Vedi COPTA, Arte dell'anno: 1959 - 1994
COPTA, Arte
La denominazione di Copti deriva dal greco Αἰγύπτοι, di cui gli Arabi fecero Qibṭ. In senso stretto il termine di arte c. è riferibile all'arte degli abitanti dell'Egitto seguaci del Cristianesimo, nell'interpretazione monofisita (spesso in netto contrasto con la fede melkita dei Greci residenti in Egitto, monaci, funzionarî, mercanti), quale si sviluppò in forma completa e omogenea nei secoli VI-IX d. C. In senso più lato il termine di arte c. si estende impropriamente a tutta l'arte cristiana d'Egitto, prima e dopo la conquista araba (640-42) sino ai nostri giorni. La genesi dell'arte c. avvenne molto lentamente e laboriosamente, ed è così che per lo più, anche se inesattamente, con la denominazione arte c. si indicano i primi otto secoli dell'èra volgare, comprendendo cioè, sotto tale denominazione, anche quel travagliato periodo di transizione precedente il VI sec., in cui il popolo egiziano, nel formarsi di una società profondamente diversa (anche per la particolare importanza assunta in Egitto dalle comunità cristiane), da quella antica, ellenistica, ricerca i mezzi d'espressione più aderenti alla propria spontanea sensibilità, per vie diverse, accogliendo le varie voci delle civiltà vicine e ricreandole secondo l'interpretazione propria.
Dopo l'occupazione tolemaica con conseguente introduzione in Egitto di forme artistiche ellenistiche estranee al sentire indigeno, segue, nei primi secoli dell'èra volgare, la dominazione romana, durante la quale si determinano tre differenti correnti artistiche. L'arte ellenistica (alessandrina) è presente per lo più solo nel territorio della capitale; si continuano in tutto il paese le formule tradizionali, ma soltanto per un atteggiamento polemico contro l'elemento greco, giacché tale linguaggio figurativo non corrisponde più alla mutata sensibilità; ed appare infine un'arte composita greco-egizia. A questa terza tendenza appartengono, ad esempio, i cosiddetti "ritratti del Fayyūm" (v.), piccoli dipinti ad encausto su tavolette, che ritraevano i lineamenti fisionomici del defunto e venivano posti in corrispondenza del volto tra i lini che avvolgevano la mummia; questi ritratti appaiono dopo la conquista romana dell'Egitto (v. fayyūm) e scompaiono nel IV sec., quando l'uso della mummificazione viene sostituito dall'inumazione introdotta dalla nuova religione. Sono stati definiti da taluno (Cooney) col termine di arte "pre-copta"; invero appartengono ancora alla pittura ellenistica, anche se si avverte, negli esemplari più tardi, già un tono estraneo allo spirito greco: l'artista infatti volge tutto il suo interesse alla rappresentazione degli occhi, di cui esagera la grandezza, così che il volto presenta uno sguardo profondo e pensoso (il Grūneisen parla di un "linguaggio degli occhi") ed assume un carattere ascetico e astratto che si può notare anche in dipinti di una regione prossima, nelle contemporanee figure, cioè, di Palmira e di Dura Europos (Siria, I-III sec. d. C.), in cui l'analogo desiderio di presentare in primo piano la spiritualità della figura più che la sua realtà fisica, si pone in contrasto con la concezione essenzialmente naturalistica della civiltà classica. Le tendenze "anti-classiche" già avvertite in alcuni ritratti del Fayyūm hanno la loro affermazione più piena nel sèguito della pittura su tavola presso i Copti. Il ritratto dell'abate Abraham, da Bawit, ora nei Musei di Berlino, è già pienamente copto e, insieme ad altri dipinti (ad es., gli Evangelisti sulla copertina di libro della Freer Coll. di Washington), si distingue da un gruppo di icone del Sinai (ivi e a Kiev), di cui alcune presentano punti di contatto con l'arte c., ma restando sostanzialmente più fedeli all'eredità classica. Il rifiuto da parte del popolo egizio ad una partecipazione del sentire greco, lo costringe necessariamente anche a rifiutare il linguaggio figurativo ellenistico. La ricerca di una diversa espressione d'arte non si dirige però al repertorio tradizionale: per la prima volta l'Egitto esce dal suo isolamento culturale, e, desideroso di partecipare alla nuova società fondata sul Cristianesimo, accoglie dall'Oriente, e specialmente dal mondo siriaco-iranico, le voci che meglio aderiscono al proprio spirito. Se qualche elemento dell'antica arte egiziana riappare, si tratta sempre di fattori superficiali e sporadici, non di soluzioni stilistiche. Almeno dal III sec. si diffusero versioni della Bibbia nei dialetti copti che non tardarono ad essere illustrate. I più antichi testi biblici copti con miniature sono però relativamente tardi; ma si ritiene che l'influenza dell'arte c. si manifesti già nel sec. V in due importantissimi manoscritti greci: nella Genesi Cotton (ora frammentaria, nel British Museum), ricchissima illustrazione del testo greco dei Settanta sulla cui fondamentale impostazione ellenistica sembrano inserirsi incipienti caratteri copti, e la Cronaca Universale, papiro alessandrino (oggi a Leningrado) in cui la pittura copta si manifesta appieno, ma la cui datazione è ora discussa. Non più accettata è l'origine alessandrina delle illustrazioni della Cosmografia di Cosma Indicopleuste. I contributi orientali sono invece numerosi e sostanziali, e in un primo tempo (III-V sec. circa) si impongono, ma lentamente verranno assimilati e vagliati dall'artista copto, che li presenterà poi ritrasformati in modo omogeneo e organico, iniziando così (VI sec.) l'arte c. nel significato più specifico del termine. È nel IV sec., però, che si comincia a delineare, in modo ancora incerto, il linguaggio indigeno, il cui repertorio rimane ellenistico, ma reso secondo lo stile precedentemente apparso nell'ambiente siriaco. Nonostante varie differenze locali, quest'arte (che meglio della precedente si può definire "pre-copta") tende a diventare unitaria, e trova la sua migliore espressione nella produzione di Ahnās (IV-VI sec.), in cui in germe appaiono già tutte le caratteristiche dell'arte c.: disinteresse per il motivo raffigurato (figure e motivi ornamentali vengono accostati in modo esclusivamente decorativo); preferenza per schemi geometrici sviluppati ugualmente in entrambe le direzioni del piano; disgregazione delle masse che compongono le figure e resa sommaria di queste secondo la tecnica definita come "impressionismo lineare"; accentuata sensibilità al colore che, per mezzo di una vivace e serrata policromia, giunge a creare il motivo, non più disegnativo, ma ritmico ("astrattismo coloristico"). Nell'arte di Ahnās tali effetti sono stati pienamente conseguiti nel trattamento dell' ornato geometrico e vegetale; nella resa della figura umana, invece, prevalgono ancora i moduli della tradizione ellenistica. Quando più tardi ci si libera anche da questi vincoli, si ha il vero linguaggio copto, che può dirsi senz'altro autonomo e originale, perché in esso gli elementi di derivazione esterna sono stati tutti coordinati in una nuova sintesi.
La posizione di quest'arte è piuttosto discussa, poiché gli uni la considerano come una tarda interpretazione provinciale dell'arte ellenistica, gli altri come una forma di reazione all'ellenismo, creatasi lentamente mediante apporti continui dal mondo orientale. Invero, se col termine "ellenistico" nel campo formale indichiamo "quelle forme artistiche che conservano ancora l'essenziale organicità di struttura" (v. ellenismo), dobbiamo porre l'arte c., la cui caratteristica più intima e sostanziale è la disorganizzazione di ogni struttura, ad un limite del tutto opposto. E se si accenna ad una derivazione di questa da quella, è perché il linguaggio ellenistico fu invero presente in un primo tempo all'artista copto, ma solo come esempio di quanto si doveva evitare o risolvere con soluzioni completamente contrarie.
Il quadro dell'architettura c. non è molto chiaro; il suo carattere fu essenzialmente religioso (monasteri, chiese, cappelle di culto e funerarie), ma le costruzioni alzate in terra cruda sono andate per lo più perdute, così che difficile è seguire lo sviluppo edilizio dai pochi monumenti rimasti. Le prime chiese sorsero nel IV sec. ad Alessandria; di esse non rimane che il ricordo; però, dal confronto con le basiliche della vicina città di Menas (Abu Mina), la maggiore delle quali fu fondata dall'imperatore Arcadio (345-408), si deduce rientrassero nella tipologia di quelle ellenistiche mediterranee. Un'influenza precisa dell'ellenismo siriaco si riscontra invece nella grande chiesa del Convento Bianco (Deir el-Abyad), presso Sohag, costruita intorno al 430 dal conte bizantino Cesario, in cui al corpo basilicale a tre navate con nartece si aggiunge il santuario tricoro. La stessa pianta torna assai simile nel Convento Rosso (Deir el-Aḥmar), dove appare il motivo dell'abside a due ordini di nicchie e di colonne. Le chiese, invece, che a partire dal IV sec. sorsero numerose in tutto il territorio egiziano (specie in Alto Egitto), presentano un carattere omogeneo che le differenzia dalle costruzioni ellenistiche come pure da quelle di Siria e di Palestina (con cui hanno però numerose affinità), attestando così l'originalità dell'architettura copta. Inoltre, per le proporzioni ridotte, si distinguono nettamente dalle costruzioni sopra citate, le cui grandi dimensioni richiedevano un largo impiego di legname per le coperture, materiale che in Egitto era scarsissimo e che doveva essere importato. La pianta è generalmente rettangolare; l'esterno presenta alti muri lisci, senza modanature o elementi aggettanti; l'interno rientra, grosso modo, nel tipo basilicale, con una o tre absidi incorporate, con una o tre navate delimitate sempre da colonne, raramente da pilastri. Di questo tipo sono le basiliche a Bawit e Saqqārah, del VI-VII sec.; simili sono quelle più tarde di Apa Menas a Medīnet Habu (Tebe, Alto Egitto, presso il tempio di Ramesses III), e i due monasteri di S. Antonio e S. Paolo (IX sec.) nel deserto del Mar Rosso. La maggior parte di questi edifici ha subito rimaneggiamenti posteriori (così, al XII-XIII sec. risalgono le cupole attuali). La decorazione all'interno consisteva per lo più in affreschi parietali, in mosaici pavimentali ora tutti perduti, in decorazioni architettoniche a rilievo (capitelli, balaustre, altari, ecc.). Rare erano le statue, di culto, per lo più singole e stanti entro nicchie a conchiglia.
Anche per la pittura scarseggia la documentazione; la maggior parte dei dipinti adornava infatti edifici religiosi, in seguito distrutti o le cui rovine sono state ricoperte dalle sabbie del deserto. Dai rari affreschi (per lo più appartenenti a piccole cappelle) rimasti, non appare che in Egitto coesistessero in età inoltrata (Zuntz, e poi Morey, Avery) due opposte correnti di stile: l'una alessandrina, che pur con modificazioni si sarebbe conservata nel territorio intorno alla capitale dal III al VII sec.; l'altra indigena che, nello stesso periodo, sarebbe apparsa in tutto il resto del paese. Invero queste due tendenze appaiono succedersi cronologicamente: in un primo tempo, infatti, indiscusso è il predominio dell'arte alessandrina, e il suo influsso si estende in tutto il territorio egizio: così, oltre ai perduti dipinti delle catacombe di Alessandria (III-IV sec. circa: v. Bull. Arch. Cristiana, 1865), di chiara derivazione ellenistica sono i motivi geometrici dei pannelli imitanti l'opus sectile nel sacello di culto imperiale a Luxor, in cui erano anche affreschi grandiosi. Il trapasso invece verso lo stile di chiara derivazione orientale, specie siriaca, si comincia ad avvertire negli affreschi con scene del Vecchio e Nuovo Testamento a el-Bagawat (oasi di el-Khargah, Alto Egitto) del V sec., ed appare poi, più chiaramente, nei dipinti delle cappelle del monastero di Bawit, fondato all'inizio del VI sec. dall'Apa Apollo, tra Hermopolis e Aphroditopolis (Atfih). In questi affreschi - che sono tra i migliori esempî della pittura copta - appaiono definite tutte le principali caratteristiche: le preferenze per scene cicliche della vita di santi, con intenti non narrativi, ma simbolici; l'adeguazione a moduli stilistici orientali; l'apporto dell'arte sassanide; l'amore alla pura decorazione, ecc. Ma i diversi elementi non giungono, come nella scultura, ad una completa fusione: rimangono in superficie, tradendo ognuno la propria origine. È mancata la fase di assimilazione e rielaborazione nell'artista copto, che si è limitato ad adottare di volta in volta il linguaggio più confacente. Tale incertezza stilistica si avverte anche nei dipinti che illustrano la vita di S. Geremia a Saqqārah (VI-VII sec.); di S. Menas a Medīnet Habu (VIII sec.) e dello stesso santo ad Abu Girgis, in una località, cioè, molto prossima ad Alessandria, che mostra così la propria adesione a quest'arte indigena, antiellenistica. Per lo più ogni scena si compone di varie figure (contrariamente alla scultura, che preferisce rappresentare figure isolate) rese tutte frontalmente, l'una accosto all'altra, su fondo indefinito. Talvolta la figura principale posta nel mezzo è di dimensioni maggiori, in ciò seguendo non una proporzione realistica, ma gerarchica. Non mancano anche, sebbene rare, alcune scene di soggetto pagano; ma anche qui, come nelle rappresentazioni religiose, le figure sono sempre ricoperte da ampie vesti riccamente ornate di ricami policromi, secondo una visione decorativo-coloristica che è caratteristica eminente dell'arte copta.
Assai meglio che in architettura o pittura, i caratteri dell'arte c. si possono cogliere nel campo della scultura, documentata da numerose opere. Anche qui la più completa espressione non è il risultato di un'improvvisa, felice intuizione, ma un punto d'arrivo lungamente elaborato. Dalle opere tardo-ellenistiche si giunge, attraverso uno stadio parallelo ai "ritratti del Fayyūm" (vedi, ad esempio, due teste scolpite, ora a Copenaghen, illustrate dal Westholm), alla produzione di Ahnās (IV-VI sec.), omogenea, libera da convenzionalismi tradizionali, aperta agli influssi orientali. La scuola di Ahnās precede quella degli altri centri egizî, che solo più tardi giungeranno ad analoghe soluzioni: essa accetta subito apertamente il linguaggio siriaco, ricreandolo però secondo la propria visione, che fu essenzialmente luministica. Si nota perciò il rifiuto della tecnica a tutto-tondo e l'adozione del rilievo, sia piatto, sia molto alto; si creano così accostamenti vari di piani di luce e ombra, ottenendo con ciò effetti dinamici nonostante la posizione statica delle figure; si nota la preferenza per l'ornato vegetale dell'acanthus spinosus, di origine siriaca, perché, data l'angolosità delle foglie del tralcio, si producono effetti mossi e coloristici. I risultati migliori appaiono nella decorazione geometrica e vegetale, mentre la rappresentazione della figura umana non riesce a svincolarsi ancora completamente dalla tradizione plastica classica; ed è proprio l'incertezza disegnativa in questo campo che ha indotto alcuni studiosi (Kitzinger) a vedere nell'arte di Ahnās uno sviluppo provinciale dell'ellenismo, mentre, invero, ogni singolo pezzo denota il tentativo di allontanarsi il più possibile dal linguaggio di Alessandria, negando ogni importanza alla "forma" organicamente intesa. Dato il carattere non unitario dell'arte c., solo più tardi (VI-VIII sec.) i varî centri egizî raggiungeranno e continueranno lo stile di Ahnās, trasferendo i moduli usati nel rilievo in pietra anche in altri materiali (legno, avorio, terracotta, ecc.). Nei capitelli del monastero di Bawit, ad esempio, appare chiara la tecnica del rilievo a traforo, tecnica che aumenta gli effetti luministici dati dal rapido alternarsi di zone di ombra e di luce.
Grande importanza nell'Egitto copto ebbe l'industria della tessitura, specie del lino con inserzione di motivi decorati in lana. I tessuti, che venivano anche esportati, sono stati rinvenuti generalmente nelle necropoli di Antinoe, Kharanis e Akhmīm; si tratta per lo più di abiti decorati, tappeti, sudarî che avvolgevano il corpo dei defunti, asciugamani, ecc. Sono molto interessanti sia per lo studio dell'evoluzione del costume, sia per la conoscenza dell'arte stessa, giacché i motivi rappresentati sulle stoffe riecheggiano quelli che appaiono in scultura e pittura, trattati, però, con maggior libertà e con tecnica più immediata. Anche in questo campo, sotto l'ampia denominazione di "stoffe copte", si catalogano pezzi precedenti il VI sec.; secondo una suddivisione meno generica, convenzionalmente si distingue: un periodo "ellenistico" (III-V sec.) in cui la tunica, su imitazione del costume siriaco, si orna di clavi e orbiculi (v. tessuti) di piccole dimensioni, decorati in lana e lino (lana rossa e lino chiaro) con raffigurazioni geometriche o con scene più complesse, tratte dal repertorio classico (figure umane nude o drappeggiate, Nikai, Eroti, eroi del mito - specialmente le fatiche di Eracle - ecc.); segue un periodo detto "di transizione o orientaleggiante" (V-VI sec.), in cui la superficie degli spazi da decorare si amplia, ma la decorazione preferisce motivi policromi e minuscoli: il repertorio è decisamente orientale, specialmente sassanide; numerose sono le scene della caccia regale, figure esotiche in pose di danza o preghiera, scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, scene della vita di santi. Si giunge infine al periodo propriamente "copto" (VI-VIII sec.): i motivi decorativi presentano una vivace policromia e sommarietà disegnativa; le scene con figure umane sono sostituite di preferenza da motivi vegetali o geometrici; appare anche il repertorio precedentemente trattato, ma reso ora con tecnica decisamente impressionistica. Spesso la decorazione non appare più racchiusa entro spazi, ma sta disseminata su tutta la superficie della tunica. Caratteristiche diverse appaiono chiaramente nei diversi centri di produzione: Antinoe, ad esempio, rimane più legata ai canoni stilistici della vicina capitale e usa colori delicati; Kharanis sviluppa maggiormente i motivi ornamentali; Akhmīm accoglie più largamente gli influssi orientali e volge ogni interesse ai colori usati in toni molto vivaci e accostati in larghe zone, senza alcuna ricerca di sfumatura.
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