Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dagli inizi del Seicento la Chiesa cattolica si impegna in un’azione di propaganda, volta a rilanciare il messaggio cristiano e a riconquistare i fedeli alla fede e alla devozione. La rivalutazione delle immagini sacre, condannate dalla Riforma, favorisce l’affermarsi di una nuova arte religiosa che diviene strumento efficacissimo di comunicazione e persuasione. Poiché la funzione dell’immagine sacra è quella di esortare, convincere e coinvolgere coloro che ne sono destinatari, gli artisti rispondono a questa esigenza elaborando una maniera espressiva, patetica e spettacolare, in grado di suscitare emozioni. Contemporaneamente si afferma un nuovo repertorio iconografico che traduce in termini visivi i dogmi di fede, le virtù dei martiri, le esperienze soprannaturali dei santi, la nuova visione della morte.
La Chiesa cattolica e l’eresia protestante: le nuove iconografie
Agli inizi del Seicento la Chiesa di Roma aveva riconquistato alla fede cattolica la Polonia, l’Austria, la Germania meridionale e parte della Svizzera. Sicura di aver contenuto l’attacco protestante, si impegna in un’intensa attività di propaganda volta a ribadire i fondamenti della propria dottrina e a riconquistare i fedeli alla fede, al culto e alla devozione. Per tutto il secolo la lotta al protestantesimo resta comunque il pensiero costante della Chiesa e il movente fondamentale delle sue scelte in ambito culturale e artistico. Anche la rivalutazione delle immagini sacre e la conseguente promozione di una nuova arte religiosa debbono intendersi come una risposta della Chiesa all’aniconismo protestante che condannava l’uso delle immagini come una forma di paganesimo e una pratica inutile.
Alla sistematica distruzione delle opere d’arte operata dai protestanti, la Chiesa contrappone una nuova politica delle immagini intese come strumento di persuasione e di propaganda religiosa. Gli artisti sono chiamati a farsi interpreti del pensiero della Chiesa, ma si concede ampio margine alla libertà espressiva e all’immaginazione. Nasce una nuova arte sacra, rinnovata nei temi e nelle forme, che diffonde in tutta l’Europa cattolica una nuova iconografia religiosa che sostituisce all’illustrazione tradizionale degli episodi del Vangelo la dimostrazione in termini visivi delle verità di fede contestate dalla dottrina protestante.
I protestanti si erano accaniti soprattutto contro la figura della Vergine negando che fosse stata concepita senza peccato. Benché quello dell’Immacolata Concezione di Maria non sia ancora riconosciuto come un dogma, la sua validità sul piano della devozione viene difesa con passione dal mondo cattolico e ovunque si moltiplicano le sue rappresentazioni.
Celebri e divulgatissime quelle dipinte da Murillo che nel suo capolavoro, eseguito per i Francescani di Siviglia (1652), sublima il culto della Vergine Immacolata in un’immagine di radiosa bellezza.
La disputa sulle indulgenze che aveva segnato l’inizio della Riforma aveva portato i protestanti a negare l’esistenza del Purgatorio e l’efficacia delle preghiere in suffragio dei morti. Contro questa tesi si leva la predicazione dei Gesuiti e sorgono numerose confraternite consacrate alla salvezza delle anime dei defunti.
Contemporaneamente gli artisti vengono incaricati di rappresentare nelle loro opere le anime del Purgatorio riscattate per i meriti e l’intercessione dei grandi santi. In un noto dipinto, Rubens ha rappresentato santa Teresa mentre supplica il Cristo per ottenere la liberazione dalle fiamme del Purgatorio dell’anima di Bernardino da Mendoza (1633 ca.).
Uno dei soggetti più frequenti della nuova iconografia cattolica è quello della Maddalena penitente. L’immagine della santa che piange, contemplando il crocefisso nella solitudine del deserto, diviene nel Seicento il simbolo stesso del pentimento e contribuisce a richiamare l’attenzione dei cristiani sulla necessità, confutata della dottrina protestante, del rimorso e dell’espiazione.
Lutero e Calvino sostenevano che le buone azioni non contribuiscono in alcun modo alla salvezza dell’anima. La Chiesa replica che l’uomo non è redento solo dalla fede, ma anche dalle sue opere e predica l’importanza della carità e delle buone azioni.
Uno dei campioni della carità è certamente san Carlo Borromeo, vescovo di Milano, canonizzato nel 1610. Attraverso l’arte la Chiesa esalta la sua figura e ne diffonde il culto e la devozione: a Roma gli vengono dedicate tre chiese, San Carlo ai Catinari, San Carlo al Corso e San Carlo alle Quattro Fontane e ovunque, ma soprattutto in Lombardia, interi cicli pittorici rammentano ai fedeli gli episodi esemplari della sua vita e i meriti delle “buone opere”.
Anche la rinnovata energia con cui la Chiesa riafferma il culto dei santi deve intendersi come reazione alle teorie protestanti che consideravano Gesù Cristo unico mediatore tra Dio e l’uomo e condannavano la devozione tributata ai santi come una forma di superstizione o di idolatria. Vecchi e nuovi santi vengono celebrati nei quadri sugli altari, negli affreschi sulle volte, nelle statue che ornano le cappelle e le facciate delle chiese: apostoli, martiri, fondatori e glorie degli ordini religiosi.
Sull’attico del colonnato di San Pietro, Bernini innalza contro il cielo 96 statue di santi che suggellano, in un’apoteosi corale, la funzione mediatrice e la gloria della Chiesa. Roma è del resto la città dei santi. Nel Seicento si rinnovano nella basilica di San Pietro le cerimonie solenni delle canonizzazioni per la proclamazione dei nuovi santi. Attraverso questi eventi spettacolari, che coinvolgono diverse categorie di artisti e artigiani, incaricati di allestire i sontuosi apparati, la Chiesa controlla e disciplina la devozione popolare, proponendo alla venerazione dei fedeli modelli di santità e cammini di perfezione spirituale. I quadri, gli stendardi, i medaglioni che si espongono in quel giorno sotto la volta e lungo la navata della chiesa di San Pietro codificano l’immagine e gli attributi dei nuovi eletti e consacrano, imponendoli all’arte, i miracoli e gli episodi più importanti della loro vita.
Accanto al culto dei nuovi santi la propaganda religiosa rilancia il culto degli antichi martiri che con la loro testimonianza e il loro sacrificio avevano posto le fondamenta della Chiesa. A Roma la presenza delle catacombe mantiene vivo il ricordo delle persecuzioni e gli artisti vengono incaricati di dare un volto ai martiri e di esaltarne il coraggio sotto le torture. Testo fondamentale di riferimento è il Martyrologium romanum di Cesare Baronio, nel quale, come ha scritto Émile Mâle, autore del primo e fondamentale studio sull’argomento (1935), “per la prima volta l’erudizione pagana e quella cristiana si uniscono per creare un’epopea piena di vita”.
I grandi quadri commissionati nel terzo decennio del Seicento a Guercino, Valentin e Poussin per gli altari della basilica di San Pietro raccontano storie di martiri: La sepoltura di Santa Petronilla, Il martirio dei santi Processo e Martiniano, Il martirio di sant’Erasmo. Il dramma si fa teatro e di fronte alle scene dei supplizi il sentimento oscilla tra orrore e commozione.
Anche Maderno, Bernini e Duquesnoy legano alcuni dei loro capolavori alla memoria delle vergini martiri più famose: Santa Cecilia, Santa Bibiana e Santa Susanna. Le loro statue, pur così diverse nelle intenzioni artistiche e nei risultati, partecipano dello stesso clima di rinnovata devozione.
Nei collegi e nelle chiese dei Gesuiti la rappresentazione del martirio, pur non raggiungendo gli apici di efferata crudeltà che avevano contraddistinto i cicli decorativi affrescati alla fine del Cinquecento nelle chiese romane di Santo Stefano Rotondo e di San Vitale, assume toni di morbosa spettacolarità. Il martirio di San Livino (1620-24), dipinto da Rubens per la chiesa dei Gesuiti di Gand, è un dramma convulso dove la violenza disumana degli aguzzini giunge a scatenare l’ira e la vendetta degli angeli.
Seguendo l’insegnamento di sant’Ignazio di Loyola che raccomandava di fare appello all’immaginazione e ai sensi, i Gesuiti preparano i novizi destinati alle terre di missione, sottoponendoli alla vista quotidiana di questi supplizi, sopportati con eroica fermezza.
L’arte tende a fornire modelli di comportamento e diviene strumento efficacissimo di sollecitazione e persuasione.
Retorica e arte barocca: visioni, estasi e l’immagine della morte
Nel nuovo clima di acceso fervore religioso, l’immagine devozionale non ha più dunque una funzione semplicemente didascalica, ma tende a convincere e a esortare esercitando un’azione diretta sullo spettatore. Gli artisti rispondono a queste esigenze elaborando una nuova maniera espressiva, patetica e spettacolare, capace di suscitare immediate reazioni emotive. Per garantire una facile comunicativa si ricorre inoltre al linguaggio convenzionale dei gesti e delle espressioni: nella rappresentazione dei santi, per esempio, gli occhi rivolti al cielo e le braccia aperte come in un abbraccio visualizzano lo slancio totale di tutto l’essere verso Dio.
La retorica, come tecnica della persuasione, ha esercitato una larga influenza sull’arte barocca e poiché la persuasione fa leva sulle emozioni, gli artisti si prodigano a suscitarle, stimolando con ogni mezzo i sensi e la fantasia dello spettatore. Esemplare risulta a questo proposito la trasformazione della pala d’altare che si rinnova radicalmente nell’iconografia e nella struttura compositiva. Si impone il tema della “visione” come esperienza soprannaturale in cui l’umano e il divino si incontrano. L’esempio più precoce è offerto da Giovanni Lanfranco che fu, secondo il Passeri, “il primo a dilucidare l’apertura di una gloria celeste con la viva espressione di un immenso luminoso splendore”. Nella Santa Teresa che riceve dalla Vergine l’abito dell’ordine carmelitano, dipinto nel 1612, pochi anni dopo la morte di Annibale Carracci e di Caravaggio, ogni riferimento a un contesto naturale e familiare è abolito: l’evento miracoloso si svolge entro un vortice di luce soprannaturale, in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio reali.
La struttura aperta della composizione, con le due figure disposte lungo una linea diagonale, crea un rapporto diretto con il fedele che, inginocchiato ai piedi dell’altare, assiste e partecipa all’esperienza della visione. Il santo diviene il tramite tra il devoto e la rivelazione divina, l’intermediario tra la miseria dell’uomo e la misericordia di Dio. L’opera di Lanfranco si pone come archetipo di un nuovo schema di pala d’altare che si afferma, soprattutto in Italia, come il più congeniale a esprimere un tipo di religiosità appassionata e visionaria.
Nella Spagna cattolica l’austero misticismo conventuale, di cui si fa interprete nei suoi cicli religiosi Francisco Zurbarán, privilegia un naturalismo spoglio ed essenziale, ma non per questo meno efficace, e il tema della visione si sviluppa in forme di arcaica semplicità.
Nella Visione di san Pietro Nolasco, una delle opere più impressionanti dell’arte religiosa del Seicento, dipinta dall’artista spagnolo nel 1629 per il convento dei Mercedari a Siviglia, la struttura elementare della composizione conferisce all’evento la forza misteriosa del miracolo. La discesa spettacolare di san Pietro crocefisso, che in un alone di luce irrompe a capofitto nel vuoto della stanza, è un’esplosione dirompente, terribile e sublime. Solo più tardi, verso la metà del secolo, quando la fede cupa e severa espressa dallo Zurbarán appare ormai superata, anche la Spagna si allinea sulle posizioni di una religiosità più accessibile e suadente, espressa dall’arte dolce e raffinata di Murillo. Nel San Felice da Cantalice che riceve il Bambin Gesù dalle mani della Vergine (1668), eseguito per i Cappuccini di Siviglia, la visione si trasforma in un dialogo tenero e commovente, nobilitato da un cromatismo soffuso e raffinato, più incline alle esigenze espressive della trionfante arte barocca.
L’ardente e tormentata religiosità seicentesca trova la sua manifestazione più alta nell’estasi, vertice e traguardo della vita spirituale intesa come “tensione dolorosa per sottrarsi all’umana natura e perdersi in Dio” (É. Mâle). Nel Seicento l’estasi diviene il sigillo della santità. Tutti i santi più venerati del secolo, sant’Ignazio, santa Teresa, san Filippo Neri, hanno il privilegio di questa esperienza eccezionale. Le loro biografie e i loro scritti sono pieni di rapimenti mistici, descritti con precisione analitica e forza evocatrice. Questi racconti sedussero la fantasia degli artisti liberandone il lato più teatrale e visionario. Nelle loro rappresentazioni, ispirate a quei dettagliati resoconti, l’esperienza mistica diviene esperienza fisica che travolge i sensi, annientati di fronte al manifestarsi del divino.
Nell’Estasi di santa Margherita da Cortona (1620 ca.), Lanfranco inaugura la nuova iconografia rappresentando la santa abbandonata, e quasi svenuta, alla vista del Cristo che le si manifesta in tutto il suo fulgore. Anche il motivo degli angeli che accorrono per sostenerla verrà ripreso più volte nelle successive interpretazioni dello stesso tema.
In Santa Maria della Vittoria, Bernini raffigura l’Estasi di santa Teresa (1647-52) entro un’edicola sopra l’altare, come in un palcoscenico, e l’esperienza mistica diventa spettacolo, dramma che si compie alla presenza dell’osservatore. Nell’immagine della santa, sollevata sulle nubi e prostrata da un languore misto di piacere e sofferenza, l’ardente sensibilità del barocco trova la sua espressione più alta.
La forza e l’efficacia delle immagini sono la grande conquista dell’arte religiosa del Seicento. Anche nella rappresentazione della morte la fantasia degli artisti crea nuovi emblemi e nuove iconografie, assecondando le intenzioni della propaganda cattolica. I Gesuiti in particolare vedevano nel pensiero della morte, e nella sua evocazione sensibile attraverso la pratica degli Esercizi spirituali, un efficace strumento di conversione e un monito contro il peccato e le passioni.
Il genio del barocco si adegua a questa funzione ammonitrice e propone immagini di morte, cupe e terrifiche, opposte alla visione naturale e serena che ne aveva dato il Rinascimento.
Più che la quiete della morte si compiace di rappresentare lo strazio e i sussulti dell’agonia: nella chiesa di San Francesco a Ripa, Bernini colloca sull’altare il letto di morte della Beata Ludovica Albertoni e ne rappresenta l’ultimo spasimo (1674). Nella Morte di san Francesco Saverio eseguita dal Baciccio per la chiesa di Sant’Andrea al Quirinale (1676), il santo livido, sfinito dalla sofferenza e ormai esanime, sembra non accorgersi delle presenze angeliche che assistono e confortano il suo trapasso.
I monumenti funebri si trasformano da monumenti celebrativi della fama del defunto a moniti severi per i vivi. Sempre più di frequente compaiono sulle tombe immagini di teschi e di scheletri che rammentano l’ineluttabile destino dell’uomo. A imporli è, ancora una volta, il genio del Bernini, che era amico dei Gesuiti e si applicava con assiduità alle pratiche degli Esercizi spirituali. Sulle tombe di Urbano VIII (1628-47) e di Alessandro VII (1672-78) scolpisce, sotto le statue dei pontefici, due macabre figure di scheletri: il primo, alato e lugubre come un avvoltoio, è intento a scrivere il nome del papa sul libro della vita, il secondo mostra la clessidra vuota e solleva a fatica il pesante drappo che cela l’ingresso della tomba.
Attraverso la fantasia, inesauribile sorgente d’immagini, la nuova arte sacra riafferma la validità dei dogmi, comunica esortazioni morali e propone esempi edificanti. Gli artisti, plasmati dall’insegnamento della Chiesa, dalle prediche, dai ritiri spirituali e dai libri di pietà, ma liberi di esprimersi, ciascuno secondo il proprio genio e la propria sensibilità, danno forma sensibile alle verità di fede, alla sofferenza dei martiri, alle virtù dei santi, al fuoco dell’estasi, all’orrore della morte. L’arte del Seicento raggiunge così imprevisti traguardi, scoprendo una nuova dimensione dove terra e cielo, umano e divino, realtà e illusione s’incontrano e coesistono.