proporzioni maggiorate per i protagonisti. Questa maniera economica e popolaresca, già affiorante nella Tomba Golini II, informa interamente di sé la Tomba del Convegno, venuta in luce nel 1970, che non può scendere oltre la metà del III sec. per il tipo architettonico ancora a tetto displuviato con travi a rilievo. Le figure, tutte ammantate e isocefale, s'iscrivono in un solo ininterrotto corteo, appena movimentato dall'affiancarsi in coppia o dal volgersi indietro di alcuni degli apparitori. Il contrasto è in questa tomba tra i corpi senza spessore cromatico, appena delineati, e le teste invece insistite, componenti una galleria di «ritratti» confrontabili con quelli delle kelèbai volterrane di cui si dirà, oltre che con le coeve teste votive (si veda per i retrospicienti il tipo «Marinucci A Via» di Carsoli). L'intento storico-celebrativo, nel senso di una Repräsentationskunst (Hölscher), è sottolineato dall'attenta descrizione dell'abbigliamento e delle insegne (includenti, nel caso del «padre» della parete di fondo, lance e bipenni, in rapporto con l’imperium militare cui allude anche la mantica) e dalla coerente esclusione delle figure demoniache, che fa di queste pitture un autentico incunabolo del rilievo storico romano.
Oltre che come contenitori di sarcofagi istoriati e di pitture parietali le tombe a camera dell'Etruria meridionale sono importanti in questo periodo per gli apparati scultorei che ne adornavano raramente l'interno (a Tarquinia un caso limite è la Tomba della Mercareccia, ma vanno ricordati i demoni all'ingresso della Tomba dell'Orco II e la Scilla sul fondo della Tomba 4822) e assai più spesso l'esterno, in rapporto con edicole o altri apprestamenti architettonici. Sono proprio queste sculture, offerte stabilmente alla vista, a ribadire le tendenze ellenizzanti dell'arte funeraria in Etruria, dipendenti da modelli in primo luogo magnogreci. Oltre alle note realizzazioni rupestri di Norchia e di Sovana e a elementi riportati di Cerveteri e di Vulci, ricordati a suo luogo, si possono citare, tra gli altri, le edicole e i frontoncini di soggetto preferibilmente dionisiaco di Tarquinia e di Vulci, le statue e i busti funerari delle stesse località (cui si aggiungono Norchia e Tuscania), i cippi a quattro figure o a edicola di Vulci, le statue o gli altorilievi con demoni di Cerveteri e di Tuscania. Presenti un po' dovunque sono le statue di leoni ruggenti, spesso con una testa umana o di ariete sotto una zampa, e più raramente di sfingi (Cerveteri, S. Giuliano, Blera, Fèrento, Vulci e soprattutto Tuscania, dove i leoni, come insegna l'esemplare di Val Vidone, insistevano su podi circolari). Particolarmente degni di nota sono gli altorilievi con gruppi mitologici da Vulci (ratto di una Leucippide, Amazzonomachia) e soprattutto il grande fregio con Amazzonomachia dai pressi delle tombe dell'Orco di Tarquinia, ispirato per la totale nudità delle guerriere allo stesso modello del sarcofago vulcente dalla Tomba delle Iscrizioni, ma stilisticamente di un qualche sapore lisippeo nelle figure sfinate e dai parchi panneggi, peraltro manieratamente svolazzanti. Nel Nord, infine, si afferma anche a Volterra e nella Valdarno il tipo della statua funeraria, qui scolpito nel marmo locale, a cominciare dalla pregevole Kourotròphos Maffei velata.
Nel campo del disegno la vasta produzione di ceramiche figurate e di specchi incisi offre un prezioso osservatorio, non privo di interferenze, specie nel tardo IV sec., con la grande pittura. Già si è detto delle botteghe vascolari discontinue e di corto respiro, localizzabili tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a Chiusi, Orvieto e Vulci. Vero asse portante della ceramografia di IV sec. nell'Italia centrale è indiscutibilmente l'officina falisca, attivata intorno al 390-380 a.C. da artigiani greci, verosimilmente attici, come il Pittore Del Chiaro, e rimasta a lungo fortemente atticizzante, anche se già nella prima generazione di pittori (Gruppo di Nepi) assume una fisionomia locale, evidente nello sviluppo del decoro floreale che dalla zona delle anse tende a invadere il campo figurato (Adembri). Arricchita nella seconda generazione (Pittore di Nazzano, Gruppo del Diespater) da apporti campani, pestani e secondariamente apuli (questi ultimi in specie con il Pittore dell'Aurora), l'officina produce sia coppe che grandi vasi, istoriati con un ricco repertorio epico e mitologico di schietta tradizione greca. L'uso dell'alfabeto latino da parte del Pittore del Diespater documenta diretti rapporti con Roma e il Lazio, dove Preneste andava assumendo un ruolo artistico di primo piano con la produzione delle ciste, anch'essa apertamente ellenizzante.
Verso il 340 a.C. l'officina falisca perde di qualità, la linea a rilievo è abbandonata, si ricorre a ritocchi suddipinti, le fogge vascolari simposiache vengono sostituite da altre meno specializzate, come l’oinochòe forma VII e i piattelli su piede, il repertorio si apre largamente a temi dionisiaci per lo più banali e, più tardi, si accontenta di semplici teste di profilo (Gruppo Genucilia). Contestualmente a questa produzione «fluida» vasai falisci danno vita a Cerveteri a una produzione analoga, anch'essa artisticamente mediocre, che conosce tuttavia una diffusione ineguagliata dalle altre fabbriche etrusche. Estesa sia in Italia, nell'ambito delle colonie romane, che oltremare, in direzione dell'area commerciale controllata da Cartagine, essa documenta il rapporto privilegiato che Cerveteri intrattiene con Roma, specie all'indomani della sottomissione di Anzio e dello scioglimento della Lega Latina (338 a.C.). Anche le ceramiche suddipinte mostrano lo stesso scadimento di qualità e la stessa incredibile diffusione (Gruppo del Fantasma), mentre inizia la ceramica argentata con decorazione stampata a rilievo, imitante i vasi di metallo pregiato, con fabbriche sia a Falerii che a Orvieto.
A Vulci, dove l'attività ceramistica durava praticamente ininterrotta da secoli ma aveva stentato a rinnovarsi tra fine V e primi decenni del IV sec., si realizza dal 360 c.a un rapido aggiornamento, prima col Gruppo Campanizzante - se realmente è da ascrivere alla città - e con le manifestazioni iniziali del Gruppo di Alcesti, poi, dal 340 c.a, con il Gruppo dell'Imbuto (già erroneamente attribuito a Tarquinia) e con i Pittori di Alcesti e di Turmuca. È una produzione soprattutto di grandi vasi, dipinti con temi di attinenza funeraria, rivolti al consumo locale, ma di qualità media superiore a quella della coeva ceramica falisca e ceretana. La maggiore personalità del Gruppo dell'Imbuto, il Pittore di Mainz (Cristofani, 1992), affronta impegnative tematiche mitologiche compositivamente ispirate alla grande pittura, in uno stile grandioso ricco di scorci e di movimento. Sulla sua scia si pongono, alla fine del secolo, i Pittori di Leningrado e Fould, che realizzano autentiche megalografie usando sistematicamente il chiaroscuro a tratteggio incrociato, rinforzato da lumi suddipinti in bianco. Si arriva su questa via, sfruttando abilmente le possibilità della tecnica a figure suddipinte policrome, a una pittura a macchia, interamente basata sul colore (Gruppo Hesse), perfettamente allineata anche nei temi di genere alla decorazione dei lacunari della Tomba dei Festoni prima ricordata. Ispirata dalla ceramica apula di Gnathia, questa estrema produzione vulcente s'iscrive nella più vasta ed eterogenea classe dei pocola, in gran parte almeno realizzata a Roma, come dimostrano le iscrizioni latine, nel primo trentennio del III secolo a.C.
Più difficile è seguire le vicende dell'officina volsiniese dopo la supposta attività in essa del Pittore di Sommavilla. Probabilmente un suo continuatore è il Pittore di Settecamini, intorno alla metà del secolo (Adembri, 1985), che mostra contatti con Falerii ma rivela nell'ortografia delle iscrizioni origini settentrionali, forse chiusine. La sua produzione, dagli ambiziosi temi mitologici, è vicina anche stilisticamente per le figure piuttosto tarchiate ai fregi a rilievo delle situle volsiniesi (da Bolsena e dal Talamonaccio) e dello stesso sarcofago di Torre S. Severo. Dopo il 340 c.a l'orientamento complessivo rivela, con il Pittore della Centauromachia e poi col Gruppo di Vanth, una chiara dipendenza da Vulci e in particolare dai pittori di Alcesti e di Turmuca nella scelta di temi funerari «locali», trattati con una ricerca di teatralità e di festosi effetti cromatici.
A Chiusi le esperienze maturate in quasi un secolo di produzione ceramica spesso d'avanguardia per l'Etruria sono alla base della svolta che verso il 360-350 a.C. viene realizzata per impulso anche in questo caso di pittori falisci di seconda generazione. Ne risulta un'officina, il Gruppo Clusium, assai originale e omogenea, anche qualitativamente, che verso il 330 a.C. sposta con ogni probabilità la sua sede a Volterra (dove si sviluppa anche una ricca produzione a vernice nera imitante vasi metallici, il Gruppo Malacena). La foggia prediletta a Chiusi è la coppa ad alto piede, nel ì cui tondo la costante presenza dell'esergo rinvia all'impaginazione propria degli specchi, ma non mancano grandi vasi di soggetto mitologico: le une e gli altri destinati a una selezionata clientela, soprattutto etrusco-settentrionale, ancora fedele al costume del simposio. A Volterra invece prevale la foggia del cratere a colonnette, o kelèbe, usato come cinerario e dipinto con temi collegati a tale funzione, anche se in chiave soltanto allusiva, con esclusione dei demoni così spesso presenti nel Meridione (troviamo invece raffigurazioni dionisiache, pigmei combattenti, teste velate, semata, ecc.). Colpisce, sia a Chiusi che a Volterra, il netto dislivello di qualità tra i tondi e le altre parti ritenute principali e quelle invece secondarie, a cominciare dagli ornati vegetali: indice di una sicura divisione del lavoro. Nella produzione più tarda del caposcuola volterrano, il Pittore di Esione, si fanno strada innovazioni affini a quelle osservate nei tardi maestri vulcenti, dal chiaroscuro a tratteggio incrociato a quello tonale, ottenuto con vernice diluita e lumeggiature bianche, mentre nel coevo e più dotato Pittore di Spina (Cristofani, 1987) gli stessi risultati di proiezione nello spazio sono ottenuti con una linea vibrante e sottilmente modulata. Nella fase finale del Gruppo Volaterrae (300-280 a.C.) l'involuzione si consuma rapidamente, anche se le teste e i busti del Pittore della Monaca offrono un vivace riflesso della ritrattistica medioitalica, integrando efficacemente le testimonianze della coroplastica votiva. La produzione volterrana è arrivata largamente non solo a Perugia, ma anche a Bologna e soprattutto a Spina, dove ha in qualche misura, ancora non ben definita, contribuito alla genesi della ceramica alto-adriatica, assieme a prevalenti apporti attici e italioti. Si tratta tuttavia di una produzione artigianalmente mediocre e presto largamente imbarbarita, nonostante la vastità e stabilità dell'area di distribuzione, che va da Numana ad Adria e a Nesazio.
Tornando all'Etruria propria, per completare il discorso sulle arti del disegno occorre illustrare gli specchi incisi. Questi toccano nel IV e agli inizi del III sec. a.C. il loro apice, anche qualitativo, confermando il ruolo che lo scambio matrimoniale conservava nella società etrusca del tempo. Molto resta ancora da fare nel lavoro di classificazione e di localizzazione, dopo le ricerche pioneristiche di G. A. Mansuelli, anche perché solo da poco si è iniziato a tener conto in proposito dell'ortografia delle iscrizioni, peraltro assai più frequenti che sui vasi. Basti dire che la quasi totalità degli specchi attribuiti in passato a botteghe settentrionali (Beazley, Haynes, Herbig, Fischer-Graf, 1980) risultano alla luce delle iscrizioni meridionali, come lo sono del resto la gran maggioranza degli specchi iscritti (su 266 esemplari accolti negli Etruskische Texte di H. Rix solo 18 appaiono settentrionali). Quelli di V-prima metà del IV sec. sono stati già a suo luogo ricordati. Per il periodo in esame non sono disponibili che pochi esemplari di buona qualità, come quello da Perugia con Elena e Laomedonte tra i Dioscuri e la «patera cospiana» da Arezzo con la nascita di Atena: entrambi con ricche cornici a girali che richiamano le ceramiche del Gruppo Clusium.
Per gli specchi di produzione meridionale i centri in predicato, sempre a giudicare dalle iscrizioni, sono Vulci, Orvieto e Tarquinia, ma i dati di provenienza privilegiano nettamente i primi due. In generale sembrano essere vulcenti gli specchi che per quasi tutto il IV sec. continuano la tradizione dei gruppi a tre figure, in composizioni piuttosto statiche, spesso di genere, talora anche a rilievo, entro cornici a rami! d'edera o talora a palmette e fiori di loto o anche a girali (maestri di Telefo, di Usil e altri). Eccezionale è lo specchio gigante da Vulci a due registri senza cornice, con la presentazione di Epiur a Tinia e Elena in trono nell'isola dei Beati: megalografie ispirate alla ceramica apula del livello del Pittore di Dario, coeve grosso modo alla Tomba François.
L'esistenza di un excerptum a tre figure dell'eroicizzazione di Elena, con cornice a fregio animalistico, consente di attribuire a Vulci anche gli altri specchi con questo raro tipo di cornice, e in genere quelli con cornice a fregio di figure, come lo specchio dell'Ermitage con Turan e Atunis.
Volsiniesi sono invece da considerare gli specchi, in generale più recenti, con esergo sia inferiore che superiore, spesso senza cornice, con il campo affollato di figure impegnate in complesse narrazioni mitologiche o anche mitostoriche. Il tipo, forse inventato dal Maestro di Menelao verso il 320 a.C., annovera i notissimi esemplari con Eracle allattato da Hera da Volterra, con scena di extispicio da Tuscania (alla presenza del volsiniese Veltune), con giudizio di Paride da Todi, e molti altri. Pure volsiniese è certamente il grande specchio da Perugia con Atropo che infigge il chiodo tra Meleagro e Adone, un tema inseparabile dalla clavifixio tràdita per il Tempio della dea Nortia: lo stile a figure slanciate, di impianto lisippeo, ritorna nel più tardo specchio con l'umbra Vesuna, anch'esso incomprensibile fuori di Orvieto.
Dagli specchi a doppio esergo derivano quelli, ben più numerosi e in genere più corsivi, con cornice a corona vegetale pressata (Kranzspiegel) o a rami d'alloro, dai caratteri strutturali del tutto nuovi (manico fuso, disco piccolo e assai convesso). Inventati alla fine del IV sec., forse dal Maestro di Cacu, sono stati prodotti verosimilmente fino alla distruzione di Orvieto nel 264 a.C. e non oltre: nel resto del III sec. e all'inizio del II si colloca infatti la gran massa di mediocrissimi specchi con Dioscuri e Lase, usciti da botteghe dislocate in più centri, anche dell'Etruria settentrionale (Mangani). Con gli inizi del II sec. a.C. lo specchio del tipo a manico è definitivamente sostituito da quello a cerniera e poi da quello entro scatola, come è testimoniato da sarcofagi e urne, per cui è da respingere la datazione bassa dei Kranzspiegel anche di recente riproposta (Höckmann, 1989).
Anche negli altri comparti della bronzistica può dirsi che le botteghe dell'Etruria meridionale, favorite da un più stretto contatto con quelle del Lazio (in particolare di Preneste) e della Campania, siano le più attive e innovatrici. Lo fanno pensare, tra l'altro, i crateri, le situle e gli altri vasi d'apparato, dotati di anse e altre parti figurate, dei tipi documentati dalle tombe dei Curuna di Tuscania, forse dovuti a maestri itineranti che hanno lasciato traccia di sé anche a Chiusi (Bonamici); la bella cista ovale con Amazzonomachia da Vulci le più tarde e modeste ciste a corpo liscio volsiniesi; i primi specchi a cerniera con decorazione sbalzata su matrice e i primi balsamari a testa femminile, forse di produzione tarquiniese. Volsiniese è certamente il bronzetto con dedica a Selvans ora a New York, di stile precocemente lisippeo, e forse anche quello di ammantato con dedica a Lurmi(ta), dalla testa modellata, come si verifica anche in molte teste fittili ceriti, sul ritratto di Alessandro. La più riuscita tra le non molte creazioni dei monetieri etruschi è lo statere aureo volsiniese del 300 a.C. o poco dopo, con testa di Apollo/Śuri sul dritto, avvicinabile nell'afflato patetico della gran chioma scomposta all'Apollo fittile dello Scasato e alla testa in nenfro dell'Hotel Reale di Orvieto (edita da F.-H. Massa Pairault, 1985).
5. L'ellenismo medio e tardo (metà del iii-metà del i sec. a.c.). - Con la guerra di Pirro e la più o meno traumatica conclusione delle «rivolte» di Caere (intorno al 273 a.C.), Volsinii (264 a.C.) e Falerii (241 a.C.), suggellanti a un oltre un secolo di distanza dalla distruzione di Veio l'esclusivo dominio di Roma sul litorale sud-etrusco e sull'asse interno della penisola, inizia in campo artistico il tramonto della cultura di koinè, che era stata l'espressione dell'alleanza, tendenzialmente paritaria, della nobilitas di Roma con le élites delle città etrusche e italiche. Il processo riceve una forte accelerazione con i travagli della guerra annibalica, che fecero isterilire i residui focolai di ellenismo in terra italiana, da Taranto a Siracusa, e trova la sua conclusione nei primi decenni del II sec. con le relazioni dirette che vennero ad allacciarsi tra l'Italia e la civiltà artistica sia della Grecia propria che dell'Asia Minore, nel quadro dell'ormai dilatato imperialismo romano. Il rapporto tra le città etrusche e Roma risulta ora completamente sbilanciato, anche sul piano artistico: è un rapporto di dipendenza delle prime dal «centro del potere» in tutti i sensi, che era divenuta Roma a livello mediterraneo. Determinante, per la svolta culturale che si registra tra il 190 e il 160 circa a.C., fu l'apporto di artisti greci affluiti a Roma e nell'Italia centrale, in numero e con capacità di gran lunga superiori a quella che può dirsi essere stata una costante «fisiologica» nei secoli precedenti, come si è visto, a partire dall'VIII sec. a.C.
a) L'Etruria meridionale. - La nuova situazione storica trovò un'Etruria profondamente alterata e diversificata al suo interno. Le superstiti città dell'Etruria meridionale - Tarquinia e Vulci indipendenti, Caere nello stato di prefettura - così come quelle da poco rifondate - Volsinii/Bolsena, Ferentium, Falerii/Fàlleri - accusano le conseguenze della perdita della parte strategicamente e produttivamente più rilevante dei loro territori, a cominciare dalle piane costiere con i loro porti e da quelle interne bagnate dal Tevere. Tra l'altro è significativo che le strade costruite da Roma tra il 240 e il 170 a.C. attraverso la regione - le vie Aurelia, Clodia, Cassia, Amerina e Flaminia - toccano solo le città di nuova fondazione (Falerii, Volsinii) e quelle dell'entroterra tarquiniese (Blera, Norchia, Tuscania) e vulcente (Castro), che avevano ormai acquisito una piena autonomia: sono strade che lasciano sistematicamente da parte le città «storiche» dell'Etruria meridionale, mentre raggiungono Pisa, Chiusi, Arezzo, Perugia. È anche grazie a esse che avviene il lento ma inarrestabile drenaggio delle migliori energie dell'Etruria meridionale verso Roma, nel solco di interrelazioni sociali ed economiche datanti almeno per Caere dal pieno IV secolo.
Se a Caere l'ultima delle grandi tombe gentilizie, quella dei Tarchna o delle Iscrizioni, non è posteriore al primo quarto del III sec. a.C., e se lo stesso può dirsi delle più tarde tra le tombe monumentali vulcenti, almeno nel settore meglio noto di Ponte Rotto, diverso è il caso di Tarquinia. In questa città si aprirono tombe di ambizioso apparato architettonico e decorativo nel secondo quarto del secolo (le già considerate tombe del Convegno e Anina I) e anche nel terzo (Tomba del Tifone, ampliamento incompiuto della Tomba del Cardinale, Tartaglia).
L'unica tuttavia in grado di evocare, anche per la pittura ancora largamente retta dal chiaroscuro e compositivamente complessa, la grande tradizione tardo-classica che aveva avuto a ultimi rappresentanti le tombe Giglioli e dei Festoni, è la Tomba del Tifone. In essa il tema della pompa magistratuale è ristretto in un pannello al centro della parete più in vista, dove interrompe l'altrimenti continuo fregio parietale di ispirazione architettonica, concluso in alto dal tradizionale motivo dei delfini saltanti sulle onde. Il corteo si distingue da quelli delle tombe Bruschi e del Convegno per l'organica inserzione dei demoni, per la distribuzione delle figure su due e anche tre livelli parzialmente sovrapposti e per la presentazione frontale di alcune di esse. Le due ultime innovazioni ritornano nella ben più modesta Tomba 5512, o Anina II, e nel corteo che si affaccia entro la porta Ditis dipinta sul basamento dell'urna principale della Tomba dei Volumnii. Ma soprattutto interessante è il ritrovare lo stesso principio compositivo nella schiera dei seguaci di Q. Fabio della famosa tomba dipinta dell'Esquilino, la cui datazione al pieno III sec. a.C. non è messa in dubbio nemmeno da chi non ne accetta l'attribuzione ai Fabii del tempo delle guerre sannitiche (La Rocca). Il perdurare di soluzioni analoghe nei cortei di urne volterrane di I secolo a.C. non implica prossimità cronologica (Cristofani, 1989) ma solo la comune appartenenza a una tradizione «popolare», che si pensa sia stata quella della pittura trionfale romana, in cui tali soluzioni dovevano esser divenute canoniche. Tradizione che dalla koinè medio-repubblicana giunge fino alla pittura pompeiana (Bianchi Bandinelli, 1982).
Altro elemento di novità nella Tomba del Tifone è l'adattamento a telamone, nel pilastro centrale, del gigante anguipede in forte torsione a «S», per il quale non è necessario il richiamo consueto all'Ara di Pergamo, essendo già presente in bronzi e terrecotte tarantine di tardo IV sec., anche rinvenute nel Lazio. Né tale richiamo è necessario per le chiome gonfie e scomposte, che trovano un precedente nella citata testa di nenfro dell'Hotel Reale, anteriore al 264 a.C. perché proveniente da Orvieto. Il trattamento quasi solo a disegno della Rankengöttin della faccia posteriore dello stesso pilastro ha anch'esso un precedente di IV sec, in uno dei «cartoni» del fregio animalistico della Tomba François, in quasi monocromia azzurra, e può comunque essere giustificato dalla collocazione nettamente secondaria.
L'altra grande tomba del 250-230 a.C. è la rinnovata Tomba del Cardinale, col suo fregio in cui sfilano in distinte sequenze circa 200 figurine, componenti una nèkyia che non ha più nulla di omerico, perfettamente allineata anche nella banale paratassi alle raffigurazioni dei coevi sarcofagi. Lo stile abbreviato e tendente alla monocromia ritorna in forme ancora più scadute nelle tombe dipinte degli ultimi decenni del III e degli inizi del II sec. a.C.: tombe relativamente numerose ma tutte di dimensioni e struttura assai modeste, con la pittura circoscritta a singoli settori delle pareti, in relazione con singole sepolture (Tomba Querciola II, delle Quattro Figurine, degli Arnthuna o 5636, degli Eizene, ecc.). Tema pressoché esclusivo è l'incontro del defunto con un parente premorto nell'Ade, alla presenza di demoni. Rispetto alle tombe della prima metà del secolo, o anche alla Tomba del Tifone, l'involuzione formale non è maggiore di quella rivelata a Roma dalla Tomba Arieti dell'Esquilino, pur spettante a un trionfatore, e dalla stessa facciata della Tomba degli Scipioni. È tutta una cultura figurativa che è entrata in crisi e che attende il ricambio. Nel campo del disegno l'involuzione è evidente negli specchi del Gruppo delle Lase e del Gruppo dei Dioscuri, già ricordati, cui segue la fine di quel genere artigianale, come già era avvenuto da tempo per la pittura vascolare.
Dopo gli inizi del II sec. a.C. cessa del tutto anche a Tarquinia la decorazione, per quanto parziale, delle tombe a camera. Lo stesso accade per le facciate esterne delle tombe dell'Etruria «rupestre», che pure aveva conosciuto nel III sec., da Sovana a Tuscania, da Castel d'Asso a Norchia, una notevole fioritura economica e culturale, in sensibile divaricazione con quello che si era verificato nelle città costiere. Come hanno insegnato le ricerche sistematiche degli ultimi anni, dopo il 200 a.C. non si scolpiscono più tombe a facciata, né vengono introdotte nuove tipologie architettoniche: si continuano a usare le camere già esistenti, eventualmente ampliandole, o ci si accontenta di sepolture negli spazi di risulta.
La produzione dei sarcofagi in pietra, tipica del vasto distretto culturale tarquiniese, che dopo la caduta di Orvieto arriva fino al Tevere (con importanti testimonianze a Fèrento e Orte), conferma in pieno il collasso dell'artigianato locale in coincidenza con la guerra annibalica. Se nel secondo quarto del III sec. si sapevano scolpire secondo il Fassadentypus sarcofagi di buona dignità formale, come quelli della Tomba degli Atna di Tuscania al British Museum e del notissimo Laris Pulenas, alla fine del secolo e agli inizi del successivo i sarcofagi delle ultime generazioni delle tombe Anina I di Tarquinia (includenti un magistrato), Vipinana e Curuna II di Tuscania, Alethna II di Musarna, per citare solo alcuni complessi recentemente studiati, mostrano un inesorabile decadimento: le casse non sono più decorate o lo sono con cortei appena abbozzati, quasi caricaturali, talora soltanto dipinti; le statue dei coperchi - ora costantemente tunicate invece che col tradizionale, «eroico» torso nudo - hanno un aspetto anorganico e deforme. È stata ormai imboccata la via che porta, senza possibilità di recupero, alla semplificazione selvaggia dei sarcofagi della Tomba dei Salvii di Fèrento, datati dalle iscrizioni magistratuali latine a dopo il 67 a.C. Semplificazione che la sequenza dei sarcofagi della Tomba dei Velisina di Norchia dimostra già raggiunta alla metà, o poco dopo, del II sec. a.C.
Su un livello complessivamente più dignitoso si mantiene la produzione dei sarcofagi fittili di Tuscania, la capitale dell'Etruria interna, che secondo le vedute attuali (assai diverse da quelle di S. Türr, 1969) inizia verso la metà del III attardandosi, anch'essa in forme involute, non oltre la fine del II sec. a.C. Dopo aver dato un monumento di raffinata cultura ellenistica come la pseudo-urna con Adone morente, e forse anche il trono dionisiaco di Bolsena con eroti aggrappati a pantere, l'officina tuscaniese immette nella esangue tradizione dei coperchi di sarcofago con figura recumbente una boccata d'aria nuova con la serie dei ritratti intenzionali della Tomba dei Treptie in località Pian di Mola e di altre tombe disperse, databili con sicurezza alla fine del III e nel primo quarto del II sec. a.C. Intonati a un asciutto realismo, di stampo veristico, anticipante il ritratto romano di età sillana, sono frutto dello stesso insegnamento medio-ellenistico che ha ispirato l’Arringatore e le analoghe esperienze etrusco-settentrionali, che contribuiscono validamente a datare. Allo stesso insegnamento si rifanno, in forme più esplicite perché verosimilmente più vicine all'ambiente urbano, due teste votive ceretane, generalmente datate in età triumvirale, ma provenienti da depositi, in località Manganello e Vignale, il cui accumulo sembra cessare intorno alla metà del II secolo a.C.
Terrecotte votive ispirate alle correnti barocche del medio-ellenismo sono state restituite dai depositi di Tarquinia e soprattutto di Vulci (deposito di Porta Nord), città toccate dalla rivitalizzazione della presenza culturale romana conseguente al rinforzo di Cosa (197 a.C.) e alla deduzione delle nuove colonie di Saturnia, Heba e Gravisca. A questa situazione si riportano sia le importanti ma mal conservate terrecotte templari di Cosa (Capitolium e tempio D) che, soprattutto, il frontone chiuso di Talamone con la saga dei Sette a Tebe, sottoposto di recente a un nuovo restauro che ne ha confermato la scenografica composizione a due registri. Assai più fresco e immediato appare tuttavia l'apporto ellenistico nelle coeve terrecotte architettoniche, in parte di provenienza domestica, da Vulci, Sovana e Vetulonia, cui si aggiunge, con caratteri classicheggianti, Bolsena. Ciò è probabilmente dovuto al coinvolgimento di maestranze etrusco-settentrionali, prima chiusine e poi volterrane, portatrici di una tradizione artigianale che non sembra avere conosciuto la crisi dell'età annibalica.
Dopo la metà del II sec. anche di quest'ultimo apporto di vitalità artistica nulla più rimane nell'Etruria meridionale, pesantemente investita nelle sue strutture produttive dalla diffusione del latifondo, che nel 136 a.C. impressionò Tiberio Gracco nel suo viaggio attraverso la regione (Plut., T. Grac., VIII). La successiva colonizzazione graccana, attestata dalle fonti - invero finora prese in scarsa considerazione - per Tarquinia, Sorrina, Fèrento, Falerii, e ipotizzabile (Torelli, 1991) per Vulci e forse Bolsena, comportò una estesa (ri)distribuzione delle terre confiscate ai tempi della conquista e rimaste fuori dalle assegnazioni coloniali, specialmente nel versante interno della regione. Archeologicamente può essere a essa riferita la frequente rioccupazione delle tombe a camera da parte di «intrusi» che usano il latino, come nel caso delle tombe del Tifone e dei Festoni a Tarquinia o delle Iscrizioni a Vulci, e più in generale la forte diffusione del latino e il cambio onomastico che a essa si accompagna. Ma soprattutto va riconosciuta a quella colonizzazione, che venne a colmare i sempre più ampi vuoti demografici della regione, la responsabilità storica di avere troncato definitivamente la continuità delle tradizioni locali in quella che un tempo era stata la parte trainante dell'Etruria. Nell'ambito degli usi funerari ce ne accorgiamo dalla crescente popolarità del rito crematorio .e dall'apparizione dei monumenti funerari a piccolo dado scorniciato, talora rupestre, presenti a Cerveteri, Stigliano, Monterano, Blera, Falerii, Soriano, Selva di Malano, ecc. (Di Paolo Colonna, 1984). Anche se nelle iscrizioni pubbliche continua l'uso dell'etrusco, i monumenti cui esse si riferiscono - vedi la terma di Musarna con il suo modesto mosaico pavimentale - sono ormai inconfondibilmente romani.
b) L'Etruria settentrionale. - Notevolmente diverso è il quadro ricostruibile per l'Etruria settentrionale. In questa regione, non toccata da confische di terra né da fondazioni coloniali o assegnazioni viritane, nemmeno di età graccana, il potere politico ed economico dei principes restò praticamente intatto finché e nella misura in cui lo consentì l'evoluzione dei rapporti sociali interna alle singole città. Di un ridimensionamento della committenza artistica si può parlare solo dall'inizio del II sec. a.C. e solo per Chiusi e Perugia, dove il fenomeno onomastico dei «gentilizi da prenome» (Rix) denuncia l'accesso ai diritti civili e politici di larghi strati inferiori della popolazione. Fenomeni concomitanti sono il diffondersi di nuove e più modeste strutture tombali (le tombe a corridoio e a loculi), la scomparsa totale del rito inumatorio (che aveva incontrato un certo successo tra le classi alte dalla fine del IV a quella del III sec.), il livellamento verso il basso dei corredi funerari, l'occupazione diffusa delle campagne nell'agro chiusino e in quello più vicino a Perugia. La generale modestia degli apprestamenti funerari è tale che un centro vitale e popoloso come Arezzo, dalle sviluppate attività manifatturiere (che nel corso del II sec. si convertono dalla bronzistica alla ceramistica), si sottrae da questo punto di vista quasi del tutto alla nostra conoscenza. Complessivamente l'economia della regione - rimasta come il resto dell'Etruria sostanzialmente estranea allo sfruttamento delle ricchezze di Grecia e d'Oriente da parte dei negotiatores italici - non subisce un ristagno se non dalla metà del II sec. e in particolare dall'età graccana, che tuttavia non segnò affatto, come accadde nel Meridione, il crollo verticale dell'identità etrusca. Gli Etruschi della regione sono sempre più profondamente integrati nella compagine romana ma, come risulta dagli sviluppi della mitostoria cortonese, rivendicano al suo interno una posizione ideologicamente privilegiata. Il che è confermato dai cippi di Tunisia, in cui una comunità di emigrati si autodefinisce pubblicamente (in etrusco!) come «dardania». Aruspici nord-etruschi operano tra II e I sec. a.C. nelle colonie romane d'oltre Appennino, da Pesaro a Piacenza, lasciandovi traccia epigrafica del loro passaggio. Il crollo dell'identità etrusca sopraggiunge soltanto nell'età delle guerre civili, che infersero alla regione lutti e distruzioni tremende, seguite da estese confische di terra e reiterate deduzioni coloniali (sillane a Chiusi, Arezzo e Fiesole), trovando il suggello finale nella guerra di Perugia (41-40 a.C.).
La scultura delle urne e dei sarcofagi mostra che nel pieno III sec. l'Etruria settentrionale conobbe al riguardo una sensibile crescita di qualità, esattamente all'opposto di quel che si verificò nell'Etruria meridionale. La svolta, verosimilmente imputabile all'immigrazione di artisti meridionali, e in primo luogo tarquiniesi, si può collocare verso il 270-260 a.C., quando si generalizza la sostituzione del calcare e dell'alabastro ai materiali più economici e tradizionali che erano la pietra fetida, il tufo e la terracotta. Contestualmente si cominciano ad affrontare sulle casse impegnative tematiche mitologiche, mitostoriche e anche propriamente storiche, come le amate galatomachie, riprese da fonti iconografiche greche (si è pensato alle pitture celebranti ad Atene la vittoria di Antigono a Lisimachia nel 277 a.C., Mansuelli, 1950). Le sequenze fornite da alcune tombe chiusine recentemente ristudiate, come le tombe Matausni, della Pellegrina, Umrana o Deposito delle Monache, cui si possono aggiungere la Tomba dei Calisna Śepu a Monteriggioni nel Volterrano e quella dei Cutu recentemente scoperta a Perugia, consentono di proporre una motivata linea di sviluppo (Colonna, 1993). Dopo una breve fase di adattamento e di sperimentazione, in cui il rilievo si mantiene basso e legnoso e le teste mostrano tratti «medioitalici» del genere dell'Obeso di Firenze, già intorno alla metà del secolo si attinge un livello di notevole finitezza artigianale, nel segno di una spiccata ellenizzazione, perfettamente in linea con la koinè artistica dominata da Taranto. Ne sono prova i sarcofagi e le urne riferibili a quello che si potrebbe chiamare il Maestro delle Rosette (dalla caratteristica decorazione delle cornice delle casse), e, nel campo della terracotta, la splendida urna del Worcester Art Museum, pure da Chiusi, con snelle figure di duellanti su un fondale architettonico e coperchio con ritratto «eroico» ispirato alla migliore tradizione alto-ellenistica.
Nel corso della seconda metà del III sec. i rilievi delle urne chiusine di alabastro assumono spesso forme di nitida monumentalità, sapientemente composte secondo canoni «illusionistici», attingendo a un ricco repertorio di cartoni che ancora attende di essere adeguatamente esplorato: ne sono esempio le urne migliori tra quelle dei Purni di Città della Pieve (a Firenze e Copenaghen) e dei Sentinate Cumeresa di Sarteano (a Siena). Non meraviglia che verso il 220 a.C. artisti chiusini siano stati chiamati a Perugia a realizzare l'intero programma decorativo, sculture parietali comprese, della Tomba dei Volumni, che a buon diritto può definirsi l'ultima delle grandi tombe etrusche con interno decorato. Per essa viene riesumato, in una scenografica messa in scena ambientata nel «tablino», il tradizionale motivo chiusino dell'urna a klìne, già ripreso a Volterra nell'urna bisoma dei Calisna Śepu. Verso la fine del secolo il gigantesco sarcofago di Hasti Afunei, scolpito sulla cassa con il commiato della defunta dalla cerchia dei parenti, segna l'apogeo della scultura in pietra chiusina. Contemporaneamente inizia l'attività del Maestro di Enomao (Maggiani, 1989) che, spostandosi tra Chiusi, Volterra e Perugia, introduce nuovi schemi compositivi, un rilievo più fortemente scavato e un pàthos barocco di evidente impronta pergamena. Suo punto di arrivo è, verso il 180 a.C., l'urna bisoma da Todi con la morte di Enomao, una delle creazioni più riuscite dell'ellenismo italiano. Da essa si può dire che prenda avvio a Perugia, tardivamente rispetto a Chiusi e Volterra, la produzione di urne con temi mitologici, scolpite nel mediocre travertino locale adeguatamente stuccato e dipinto. Produzione che si mantiene su un buon livello (urne a Berlino) fin verso la metà del II sec., per poi scadere su un piano di artigianato popolare, con le sue ingenue convenzioni rappresentative che arrivano fino al tardo-antico, pressoché immutato restando il repertorio tematico di matrice ellenistica.
A Chiusi invece dopo il 200 a.C. si sviluppa la produzione da un lato di urne in travertino piacevolmente decorate con motivi ornamentali o teste di Gorgoni, bene esemplificate dal complesso della Tomba del Granduca, dall'altro di urne e rari sarcofagi fittili, che inizialmente annoverano prodotti di apprezzabile impegno. Tra le urne si segnalano le poche a klìne con ritratti di tipo realistico, tra i sarcofagi quello pure a klìne dalla Tomba delle Tassinaie, dal ritratto stringato preludente all’Arringatore, e i due a cassa di tipo architettonico delle donne Seianti, non posteriori per i resti di corredo al 180-170 a.C. Da quest'epoca diventa pressoché esclusiva a Chiusi la produzione di urne fittili a stampo, ravvivate da una violenta policromia che ripete con estrema serialità pochissimi temi mitologici o banalmente funerari, e quella delle olle a campana, dipinte con ghirlande e festoni secondo un repertorio che ha nella citata Tomba delle Tassinaie, all'inizio del II sec., la sua prima attestazione. Entrambe le classi di monumenti si prolungano, come provano le iscrizioni in latino, nella prima metà del I sec. a.C.
Un caso ancora diverso è quello di Volterra. In questa città il II sec. coincide per le urne con il massimo sviluppo della produzione «nobile» in alabastro, dal ricchissimo repertorio mitologico. Il salto di qualità inizia intorno al 200 a.C. in stretta dipendenza dalle precedenti esperienze chiusine, anche a livello di cartoni (come è stato rilevato per il Riconoscimento di Paride), e da quelle, coeve, del Maestro di Enomao. Ma è solo col secondo e col terzo quarto del secolo che si dispiega la vastissima documentazione di quello che è stato chiamato il beau language (Massa Pairault), inaugurato da maestri (di Mirtilo, delle Piccole Patere, della Centauromachia) forse di origine greca, come si ê supposto anche per il precursore Maestro di Enomao. Valorizzando al massimo le potenzialità dell'alabastro i rilievi sono scolpiti quasi a tutto tondo, in uno stile magniloquente e «teatrale», con una virtuosistica, e spesso eccessiva, attenzione ai dettagli. L'ispirazione fondamentalmente barocca, di matrice pergamena e poi rodia, è filtrata, specie nel Maestro delle Piccole Patere, da una sensibilità classicheggiante, che richiama gli altorilievi frontonali del «Grande Tempio» di Luni, la colonia fondata nel 177 a.C., opera di artisti attici trasferitisi a Roma (Coarelli). Tale tendenza prevale nettamente nelle teste dei coperchi, in specie del Gruppo Inghirami (Maggiani, 1977), per le quali sembra improprio il richiamo al c.d. Ennio del Sepolcro degli Scipioni (opera meglio ascrivibile al filone medio-italico di pieno III sec.), mentre resta isolato nel suo esasperato realismo il noto coperchio fittile degli Sposi. Nell'ultimo quarto del secolo la produzione si assesta su livelli massificati, mentre si affermano tematiche nuove per Volterra, quali il corteo del magistrato e in genere le scene di viaggio agli Inferi, che divengono prevalenti, assieme ad altri temi «locali», nei primi decenni del secolo successivo, quando si generalizza la raffigurazione del defunto come velato. Il calo di qualità, sempre più evidente nell'affiorare di modi popolareschi, prelude all'arresto della produzione che si verifica, salvo eccezioni, appena dopo la metà del I sec. a.C., alle soglie dell'età augustea.
Un posto di primo piano nelle manifestazioni artistiche dell'Etruria settentrionale medio-ellenistica hanno gli altorilievi fittili dei templi, per i quali giustamente si tende oggi a postulare un rapporto con i rilievi delle urne, e non solo sul piano tematico. È abbastanza evidente che le terrecotte attribuibili al più antico dei due templi dell'acropoli di Volterra, ancora di tardo III sec. a.C., siano da avvicinare alla corrente patetica e «illusionistica» delle coeve urne chiusine, mentre quelle spettanti al recenziore tempio A rispecchiano meglio le tendenze proprie della scuola volterrana di pieno II secolo. Ma con questa sono ancora meglio consonanti, nel loro pittoricismo teatrale e nel loro incipiente classicismo, le terrecotte già ricordate da Vetulonia, Talamone, Vulci e Sovana, nonché quelle di Civitalba, Monterinaldo e Chianciano (queste ultime recentemente scoperte in località I Fucoli). Un posto a sé spetta alle terrecotte, di altissima qualità, dalla località Catona di Arezzo, per le quali si è tentati di pensare a uno scultore greco di formazione affine a quella del Maestro di Enomao. Del resto l'unica firma di coroplasta finora nota nell'Etruria dell'epoca viene proprio da Arezzo e si riferisce a un greco etruschizzato, Cnei Urste ('Ορέστης).
Arezzo appare in realtà anche l'unico centro dell'Etruria settentrionale in cui sia localizzabile un'importante produzione bronzisiica tra il III e la prima metà del II sec. a.C. Lo fanno ritenere i bronzi di questa età provenienti dal vicino territorio cortonese, a cominciare dalle statue di fanciulli da Montecchio e da Sanguineto sul Trasimeno, cui si aggiunge con ogni probabilità l’Arringatore (che è una statua votiva prima che onoraria, dedicata al dio Tece Sanś come lo è il Fanciullo del Trasimeno). Conforta l'attribuzione aretina una testa votiva da Arezzo (Via della Società Operaia) ispirata manifestamente al tipo ritrattistico della statua bronzea, che a sua volta dipende da modelli medio-ellenistici asiani, quali i ritratti dei re del Ponto e di Siria, echeggiati anche in Sicilia (il c.d. Agatocle da Morgantina).
Il canale che ha portato tali modelli ad Arezzo è senza ombra di dubbio quello delle strette relazioni culturali con Roma, provate esemplarmente proprio dalle teste fittili del deposito citato. Considerazioni di vario genere - non ultimo il rapporto, suggerito dal luogo di ritrovamento, con la battaglia del Trasimeno - inducono a ritenere che la statua sia da datare non alla fine del II o nei primi decenni del I sec. a.C., come comunemente si ritiene, ma in un'età assai più vicina ai supposti modelli (Colonna, 1989-1990). Il che è richiesto anche dalla conoscenza dello stesso filone stilistico, denunciata dalle teste di sarcofagi e urne fittili risalenti, come si è visto, alla prima metà e anche agli inizi del II sec. a.C. (Tomba dei Treptie di Tuscania).
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Cataloghi di musei e collezioni: V. Verhoogen, J. Ch. Baity, Aspects de l'art étrusque, Bruxelles s.d. (Musées Royaux d'Art et d'Histoire); Helbigt, Tubinga 1963-19724 (materiali etruschi a cura di T. Dohm); Ny Carlsberg Glyptotek. Den etruskiske Sammling, Copenaghen 1966; O. W. v. Vacano (ed.), Italische Antiken. Zeugnisse der vorrömischen Kultur Italiens aus dem Besitz des Archäologischen Instituts der Universität Tübingen, Tubinga 1971; A. Emiliozzi, La collezione Rossi Danielli nel Museo Civico di Viterbo, Roma 1974; L. B. van der Meer (ed.), De Etrusken, L'Aja 1977; A. Mazzolai, Il museo archeologico della Maremma, Grosseto 1977; J.-L. Majer, Y. Mottier, Images du Musée d'Art et d'Histoire, Ginevra 1978; A. C. Brown, Ancient Italy before the Romans, Oxford 1980 (Ashmolean Museum); G. Proietti (ed.), Il museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Roma 1980; C. Morigi Govi, D. Vitali (ed.), Il museo civico archeologico di Bologna, Imola 1982; J. Swaddling (ed.), Italian Iron Age Artefacts in the British Museum, Londra 1986 (raccolta di saggi su tutto l'arco della civiltà etrusca); R. D. de Puma, Etruscan Tomb-Groups. Ancient Pottery and Bronzes in Chicago's Field Museum of Natural History, Magonza 1986; G. Maetzke (ed.), Il museo archeologico nazionale G. C. Mecenate in Arezzo, Firenze 1987; G. Zimmer, Spiegel im Antikenmuseum, Berlino 1987; Ch. Reusser (ed.), Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig. Etruskische Kunst, Basilea 1988; P. Bruschetti, M. Gori Sassoli, M. C. Guidotti, Il museo dell'Accademia etrusca di Cortona, Cortona 1988; M. Micozzi, La collezione preromana del Museo Nazionale dell'Aquila, Firenze 1989; G. Paolucci, La collezione Terrosi nel museo civico di Chianciano Terme, Chianciano Terme 1991.
Pittura: G. Colonna, in EAA, S 1970, p. 619, s.v. Tarquinia (con bibl. prec.); M. Moretti, L. v. Matt, Etruskische Malerei in Tarquinia, Colonia 1974 (ed. it. Milano 1974); E. P. Markussen, Painted Tombs in Etruria. A Bibliography, Odense 1979; G. Colonna, Per una cronologia della pittura etrusca di età ellenistica, in DArch, II, 1984, pp. 1-24; S. Steingräber (ed.), Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milano 1985; H. Blanck, C. Weber-Lehmann (ed.), Malerei der Etrusker in Zeichnungen des 19. Jahrhunderts, Magonza 1987; L. Cavagnaro Vanoni, Tarquinia: aspetti inediti dei lavori della Fondazione Lerici nella necropoli dei Monterozzi, in Tarquinia: ricerche, scavi, prospettive, Milano 1987, pp. 243-253; W. Dobrowolski, La peinture étrusque dans les recherches du XVIIIe siècle, I, in ArcheologiaWarsz, XXXIX, 1988, pp. 27-67; S. Steingräber, Die etruskisch-hellenistische Grabmalerei, in AW, XIX, 1988, pp. 17-35; M. A. Rizzo (ed.), Pittura etrusca al Museo di Villa Giulia, Roma 1989; P. E. Arias, La pittura etrusca: problemi e metodi della ricerca archeologica, in Atti del II congresso intemazionale etrusco ..., cit., II, pp. 645-666; C. Weber-Lehmann, Die Dokumentation der etruskischen Grabmalerei aus dem Nachlass Alessandro Moranis, in OpRom, XVIII, 1990,, pp. 159-188; M. Moltesen, C. Weber-Lehmann, Catalogue of the Copies of Etruscan Tomb Paintings in the Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen 1991; L. Vlad Borrelli, Cartoni, modelli, disegno preparatorio nelle pitture delle tombe etrusche, in ArchCl, XLIII, 1991, pp. 1179-1192.
Scultura in pietra: A. Hus, Recherches sur la statuaire en piene étrusque archaïque, Parigi 1961; A. Andrén, Marmora Etruriae, in AntPl, VII, 1967, pp. 7-42 (rec. R. Bianchi Bandinelli, in DArch, II, 1968, pp. 227-237); S. Haynes, Etruscan Sculpture, Londra 1971; Κ. P. Goethert, Typologie und Chronologie der jüngeretruskischen Steinsarkophage (diss.), Bonn 1974; A. Maggiani (ed.), Artigianato artistico. L'Etruria settentrionale interna in età ellenistica (cat.), Milano 1985, in part. pp. 32-51, 52-76, 89-94; M.. Bonamici, Il marmo lunense in epoca preromana, in II marmo nella civiltà romana. La produzione e il commercio, Carrara 1989, pp. 84-101; ead., Nuovi monumenti di marmo dell'Etruria settentrionale, in ArchCl, XLII, 1991, pp. 795-817; A. Maggiani, Problemi della scultura funeraria a Chiusi, in La civiltà di Chiusi e del suo territorio. Atti del XVII convegno di studi etruschi ed italici, Chianciano Terme 1989, Firenze 1993, pp. 149-169; G. Colonna, I sarcofagi chiusini di età ellenistica, ibid., pp. 337-374.
Coroplastica: G. Hafner, Männerund Jünglingsbilder aus Terrakotta im Museo Gregoriano Etrusco, in RM, LXXIII-LXXIV, 1966-1967, pp. 29-52; id., Etruskische Togati, in AntPl, IX, 1969, pp. 23-43; A. Marinucci, Stipe votiva di Carsoli. Teste fittili, Roma 1976; M. J. Strazzulla, Le terrecotte architettoniche nell'Italia centrale, in M. Martelli, M. Cristofani (ed.), Caratteri dell'ellenismo nelle urne etrusche, Firenze 1977, pp. 41-49; Ν. A. Winter, Archaic Architectural Terracottas Decorated with Human Heads, in RM, LXXXV, 1978, pp. 27-58; M. Torelli, Terrecotte architettoniche arcaiche da Gravisca e una nota a Plinio, Ν. H. XXXV, 151-52, in Studi in onore di F. Magi, Perugia 1979, pp. 305-312; S. Steingräber, Zur Phänomen der etruskisch-italischen Votivköpfe, in RM, LXXXVH, 1980, pp. 215-253; P. J. Riis, Etruscan Types of Heads. A Revised Chronology of the Archaic and Classical Terracottas of Etruscan Campania and Central Italy, Copenaghen 1981; G. Colonna (ed.), Santuari d'Etruria (cat.), Milano 1985; M. R. Hofter, Untersuchungen zu Stil und Chronologie der mittelitalischen Terrakotta-Votivköpfe (diss.), Bonn 1985; M. Bonghi Jovino (ed.), Artigiani e botteghe nell'Italia preromana. Studi sulla coroplastica di area etrusco-laziale-campana, Roma 1990; La coroplastica templare etrusca fra il IV e il II secolo a.C. Atti del XVI convegno di studi etruschi ed italici, Orbetello 1988, Firenze 1992; E. Rystedt, Ch. e O. Wikander (ed.), Deliciae fictiles. Proceedings of the First International Conference on Central Italie Architectural Terracottas, Roma 1990, Stoccolma 1993; Cicli figurativi in terracotta di età repubblicana. Atti del convegno internazionale di Chianciano Terme 1992 (Ostraka, II), in corso di stampa.
Bronzistica: D. G. Mitten, S. F. Doeringer, Master Bronzes from the Classical World, Magonza 1967; S. Boucher, Bronzes grecs, hellénistiques et étrusques des Musées de Lyon, Lione 1970; D. Rebuffat-Emmanuel, Le miroir étrusque d'après la collection du Cabinet des Médailles, Roma 1973; S. Haynes, Etruscan Bronze Utensils, Londra 19742; A. Hus, Les bronzes étrusques, Bruxelles 1975; G. Pfister-Roesgen, Die etruskischen Spiegel des 5. Jahr. v. Chr., Berna-Francoforte 1975; R. Lambrechts, Les miroirs étrusques et prénestins des Musées Royaux d'An et d'Histoire à Bruxelles, Bruxelles 1978; U. Fischer-Graf, Spiegelwerkstätten in Vulci, Berlino 1980; M. A. Del Chiaro, Re-Exhumed Etruscan Bronzes. A Loan Exhibition at the University Art Museum Santa Barbara, California 1981, s.l. 1981; N. Thomson de Grummond (ed.), A Guide to Etruscan Mirrors, Tallahassee (Florida) 1982; A. Romualdi, Catalogo del deposito di Brolio in Val di Chiana, Roma 1981; E. Richardson, Etruscan Votive Bronzes. Geometric, Orientalizing, Archaic, Magonza 1983 (corpus di più di 800 statuette, non solo etrusche ma anche italiche, con esclusione dei grandi bronzi); A. M. Adam, Bibliothèque Nationale. Bronzes étrusques et italiques, Parigi 1984; S. Haynes, Etruscan Bronzes, Londra-New York 1985; M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara 1985 (limitato alla plastica votiva, inclusi i grandi bronzi); F. Jurgeit, «Cistenfèsse». Etruskische und praenestiner Bronzewerkstätten, Roma 1986; E. Hostetter, Bronzes from Spina, I. The Figurai Classes, Magonza 1986; M. C. Galestin, Etruscan and Italie Bronze Statuettes (diss.), Warfhuizen 1987; A. P. Kozloff, D. G. Mitten (ed.), The Gods Delight. The Human Figure in Classical Bronze, Cleveland 1988; A. Testa, Candelabri e thymiateria (Museo Gregoriano Etrusco. Cataloghi, 2), Roma 1989; A. Romualdi, La stipe di Bibbona nel museo archeologico di Firenze, in H. Heres (ed.), Die Welt der Etrusker. Internationales Kolloquium..., cit., pp. 143-152; I. M. B. Wiman, Malstria-Malena. Metals and Motifs in Etruscan Mirror Craft, Göteborg 1990; G. P. Tabone, Bronzistica a figura umana dell'Italia preromana nelle civiche raccolte archeologiche di Milano, Milano 1990; C. Cagianelli, Bronzetti etruschi, italici e romani del Museo dell'Accademia etrusca, in AnnAcEtr, XXV, 1991-1992, pp. 9-169; M. Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Firenze 1992; E. Richardson, The Types of Hellenistic Votive Bronzes from Central Italy, in Eius virtutis studiosi. Classical and PostClassical Studies in Memory off. E. Brown, Hannover-Londra 1993, pp. 281-301. - Si veda inoltre il Corpus Speculorum Etruscorum (CSE), dal 1981: editi i fascicoli relativi ai musei di Bologna, Copenaghen, Paesi Bassi, Cambridge, Belgio, Ungheria, Cecoslovacchia, e in parte della Germania, della Francia e degli USA.
Ceramica: J. D. Beazley, Etruscan Vase-Painting, Oxford 1947; T. B. Rasmussen, Bucchero Pottery from Southern Etruria, Cambridge 1979 (esclusa l'area vulcente-volsiniese); C. Albore Livadie, Le bucchero nero en Campanie. Notes de typologie et de chronologie, in B. Bouloumié (ed.), Le bucchero nero étrusque et sa diffusion en Gaule Méridionale, Bruxelles 1979, pp. 91-110; I. E. M. Edlund, The Iron Age and Etruscan Vases in the Olcott Collection at Columbia University, New York, Filadelfia 1980; J. W. Hayes, Etruscan and Italie Pottery in the Royal Ontario Museum, Toronto 1985; M. Martelli (ed.), La ceramica degli Etruschi. La pittura vascolare, Novara 1987; A. Chetici, Ceramica etrusca della collezione Poggiali di Firenze, Roma 1988; J. G. Szilágyi, La pittura etrusca figurata dall'etrusco-geometrico all'etrusco-corinzio, in Atti del II congresso internazionale etrusco ..., cit., II, pp. 613-636; F. Schippa, Museo Claudio Faina di Orvieto. La ceramica a vernice nera, Perugia 1990; G. Camporeale, La collezione C.A. Impasti e buccheri, I, Roma 1991; M. Cygielman, E. Mangani, La collezione Chigi-Zondadari. Ceramica figurata, Roma 1991; M. Cappelletti, Museo Claudio Faina di Orvieto. Ceramica etrusca figurata, Perugia 1992; M. Bonghi Jovino (ed.), Produzione artigianale ed esportazione nel mondo antico. Il bucchero etrusco. Atti del colloquio internazionale, Milano 1990, Milano 1993.
Beni suntuari e monete: P. Zazoff, Etruskische Skarabäen, Magonza 1968; W. Martini, Die etruskische Ringsteinglyptik, Heidelberg 1971; P. G. Guzzo, Le fibule in Etruria dal VI al I secolo, Firenze 1972; F. -W. v. Hase, Zur Problematik der frühesten Goldfunde in Mittelitalien, in HambBeitrA, V, 1975) pp. 99-192; Contributi introduttivi allo studio della monetazione etrusca. Atti del V convegno del Centro internazionale di studi numismatici, Napoli 1975 (AnnIstltNum, XXII, Suppl.), Roma 1977; M. Cristofani, M. Martelli (ed.), L'oro degli Etruschi, Novara 1983; M. Scarpignato, Museo Gregoriano etrusco. Oreficerie etrusche arcaiche, Roma 1985; I. Caruso, Collezione Castellani. Le oreficerie, Roma 1988; Ori e argenti del Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1990; F. Catalli, Monete etrusche, Roma 1990; A. Mastrocinque, L'ambra e l'Eridano, Este 1991.
Agro falisco: A. Cornelia, I materiali votivi di Falerii, Roma 1986; La civiltà dei Falisci. Atti del XV convegno di studi etruschi ed italici, Civita Castellana 1987, Firenze 1990; M. A. De Lucia Brolli, L'agro falisco, Roma 1991; id., Civita Castellana. Il museo archeologico dell'agro falisco, Roma 1991.
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