ARRIGO da Settimello
Poeta latino vissuto a Firenze alla fine del sec. XII. Dal solo poema che di lui si conosce si possono trarre, in mancanza d'altri documenti, le poche notizie che lo riguardano: anzitutto, la data di composizione dell'opera, che, menzionando molti fatti avvenuti verso il 1192 e nessun fatto posteriore a quell'anno, ricordando anzi come attuale la prigionia di Riccardo Cuordileone, catturato nel dicembre del 1192 e riscattato nel febbraio del 1194, si può facilmente fissare al 1193. È lo stesso poema che ci dà il nome dell'autore ("Henricus"), a cui spesso nei manoscritti la rubrica iniziale o la finale, aggiunge la menzione della patria ("Septimellensis"). Ed è ancora il poema che ci informa della sua umile, anzi rustica origine, degli studi da lui seguiti a Bologna, della sua professione di sacerdote. È un poema, del resto, che ci si presenta come dettato dal dolore, provocato nel poeta (e non par che si tratti di una pura finzione poetica) da un improvviso rivolgimento di fortuna. Si trattò probabilmente, come lasciano supporre alcuni indizi, della perdita di un posto importante, toltogli forse dal vescovo di Firenze, al quale perciò il poeta negli ultimi suoi versi umilmente si raccomanda. Prima s'era rivolto a due amici, ciascuno indicato con uno pseudonimo, ma il primo identificabile con Monaco da Firenze, vescovo d'Acri, autore di un interessante poema ritmico latino riguardante quella stessa terza crociata, di cui si hanno tanti ricordi nei versi di Arrigo.
I mille suoi versi, o per precisar meglio, i cinquecento distici elegiaci che formano il suo poema, si ripartono simmetricamente m quattro libri di identica misura, i due primi dedicati alla traditrice fortuna, i due ultimi alla consolatrice filosofia. E perciò il poema, dagli eruditi dei secoli passati, ebbe il titolo, di Elegia de diversitate fortunae et philosophiae consolatione.Gli ultimi editori, sulla scorta di antichi manoscritti, si limitano a intitolarlo Elegia.Il primo libro è tutto un lamento del poeta contro la fortuna che l'ha precipitato nella miseria; nel secondo la Fortuna assume aspetto e carattere di persona, e disputa aspramente col poeta, alle sue maledizioni rispondendo con lo scherno e con le minacce. Nel terzo appare la Filosofia, e prende amorevolmente a rimproverare e a confortare il poeta, mostrandogli quanto danno apporti la presenza e quanto vantaggi, l'assenza dei caduchi beni mondani. Nel quarto infine la Filosofia dà al poeta i suoi saggi consigli, affinché egli trovi, fuggendo il vizio ed esercitando la virtù, il modo di superare nella sua coscienza il suo dolore.
È evidente che A., scrivendo il suo poema, aveva attento l'occhio e il pensiero alle elegie dell'esilio di Ovidio e alla Consolazione della filosofia di Boezio. Ma echi d'altri autori classici e specialmente di Virgilio e d'Orazio si sentono spesso nei suoi versi. La sua cultura decisamente classicheggiante appare anche dagli innumerevoli accenni che il poema contiene a fatti e personaggi del mondo classico, mentre i ricordi biblici sono più rari. Disinvoltamente vi si mescolano gli esempi tratti dalla storia contemporanea; ma curioso e prezioso è qua e là il riferimento a talune leggende medievali. Dal chiuso e ristretto mondo di idee e di espressioni in cui stagnava da secoli la poesia italiana, A. esce arditamente, attratto dal mirabile moto intellettuale, filosofico insieme ed artistico, che agitava allora la Francia. Egli ne legge e studia i più famosi poeti latini (Gualtiero da Châtillon, Alano da Lilla, Matteo da Vendôme). Si appropria della loro tecnica poetica, imitandone talora, e anche accentuandone, certe stravaganze stilistiche e linguistiche. Impara da loro a interessarsi ai problemi filosofici. Italiano, si occupa principalmente dei problemi morali; ma, per risolverli, egli, che pur mostra di non essere irreligioso, evita di far appello alla religione. Contro i colpi della fortuna non addita, come altri, un rifugio nella speranza di una vita oltreterrena. Pensa che la filosofia può dare all'uomo la coscienza della sua autonomia morale; onde resta scoperto anche in terra un mondo dove la fortuna non può spadroneggiare: il libero spirito umano. Questo pensiero, benché oscurato da incertezze e talora da contraddizioni, fa di A., in certo modo, un precursore del nostro Rinascimento. A ciò anche contribuisce la consapevole e risoluta soggettività della sua poesia, che tutto accentra nella persona del poeta, che spia vigile i moti del suo cuore e ne rappresenta, quanto più può vivacemente, le manifestazioni esteriori. Onde s'intende come i lettori dell'Elegia abbiano finito per darle il nome stesso dell'autore, per chiamarla Henricus, o Pauper Henricus:titolo che si rileva in più di un manoscritto. In italiano prevalse un affettuoso diminutivo: l'Arrighetto.Segni, anche questi, di celebrità. Ma si sa che la diffusione dell'Elegia, per più di due secoli, in Italia e oltralpe fu grande: era letta, tra l'altro, e studiata nelle scuole. Molti scrittori la citano; molti (e tra loro anche Dante) ne riecheggiano nei loro scritti questo o quel passo. Uno, verso il 1265, Stefanardo da Vimercate, imitandola, le contrappone, con aperto intento religioso, un più ampio poema latino. Durante il Trecento due anonimi la traducono in prosa toscana; e l'uno di quei due Arrighetti divien poi un "testo di lingua". Il poema originale, a partire dal Rinascimento, cadde invece quasi in oblio; e solo in questi ultimi decenni la critica, non inutilmente, vi ha riportato la sua attenzione.
Bibl.: Dopo gli studi di E. Bonaventura, A. da S. e l'Elegia de diversitate fortunae et philosophiae consolatione, in Studi medievali, IV (1913), pp. 110-192, e di A. Monteverdi, Un Poeta italiano del secolo XII,in Riv. d'Italia, XXVIII (1925), pp. 986-1001 (inserito poi in F. Novati, Le Origini, Milano 1926, pp. 633-45), si ebbe la prima decorosa edizione moderna del poema, curata da A. Marigo (Padova 1926), e fu l'occasione di altri studi importanti, dovuti a F. Torraca, L'Elegia di A. da s.,in Atti d. Accad. di Archeol. lettere e belle arti di Napoli,n. s., X (1926), pp. 257-280 (ristampato nei suoi Scritti vari,Milano 1928, pp. 49-71); G. Spagnolo, La cultura letteraria di A. da s.,in Giorn. stor. d. lett. ital.,XCIII (1928), pp. 1-68; K. Strecker, Henricus Septimellensis und die zeitgenössische Literatur,in Studi medievali, n. s., II (1929), pp. 110-113. Una migliore, se anche non ancora perfetta, edizione del poema ci ha dato G. Cremaschi (Bergamo 1949), facendola immediatamente seguire da un ampio studio, E. da S. e la sua "Elegia", in Atti d. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, CVIII(1950), pp. 177-206. Tra gli studi particolari vanno ricordati quello di V. Coffari, Fortune and Fate in the "Elegia" of Henricus Septimellensis, in Romanic Review,XXXIX (1938), pp. 311-331, e per i loro riferimenti biografici quelli di A. Monteverdi, Longepres,in Studi medievali,n. s., I (1928), pp. 157-164, e Per un verso di E. da s.,in Studi in onore di G. Funaioli, Roma 1955, pp. 246-252.