ARRIANO ('Αρριανός, Flavius Arrianus)
Nacque a Nicomedia, in Bitinia, intorno al 95 d. C., da famiglia greca di buona condizione: già il padre suo aveva ottenuta la cittadinanza romana. Dopo aver ricevuto in patria un'accurata educazione ed essere ivi stato insignito del sacerdozio a vita di Demetra e Kore, e dopo aver forse studiato per qualche tempo anche ad Atene, passò a Nicopoli, dove, negli ultimi anni del regno di Traiano, fu assiduo discepolo di Epitteto. È stato a ragione osservato che questo indirizzo che Arriano diede fin da allora ai suoi studî, non poteva che influire sempre più sulla sua formazione di cittadino romano; perché Epitteto fu, durante la sua vita, in relazione assai più stretta con Roma e la società romana che non coi circoli letterarî greci. E alla sua cittadinanza romana Arriano mostrò, fin dalla sua prima giovinezza, di tenere moltissimo; ed ebbe subito l'ambizione di vivere praticamente come un cittadino romano, di sentirsi un membro della classe dominante: ciò è dimostrato dalla sua carriera politica che lo distingue nettamente da uomini che, come Plutarco e Cassio Dione, benché non meno grati ai principi romani, rimasero sempre spiritualmente greci. Dell'imperatore Adriano egli godé in realtà i più larghi favori; li ricambiò, lodando senza riserve, nelle sue opere, i Romani e la loro politica, il principe e il suo sistema di governo.
Poco dopo l'avvento di Adriano al trono, era consul suffectus (fra il 121 e il 124: Corpus Inscr. Latin., XV, 244 e 552); qualche tempo dopo, tenne per sei anni (dal 131 al 137) il governo della Cappadocia come legatus Augusti pro praetore; e, in questa carica, ebbe da difendere la sua provincia da un'incursione degli Alani. È probabile però che egli si sia trattenuto - non sappiamo se negli anni antecedenti al governo della provincia o dopo - nel Norico e nella Pannonia, al servizio dell'amministrazione romana (cfr. Ind., IV, 15), e fors'anche (come si rileverebbe dal Cinegetico) in Gallia e in Numidia.
Ma la carriera ufficiale di A. finì presto. Prima che Adriano morisse, egli era già stato richiamato dalla sua provincia (Corp. Inscr. Lat., X, 6006; cfr. Borghesi, Œuvres, Parigi 1872, IV, p. 157); nel 147, lo troviamo arconte eponimo ad Atene (Inscr. Graec., III, 1116); più tardi, nel 171-2, pritane della tribù Pandionide (ibid., 1029 e 1032). Ecco dunque che "l'alto funzionario, l'uomo di fiducia dell'imperatore, il difensore dei confini dell'impero, s'è comperata la cittadinanza attica, si contenta delle onorifiche e costose cariche municipali di Atene, e, come un generale in ritiro, cerca di passare il tempo tra gli svaghi della caccia e le occupazioni letterarie" (Schwartz). La sua vita ha preso ormai una nuova direzione; e tale mutamento è forse voluto da Antonino Pio.
Anche nella disgrazia, A. rimase l'egregio funzionario di un tempo; negli scritti da lui pubblicati come governatore, egli s'era compiaciuto di parlare della sua alta posizione e del favore di cui Adriano gli era largo; ora, nei suoi scritti più tardi, egli sdegnosamente tace così dei suoi onori d'un tempo come della sua disgrazia, e si presenta soltanto come cittadino ateniese e come sacerdote nicomedese di Demetra e Kore. Nell'anno 180 egli era già morto (cfr. Luciano, Alexandros, 2).
Senofonte fu il modello che A. propose a sé stesso, così nella vita pratica, come, specialmente, nell'operosità letteraria: anch'egli venerò come maestro il filosofo Epitteto, come già Senofonte aveva fatto per Socrate; ma, come Senofonte, anche A. fece oggetto della sua vita non già la speculazione filosofica, ma l'attività pratica nelle sue forme più varie. A. si designa da sé come νέος Ξενοϕῶν (Peripl.,1, 12 ,5; 25, 1; Tact., 29,8; Alan., 10; ma specialmente Cyneg.,1, 4: dove dice d'essere omonimo a lui e della stessa città e d'essersi come lui occupato, fin da giovane, di caccia, di strategia e di sapienza): con ciò, egli non intendeva certo dichiarare che Senofonte dovesse essere il suo modello stilistico (lo fu solo molto relativamente), ma che tutta la personalità di Senofonte, così come egli se la rappresentava, doveva essere da lui riguardata come il suo modello. Il che rispondeva anche ai gusti e alle inclinazioni di Adriano. Così s'intende come A., arrivato anzi tempo alla fine della sua carriera politica, si sia ritirato ad Atene e non a Nicomedia; là, nella città che più di ogni altra era stata cara ad Adriano e che dei favori imperiali serbava incancellabili tracce, egli avrebbe potuto, meglio che altrove, coltivare il ricordo del suo imperatore, e, incominciando una nuova vita, ritenere ciò che meglio e più intimamente gli ricordava l'antica.
L'operosità letteraria di A. non fu meno multiforme di quella di Senofonte: i suoi scritti possono essere distinti in tre gruppi: i filosofici, i pratici e militari, gli storici. Gli scritti filosofici sono opere giovanili, derivate in parte, quasi senza ulteriore elaborazione, dagli appunti che egli stesso aveva preso durante le lezioni di Epitteto. Si tratta pertanto di scritti che non possono certo servire per un giudizio su A. come scrittore. L'autore si decise a pubblicarli soltanto dopo che, contro la sua volontà e a sua insaputa, erano divenuti di dominio pubblico; e ne approfittò per lumeggiare così alcuni anni della sua vita di discepolo. Essi sono: 1. Dissertationes Epicteti (Διατριβαὶ 'Επικτήτου), in 8 libri, dedicate a un L. Gallio; di cui restano i primi quattro libri, mentre qualche parte del contenuto degli altri ritorna nella seconda opera filosofica di A.; 2. Enchiridion Epicteti ('Εγχειρίδιον 'Επικτήτου), una specie d'introduzione alla morale di Epitteto, dedicata a un tal Messalino e pervenutaci insieme col commentario di Simplicio.
Gli scritti di carattere pratico e militare sono i seguenti:1. Periplus Ponti Euxini (Περίπλους Εὐξείνου Πόντου); la prima opera composta da A., al tempo del governo della Cappadocia. Si apre con una lettera di dedica all'imperatore Adriano e comprende tre parti: la prima illustra le condizioni della navigazione sulla costa pontica da Trapezunte a Sebastopoli, corrispondente all'antica Dioscuriade; la seconda contiene la descrizione della costa del Bosforo tracio fino a Trapezunte; la terza descrive la navigazione da Sebastopoli a Bisanzio: 2. Alanica ('Αλανική); non ne è rimasto che un frammento, conservato in un codice laurenziano (55, 4) col titolo "Εκταξις κατ' 'Αλανῶν (Acies contra Alanos), contenente un interessante confronto fra la tattica greca e quella romana: 3. Ars tactica (Τέχνη τακτική); un'operetta scritta da A. poco prima di lasciare la sua provincia, nel 136 d. C., che tratta proprio quelle questioni militari delle quali è noto che l'imperatore s'interessava in sommo grado. Comprende due parti ben distinte, la prima dedicata alla tattica dei Greci e dei Macedoni, la seconda destinata ad illustrare la manovra della fanteria romana, dopo le innovazioni tattiche introdotte da Adriano: 4. De venatione (Κυνηγετικός); opera scritta da A. quand'egli aveva ormai preso dimora in Atene ed era divenuto cittadino attico, o meglio ancora, come è stato a ragione giudicato dallo Schwartz, la prima opera composta da A. dopo il suo forzato ritiro dalla carriera ufficiale: al principio di questo scritto (1, 4) troviamo infatti quelle parole, che abbiamo sopra riportate, nelle quali l'autore, presentandosi come novello Senofonte, lascia malinconicamente capire che ciò è quanto gli resta del passato splendore; 5. Un gruppo di biografie, scritte anch'esse, ma qualche tempo più tardi, in Atene, e per noi perdute; erano quelle di Timoleonte, di Dione e del brigante Tilliboro.
Ma ben presto A., passato dalla molteplice attività di un tempo all'oziosa vita ateniese, dové sentire il bisogno di dedicarsi ad un genere di lavoro che meglio riempisse i suoi giorni e che, al tempo stesso, potesse assicurare al suo nome fama imperitura. E pensò ad opere storiche di più vasto respiro. Lo allettò l'idea di scrivere la storia della sua patria, della sua Bitinia; ma, come egli stesso confessa (Phot., Bibl., cod. 93), non si sentì, messosi al lavoro, abbastanza preparato al suo compito, dal punto di vista stilistico. I grandi modelli che egli si proponeva d'imitare, Erodoto e Tucidide, non gli erano ancora abbastanza famigliari; e per formarsi lo stile al quale ambiva, egli si rivolse frattanto a trattare altri temi: nacquero così quelle biografie che abbiamo citate, e quelle altre opere storiche intorno ad Alessandro Magno, alle quali proprio A. va debitore della sua immortalità.
La prima opera alla quale attese A., evidentemente nei primi anni del suo soggiorno ateniese, fu il racconto della spedizione di Alessandro: De expeditione Alexandri ('Ανάβασις 'Αλεξάνδρου: il titolo compare anche nella forma Τὰ κατὰ 'Αλεξάνδρον o περί 'Αλεξάνδρον). Egli volle trattare questo tema, benché se ne fosse scritto a sazietà, sia perché era, in certo modo, d'attualità, dato che Traiano si era considerato quasi come un nuovo Alessandro, sia per contrapporsi, con un'esposizione seria e severamente documentata, alle fantasie romanzesche e retoriche che s'erano impadronite ormai della vita e delle imprese del grande Macedone. L'opera fu divisa in sette libri, affinché, come nel titolo, così anche in questa partizione, imitasse quella di Senofonte. Militare egli stesso, A. diede la preferenza alle fonti militari, attenendosi soprattutto a Tolomeo Lago (come dice egli stesso in VI, 2, 4), e, in secondo luogo, ad Aristobulo di Cassandria, i due autori che egli giudicava più sobrî e meglio informati. Tenne naturalmente conto di altre fonti, come Eratostene, Nearco, Megastene; né reputò di dover trascurare del tutto la materia leggendaria, ormai tanto diffusa e popolare; anche perché forse egli aveva coscienza che ciò che si dice e si scrive dei grandi dopo la loro morte, è pure parte della loro storia. Ma egli volle tener bene distinta questa parte da quanto ricavava invece dalle sue fonti autorevoli, contrassegnandola, via via, con un "si dice"; purtroppo, però, alla critica moderna non è riuscito finora di separarla nettamente dalla parte attinta ad Aristobulo e a Tolomeo. L'Anabasi di A. è certamente la migliore opera che ci rimanga sulla storia di Alessandro, benché se ne possa lamentare (come, p. es., fa il Beloch) la non infrequente negligenza nell'uso delle fonti, l'eccessiva sobrietà, la evidente parzialità a favore di Alessandro.
Alla stessa preoccupazione stilistica fu dovuta la seconda opera di A., l'Historia Indica ('Ινδυκὴ συγγραϕή). Questa appendice alla storia di Alessandro fu da lui scritta in dialetto ionico, allo scopo di rendersi meglio familiare lo stile di Erodoto. L'idea di questo scritto fu suggerita al suo autore dall'abbondante materiale topografico e - come oggi diremmo - folkloristico sull'India, che egli aveva trovato in Aristobulo e in Nearco e che, meglio che in una narrazione storica, poteva trovar posto in uno scritto speciale. Egli poi si giovò anche di altre fonti, e specialmente di Megastene. Preziosa è per noi la seconda parte dell'opera, la quale contiene un estratto della relazione stesa da Nearco intorno al suo viaggio dall'Indo all'Eufrate. Solo dopo che ebbe compiute queste opere, A. si sentì maturo per il suo grande lavoro, la storia della Bitinia, in otto libri (Bithynica, Βιϑυνιακά), dov'egli trattò le vicende della sua patria dai tempi mitici fino a quelli dell'ultimo re, Nicomede III, morto nel 74 a. C. In seguito, un nuovo tema, più squisitamente storico, l'attrasse; in 17 libri, egli narrò le guerre partiche di Traiano, un avvenimento del quale egli poteva ben dirsi contemporaneo (Parthica, Παρϑικά). Ma queste due ultime opere sono andate perdute, eccettuati esigui frammenti; come perduta è l'altra (l'ultima, forse, alla quale egli attese) che ebbe per oggetto la storia dei Diadochi (De rebus successorum Alex., Τὰ μετὰ 'Αλέξανδρον). Ne lasciò scritti 10 libri. dov'erano trattati gli avvenimenti di appena due anni (fino al ritorno di Antipatro in Europa, nel 321).
L'aspirazione di A., in tutte queste sue opere, è l'atticismo; il suo modello, Senofonte, anche se, come abbiamo detto, la sua elocuzione segua più da vicino quella di Tucidide e di Erodoto. Certo, egli rimane assai al di sotto dei grandi scrittori del periodo flavio e traianeo, di un Plutarco, di un Dione. Ma non bisogna dimenticare ch'egli aveva dedicato quasi i due terzi della vita al servizio non già delle lettere, sì dell'imperatore e dello stato; il che valse ad attenuare in lui l'eccesso di quella tendenza moralizzante e di quella retorica, ch'erano comuni al suo modello Senofonte non meno che, in genere, a tutta la storiografia ellenistica. Piuttosto che con Plutarco e con Dione, egli va dunque confrontato con Appiano. Fu lodato da Erennio Dessippo, da Temistio, da Giovanni Lido; dei suoi scritti usufruirono Procopio di Cesarea, Zonara, Eustazio, lo Tzetzes; estratti delle sue opere ci restano nella Bibliotheca di Fozio.
Un'edizione dell'Anabasi fu curata da K. W. Kriiger, Berlino 1835-48, in due volumi; altre edizioni quelle di C. Sintenis, Berlino 1867, e di C. Abicht, Lipsia 1871; migliore quella di A. G. Roos, Lipsia 1907. Delle Indica v. l'edizione di P. Chantrame, Parigi 1927. I frammenti sono in Müller, Fragm. Histor. Graec., III, 586-601; e in Geogr. Gr. min., I, p. CXI-CXV.
Bibl.: Della sua vita e delle sue opere trattano diffusamente i seguenti scritti: H. Doulcet, Quid Xenophonti debuerit Flavius Arrianus, Parigi 1882; H. Nissen, Die Abfassungszeit von Arrians Anabasis, in Rhein. Mus., XLIII (1888), pp. 236-57; E. Schwartz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II (1896), coll. 1230-1247; I. Bersanetti, L'Anabasi d'Arriano, Torino 1904; A. Castiglioni, Collectanea Graeca, Pisa 1911, p. 112 segg.; W. Christ, Gesch. der griech. Litteratur, 6ª ed., II, ii, Monaco 1924, § 706: v. anche R. Reitzenstein, Arriani Τῶν μετ' 'Αλέξανδρον libri septimi fragmenta, in Breslauer phil. Abhandlungen, III, iii (1888), e Köhler, Über die Diadochengeschichte Arrians, in Sitzungsber. der Berl. Akad., (1890), II, p. 557 segg.