arpa
. Il termine è usato una sola volta nella Commedia (Pd XIV 118) come secondo componente di un'unica immagine che accomuna l'a. alla giga (v.), in quanto fonti di una sensazione sonora soave ma indeterminata. Se il proponimento di D. era quello di evocare, per via di similitudine, l'impressione di beatificante dolcezza suscitata da un canto angelico in cui non si riesce ad afferrare il senso delle parole, ma di cui è possibile cogliere l'atmosfera melodica complessiva, nessuno strumento, tra quelli la cui pratica era più familiare a D., era maggiormente appropriato: e non soltanto per motivi strettamente acustico-musicali, bensì anche per ragioni di convenienza e di decoro artistico.
Infatti, a differenza di altri strumenti, l'a. era suonata, al di fuori dell'impiego strettamente professionale, da membri delle famiglie reali e dell'aristocrazia; si attribuivano inoltre a essa, secondo quanto attestato da varie fonti medievali che riprendono una tradizione classica, poteri taumaturgici: scacciare gli spiriti del male, arrestare il corso dei fiumi, far sì che gli armenti sospendessero il loro pascolo.
A questi motivi di carattere etico, di cui è riferimento in documenti medievali francesi, inglesi e castigliani, ma che, sia pure in via mediata e indiretta, tramite credenze popolari, dovevano essere noti anche in Italia, si aggiungono, a meglio intendere la proprietà della similitudine dantesca, altre ragioni più strettamente tecniche. Infatti V. Galilei, nel Dialogo della musica antica et moderna (Firenze 1581), scrive (p. 143): " Fra gli strumenti... di corde che sono hoggi in uso in Italia, ci è primamente l'Harpa, la quale non è altro che un'antica cithara di molte corde... Fu portato d'Irlanda a noi questo antichissimo strumento (commemorato da Dante)... ". La descrizione del Galilei continua illustrando il temperamento, ossia l'accordatura, per toni e semitoni, dello strumento. Tale accordatura si presenta non molto dissimile dal sistema temperato equabile venuto in uso circa un secolo più tardi. Dal momento che non risultano essere stati apportati cambiamenti sostanziali all'a. tra la fine del Medioevo e il Rinascimento, è lecito inferire che, a prescindere dall'intelaiatura generale, dalle dimensioni e da altri particolari prevalentemente esteriori, lo strumento cui D. fa riferimento non doveva essere molto dissimile, dal punto di vista acustico e timbrico, da quello così minuziosamente delineato dal Galilei: e anche la descrizione dell'Anonimo (secc. XII-XIII), pubblicata da M. Gerbert (De cantu et musica sacra..., St. Blasien 1774), ci mostra uno strumento sostanzialmente simile a quello moderno, se si esclude il particolare, assai poco rilevante, del sostegno frontale diritto, anziché leggermente curvato come avviene oggi per facilitare il movimento dei pedali. È fuor di dubbio in ogni caso che l'a. medievale, a prescindere dalle dimensioni, possedeva un numero notevole di corde, disposte in modo da obbedire alle fondamentali leggi del temperamento. Ora, l'alto numero delle corde, l'ampia possibilità di ricavare suoni armonici, facilitati certo dalla particolare accordatura delle corde medesime, la speciale risonanza, incrementata dalla mancanza di smorzi sì che le corde, una volta eccitate, continuavano lungamente a vibrare sino al totale estinguersi dei nodi e dei ventri (provocando al tempo stesso sensibili fenomeni di oscillazione simpatica), tutto ciò, a un orecchio di raffinata sensibilità, poteva ben suggerire l'immagine di Pd XIV. La quale, secondo noi, non può essere interpretata secondo la più corrente spiegazione, ossia che il suono risultante dalla temperata armonia dello strumento è dolce anche per colui che non è in grado di intendere lo sviluppo della melodia e di distinguere le note che la formano. Non si tratta di maggiore o minore capacità recettiva da parte dell'ascoltante, sì piuttosto di indeterminatezza originaria del suono stesso, il quale esce dalla sorgente che lo genera non articolato in una serie acustica matematicamente scomponibile, ma ovattato e stemperato in un'unica sensazione, fatta di estrema vaghezza appunto perché rimane a uno stadio quasi premusicale. Né vale eventualmente obiettare che D. non intendeva le singole note della melodia, come non intendeva l'inno, perché le sue facoltà umane erano ormai inadeguate all'alta soglia di Paradiso cui era giunto: ché in parecchi altri luoghi dei cieli successivi egli sarà ancora pienamente in grado di afferrare distintamente parole e melodia (Pd XXIII 128, XXIV 113, XXVI 69, XXVII 1-2, XXVIII 118, XXXII 95). L'esatta puntualizzazione dello strumento musicale citato da D. diventa dunque elemento non trascurabile per intendere in tutta la sua portata una similitudine che, come spesso nella Commedia, trae la sua maggiore forza espressiva proprio dalla mancanza di contorni troppo netti e precisi.
Bibl. - C. Sachs, The history of musical instruments, New York 1940, 261-264.