ARNOBIO di Sicca
S. Girolamo (Chron ad a. Abr. 2343 327 d. C.; De vir. ill., 79, cfr. 80; Ep. LXX, 5), informa che all'epoca di Diocleziano il pagano Arnobio, dopo aver tenuto cattedra di retorica a Sicca Veneria (Africa Proconsolare, oggi Le Kef), ove ebbe a discepolo anche Lattanzio, spinto da un sogno alla fede cristiana, avrebbe offerti al vescovo, incerto se ammetterlo fra i fedeli di Cristo, i sette libri dell'Adversus nationes quale prova della sua completa resipiscenza. La notizia, quale che sia il valore storico del particolare ivi riferito, è l'unica sostanziale da noi posseduta su Arnobio; essa ci permette di fissare al 327, e con una certa sicurezza, almeno la data della morte di Arnobio. L'attento esame dell'Adversus nationes e degli sporadici riferimenti da esso offerti (p. es., I, 13; II, 5; IV, 36) ci consente del resto di fissare la data della sua composizione a circa il 305, per quanto il Monceaux, senza fondati motivi, sia propenso ad assegnare la data 303-305 ai libri dal III al VII, anticipando la datazione dei primi due libri al biennio 296-297. L'opera di Arnobio, a noi conservata da un solo codice, il 1661 latino della Nazionale di Parigi, un manoscritto del sec. IX, che al settimo libro fa seguire, come octavus, il dialogo Octavius di Minucio Felice, è divisa in sette libri. In essi l'autore, dopo avere difeso strenuamente il cristianesimo dalle accuse che gli erano mosse (l. I) e aver risposto a parecchie obiezioni sulla funzione del Cristo nell'opera di salvezza, sui destini ultimi e sull'essenza del cristianesimo (l. II), ritorce l'accusa di empietà sui pagani stessi e sulle loro idee religiose (libri II-lV), affermando che essi proprio e non i cristiani offendevano la divinità con le manifestazioni del loro culto (libri VI-VlI). I capitoli finali dell'opera, sull'autenticità dei quali non è possibile elevare alcun dubbio, per quanto affrettati e disorganici, non possono suffragare l'ipotesi d'una redazione incompiuta o appena abbozzata. Nella polemica dell'Adversus nationes Arnobio si rivela ancora imperfettamente edotto sulla nuova fede abbracciata, e scarse e sommarie appaiono le sue cognizioni teologiche: così egli ignora quasi completamente la Scrittura, ripudia nei termini più recisi tutto l'Antico Testamento, immagina gli dei pagani come veri dei minores, rispetto ai quali il dio cristiano è un Deus princeps. La persona stessa del Cristo appare ad Arnobio nettamente subordinata a quella di Dio Padre; e l'anima umana, per Arnobio (che si rende a questo proposito eco fedele delle idee espresse da Taziano nella sua Apologia ai Greci), non creata da Dio, non è di per sé stessa né mortale né immortale, ma può, dopo la morte del corpo, esser passibile dell'una o dell'altra condizione a seconda dei suoi meriti. Nonostante tutto questo, nonostante le più impensate influenze che è possibile riscontrare nel pensiero arnobiano, Arnobio rivela nettissimi nel suo temperamento ribelle, nel suo pessimismo pascaliano per tutto ciò che è umano e terreno (per l'azione stessa di Dio e della provvidenza sulle cose umane), nelle sue stesse preoccupazioni escatologiche, i tratti caratteristici della cristianità africana.
Bibl.: Ediz. del testo, a cura di A. Reifferscheid, Vienna 1875 (Corpus Scriptor. Ecclesiast. Latin., IV); O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, II, 2ª ed., Friburgo in B. 1914, p. 517 segg.; M. Schanz, C. Hosius, e G. Krüger, Geschichte der römischen Litteratur, III, 3ª edizione, Monaco 1922, p. 407 segg.; E. Buonaiuti, Il cristianesimo nell'Africa Romana, Bari 1928, pagine 278-284.