Arnaldo Daniello (Arnaut Daniel)
Trovatore, nacque nella Dordogna, nel vescovado di Périgord, e precisamente nel castello di Ribérac. Limosino, dunque. Quanto ai dati cronologici, si ritiene che egli sia fiorito tra il 1180 e il 1210. Di lui l'antico biografo dice che fu gentile uomo molto avvenente e cortese e " apprese bene lettere " - seguì, dunque, un corso regolare di studi, il corso del trivio, almeno nei primi due gradi, grammatica e retorica - e poi si fece giullare. E non è, A., il solo trovatore di cui le Vidas affermino il possesso di una formazione letteraria regolare. Aggiunge il biografo che " si dilettò in trovare caras rimas ", si compiacque della poesia difficile, ermetica; sicché le sue canzoni non si possono agevolmente intendere e apprendere.
Seguace del trobar clus, e cioè di quel modo di trovare che fu inaugurato da Marcabruno ed è seguito da una lunga serie di continuatori che sono, tra i trovatori, i più autorevoli e ammirati. Esso rappresenta il grado esasperato, ma anche eroico, di quell'ansiosa preoccupazione formalistica che è la nota essenziale di tutto il movimento trobadorico ed è già nel primo trovatore, Guglielmo IX d'Aquitania. Le preoccupazioni formalistiche dei grandi trovatori nascono dalla coscienza che l'arte è disciplina severa e rigorosa; che la poesia è distaccata e remota dal mondo profano e volgare, è cosa di ‛ iniziati ': e iniziati sono non solo i poeti che creano, ma tutti quanti alla poesia si accostano devoti. Non deve la poesia offrirsi facile al volgo: chi vuole attingere la poesia deve sapersi innalzare alla sfera altissima che le è propria: nel chiuso mondo della poesia può penetrare solo chi sappia, attraverso uno sforzo di elevazione e di affinamento non diverso da quello che ha compiuto il poeta per realizzare la forma unica e perfetta.
L'esigenza del trovare chiuso, del poetare difficile - che sorprendeva i critici di ispirazione romantica, i quali ponevano la poesia trobadorica, almeno alle origini, come manifestazione d'arte primitiva e popolaresca - non è dunque, come riteneva ancora trentacinque anni fa lo Jeanroy, segno di un'aberrazione o perversione del gusto, o forma d'arte decadente: bensì solenne espressione di quella che fu detta dal De Lollis la " fede " dei trovatori nell'arte, segno di quel " senso della tecnica - usiamo parole del Battaglia - così rigoroso e inderogabile da essere sentito quasi come disciplina morale ". Non gioco virtuoso svagato e brillante l'esercizio della tecnica del chiuso trovare: ma impegno tormentoso e solenne, ricerca ansiosa dell'arte pura e assoluta che consapevolmente esclude, dall'attività artistica, ogni fine o intendimento pratico o utilitario. E a nessuno dei trovatori provenzali questa interpretazione si applica meglio che ad A.: sacerdote, veramente, della religione trobadorica dell'arte.
Sull'arte arnaldiana D. formula i suoi giudizi in VE II II 9 e in Pg XXVI 115-126, dove solennemente è proclamato, per bocca di Guido Guinizzelli, il primato di A. su quanti hanno composto versi e prose, in volgare (Versi d'amore e prose di romanzi / soverchiò tutti...). Nel De vulgari Eloquentia, invece, è posto in un grado più basso che Giraut de Bornelh: di Giraut che, si dichiara nel Purgatorio, solo gli stolti possono anteporre ad A. (XXVI 119-120 e lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch'avanzi). La disparità del giudizio si spiega col fatto che nel De vulgari Eloquentia la considerazione di D. si rivolge al contenuto, all'oggetto della poesia d'arte.
Nel capitolo dell'opera già citato si dichiara che tre sono i magnalia che soli possono essere oggetto dell'arte lirica, il cui strumento è il volgare illustre: la armorum probitas (e probitas, secondo le indicazioni dei glossari, si interpreta " prodezza "), l'amoris accensio, la directio voluntatis. Questi tre magnalia costituiscono le tre finalità dell'uomo tripliciter spirituatus; che è animato, cioè, di anima " vegetativa, animale, razionale "; e deve pertanto percorrere una triplice via. In quanto essere vegetativo, l'uomo cerca l' " utile " che altro non può essere se non la salus, al conseguimento della quale serve appunto la probitas armorum, che mira, come nota il Marigo, non al privato, ma all' " utile pubblico ", politico e religioso. In quanto essere animale, l'uomo cerca il delectabile, essendo maxime delectabile quod per pretiosissimum obiectum appetitus delectat; hoc autem venus est (§ 8). In quanto essere razionale, cerca l'honestum, che nessuno dubita sia la virtus. La lirica illustre, dunque, è - e non può essere altro - o " poesia delle armi " - nella quale in Provenza eccelle Bertran de Born, mentre in Italia nessuno ha poetato di armi (Arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse, § 10); o " poesia d'amore ", nella quale eccelle in Provenza Arnaldo Daniello e in Italia Cino da Pistoia; o " poesia della rettitudine ", nella quale eccelle in Provenza Giraut de Bornelh e in Italia " l'amico di Cino ", cioè D. stesso, D. delle canzoni morali.
Ora i tre magnalia che sono in realtà le tre massime finalità assegnate all'animo umano, hanno la stessa dignità; ma è possibile porre tra essi una gerarchia di valori; e in questo senso il grado più alto spetta alla " poesia della rettitudine ", che indirizza la volontà alla via retta della virtù (rectitudo). Per questo, la poesia morale di Giraut de Bornelh sta al di sopra della poesia d'amore d'A., che, a sua volta, è al di sopra della poesia delle armi. Posizione, questa, non diversa da quella del Convivio, in cui le dolci e leggiadre rime d'amore si rappresentano come prodotto della vita giovanile, della Vita Nuova; mentre nella raggiunta maturità spirituale, il poeta si esprime nelle rime aspre e sottili delle sue canzoni morali.
Per questo abbiamo affermato che i giudizi, e diciamo pure la graduatoria espressa nel De vulgari Eloquentia, derivano dalla considerazione del contenuto della poesia e dalla definizione di una gerarchia di valori dei vari contenuti, più che dalla valutazione della realtà vera della poesia; mentre solo la realtà concreta della poesia, cioè la forma, è oggetto del giudizio solenne pronunciato per bocca di Guido Guinizzelli in Pg XXVI: tutto quanto hanno scritto, in versi e in prosa, in volgare soverchia A., perché più di tutti gran fabbro del parlare materno: artefice meraviglioso che con vigorosa energia ha foggiato il volgare, creando una lingua poetica potente che è sua, inconfondibilmente sua; e che pienamente traduce e realizza nella parola l'immagine che il poeta ha intuito.
Miglior fabbro A., artefice più grande e vigoroso di tutti coloro che, pur con immenso impegno e con rigore severo e dedizione assoluta e paziente tenacia avevano modellato e foggiato le incondite favelle romane rustiche fino a farne quegli strumenti dell'alta espressione letteraria che sono la lingua d'oc della lirica trobadorica e la lingua d'oïl delle " altissime prose ", le prose della Bibbia " compilata " con le gesta dei Romani e dei Troiani, e delle ambages pulcerrimae di re Artù e di tutte le altre ystoriae e dei trattati didascalici (VE I X 2). Ma tutti li soverchia A.: l'espressione " alta e forte ", per dirla col Torraca, afferma una superiorità schiacciante.
E il primato di A. su tutti gli scrittori volgari, provenzali e francesi, solennemente proclamato per bocca del primo Guido, è ribadito dal Petrarca nel Trionfo d'amore (IV 40 ss.): " Fra tutti il primo Arnaldo Daniello / gran maestro d'amor; ch'alla sua terra / Ancor fa onor col suo dir novo e bello "; col suo dir: anche il Petrarca giudica, specialmente, considerando la lingua, l'espressione del grande trovatore.
È naturale che i giudizi di D. e del Petrarca siano stati accolti con perplessità e quasi con sorpresa dai critici della scuola romantica e postromantica; ché non si può immaginare poeta più che A. disforme e remoto dall'ideale romantico della Naturpoesie. Sicché quei critici han cercato, con sottili interpretazioni, di attenuare la portata del giudizio dantesco; o di giustificarlo supponendo che esso si fondi su altre opere di A. conosciute da D. e poi perdute. Da una parte, si è supposto che l'allusione alle prose di romanzi soverchiate, oltre che le rime d'amore, dall'arte arnaldiana, significhi che A. sia stato, anche, autore di romanzi in prosa. È evidente che le parole di D. non possono significare assolutamente che il trovatore sia stato anche scrittore in prosa: Guido Guinizzelli afferma, semplicemente, che la lingua che A. ha foggiato è di gran lunga superiore a tutte le lingue letterarie fino allora create sia dai poeti che dai prosatori d'arte. A ogni modo, da quei critici, un'attività di A. come romanziere distinta da quella di poeta lirico è stata documentata con la citazione di due testimonianze autorevoli: una del Pulci, che nella seconda parte del Morgante allega come sue fonti Alcuino e un Arnaldo, cui attribuisce un Rinaldo in Egitto; l'altra di Torquato Tasso, che nei Discorsi del poema eroico scrive: " Qualunque fosse colui che descrisse Amadigi amante di Oriana, merita maggiore lode che alcuno degli scrittori francesi; e non traggo da questo numero Arnaldo Daniello, il quale scrisse di Lancillotto, quantunque dicesse Dante rime d'amore ". Particolarmente precisa e recisa la testimonianza del Tasso; il quale, dunque, non dubita che D. alluda a un'attività di A. come romanziere e solo rifiuta il giudizio della superiorità di A. in questo campo. Certo la testimonianza del Tasso pone problemi di non facile soluzione; e in ogni modo sarà forse da ammettere che Torquato abbia avuto a mano un Lancillotto (ma francese o provenzale?) attribuito a un A. che egli ha creduto di dover identificare senz'altro col Daniello, per la suggestione del passo dantesco, interpretato nel modo che, non c'è dubbio, è da rifiutare: come affermazione, cioè, di un A. autore di romanzi. L'altra spiegazione avanzata dai critici romantici e postromantici prospetta l'ipotesi che D. e Petrarca abbiano concepito la loro ammirazione per il Daniello per la conoscenza che essi hanno potuto avere di altre rime del trovatore, non conservate dai canzonieri giunti fino a noi. È ipotesi che non regge: per quanto non sia possibile indicare precisamente a qual tipo dei canzonieri a noi giunti appartenesse il canzoniere su cui si è curvato D. a studiare le rime dei trovatori, è certo che su un solo canzoniere egli ha formato la sua cultura trobadorica (il Bartsch ha creduto di poter affermare che si tratti di una silloge affine al canzoniere estense; di altra opinione è il Santangelo): dunque, se mai, egli di A. conobbe meno di quanto a noi è noto. Non c'è dubbio: l'altissima lode dantesca riguarda proprio l'arte di A. che noi conosciamo.
D'altra parte, se pur da molti critici moderni e non moderni si è avvertito che il giudizio di D. riguarda la maestria insuperabile della tecnica - e solo in questo senso si è riconosciuta la legittimità del giudizio dantesco - si è anche da quei critici sottolineato che la sapienza tecnica è, in A., freddo virtuosismo. Già il vecchio Galvani osservava che l'originalità di A. consiste solo nella ricerca di nuovi mezzi tecnici - per esempio nell'invenzione della sestina - e nella compiacenza per un " parlare intricato " e per l'uso " di parole valenti due e altre volte anche tre cose, perciocché in tutte le poesie di lui... si mostra una certa oscurità "; il Diez non arrivava a comprendere come D. trovasse " tanto godimento nelle forme vuote e artificiose d'Arnaldo "; più severo ancora il Jeanroy per cui A. non esce dalla " banalità frivola " e dalla " bizzarria puerile ", cui fa riscontro una " insignifiance totale de la pensée ".
Lo stesso Anglade, pur riconoscendo che A. è " artista consumato... nella scelta delle parole rare e ricche di vari significati e delle rime ricche " e " si mostra maestro insuperabile di arte e di stile " e che l'ammirazione di D. per A. si spiega con questi aspetti tecnici dell'opera sua, rileva, tuttavia, che " il fondo dell'opera [di Arnaldo] non è di grande originalità "; e dunque, anche per l'Anglade, troppo poca cosa è la sapienza della tecnica a legittimare l'affermazione dantesca della soverchiante superiorità di A. su tutti gli scrittori d'arte volgari, trovatori e romanzieri. Anche meno accettabile l'affermazione per cui l'Anglade ritiene di poter porre il giudizio di D. e del Petrarca in rapporto col fatto che il Daniello ha espresso il suo pensiero " sous la forme la plus obscure "; e cioè interpreta il giudizio di D. e del Petrarca solo come il riconoscimento dell'eccellenza di A. nella tecnica del " chiuso trovare ". Se anche così fosse, restava, tuttavia, da ricercare se D. e il Petrarca non avessero avvertito che A., più e meglio che gli altri trovatori serrati e chiusi, è arrivato, coi mezzi pur comuni alla tradizione del poetare difficile, a realizzare il suo mondo poetico: in realtà, se non si può dire che A. inventi mezzi tecnici veramente nuovi - né può essere di gran peso l'invenzione della sestina -, molto importa riconoscere l'uso che dei mezzi tecnici offertigli dalla tradizione ha fatto il poeta e gli effetti artistici che ha saputo trarne.
Per questa via si è messo il filologo che ha procurato l'edizione critica del canzoniere di A., rimasta ferma fino ad oggi, pur nel rinnovamento della filologia testuale trobadorica, Ugo Angelo Canello; il quale, dopo aver considerato la tecnica arnaldiana della versificazione nella sua esteriorità, quasi come meccanica della composizione; dopo avere, cioè, osservato che il trovatore usa liberamente d'ogni specie di verso, dal monosillabo all'endecasillabo, e che originale è l'arte arnaldesca delle rime considerata sia in sé sia in rapporto alla stanza e alla canzone nel suo complesso (solo una delle canzoni del Daniello si attiene, quanto alla struttura strofica, ai moduli più comuni, mentre in tutte le altre si usano formule assai rare o addirittura novissime, essendo, in ogni modo, la predilezione del poeta riservata al tipo metrico dell'ode continua); spinge a fondo la penetrante indagine fino a scoprire che i modi tecnici che il poeta si foggia servono mirabilmente alla traduzione degli stati d'animo, delle intuizioni liriche del poeta; fino a riconoscere cioè, la piena rispondenza del mezzo alle esigenze profonde dell'artista; ad affermare, cioè, che la tecnica non è fine a sé stessa, puro gioco virtuoso, ma strumento perfetto per cui la poesia è pienamente realizzata.
Conviene puntualmente trascrivere la pagina stupenda in cui il Canello analizza l'arte della sestina Lo ferm voler: poiché essa ci introduce pienamente nel mondo poetico del grande trovatore: " Nelle stanze successive [alla prima] il trovatore che è tormentato quasi da certe idee fisse rappresentate dalle parole finali dei versi, se le sente mulinare in mente, se le armonizza quasi in diversa posizione e un po' alla volta avvezza sé e il lettore a sentire anche l'armonia latente delle assonanze speciali d'ogni stanza; nei tre versi del congedo poi egli riesce a riaccostare definitivamente le sei idee tormentose e ad accordarle in modo a tutti sensibile; e così giunge a quetare nell'armonia il tormento dell'anima sua ".
Prima di accostarci direttamente alla sestina Lo ferm voler, nella quale l'arte danielliana tocca, forse, il suo punto più alto, bisognerà fermarci un momento a considerare la dottrina dantesca della struttura della stanza della canzone (VE II IX e X). La canzone è coniugatio stantiarum, e pertanto bisogna conoscere che cosa sia la stanza per comprendere che cosa sia la canzone. La ‛ stanza ' è la mansio o il receptaculum di tutta l'arte della canzone: la canzone è il gremium totius sententiae, ma la stanza totam artem ingremiat; e l'arte della prima stanza della canzone è norma per tutte. Tutta l'arte consiste nella divisione melodica, nella disposizione delle parti, nella qualità dei versi di cui la stanza è composta. All'arte propria della canzone non appartiene la rima: infatti è lecito in ogni stanza rinnovare le rime o ripetere le medesime ad libitum, il che non sarebbe lecito si de propria cantionis arte rithimus esset. La stanza è, dunque, una sub certo cantu et habitudine ‛ limitata ' carminum et sillabarum ‛ compago '. Ogni stanza ad quandam odam [" melodia "] recipiendam armonizata est; ma " le stanze si differenziano nelle modulazioni, poiché alcune restano sotto un'unica melodia sino alla fine, sine iteratione modulationis... et sine diesi (dico diesis un passaggio che volge da una ad altra melodia, chiamato volta quando si parla ai non letterati: e una tale stanza usò in quasi tutte le sue canzoni Arnaldo Daniello, le cui orme io seguii, quando cantai: Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra ". Sotto un'unica melodia: sub una oda continua, come annotava, l'abbiam visto, il Canello. È la cobla che le Leys d'Amors chiamano dissoluta, governata da una sola indivisibile melodia; e segno dell'indivisibilità è, osserva il Marigo, l'assoluta mancanza di rima entro la stanza: nella cobla dissoluta ogni verso " ha la sua rispondenza di rima in altro che ha la stessa qualità e posizione in ciascuna delle stanze seguenti ". È il tipo di stanza che il Daniello ha usato in quasi tutte le sue canzoni, come esattamente D. rileva, e l'osservazione, nota il Marigo, " fa pensare... ad uno studio largo dell'opera di Arnaldo " da parte dell'Alighieri. Il quale, però, con Al poco giorno, ha imitato non genericamente la tecnica arnaldiana della stanza indivisibile, ma precisamente quella della sestina, che è un componimento di sei stanze di sei versi - e si tratta certo di stanze indivisibili - senza rima, ma le parole finali di ciascun verso della prima stanza si ripetono nei versi delle stanze successive secondo l'ordine della retrogradatio cruciata, già definita nella ritmica latina medievale. V. SESTINA.
Ora è chiaro che dichiarando di " aver seguito " il Daniello proprio accettando la forma più aspra e difficile della tecnica della stanza indivisibile caratteristica dunque dell'arte arnaldiana, D. formula, in realtà, il suo giudizio sull'eccellenza insuperabile di quella tecnica; anticipando, già nel De vulgari Eloquentia, il solenne giudizio del XXVI del Purgatorio; superando il giudizio, fondato sulla valutazione della gerarchia di valore dei contenuti, formulato al cap. II del secondo libro del De vulgari Eloquentia.
Effettivamente, le parole, che abbiamo citato, del Canello ci portano a riconoscere la realtà dell'arte del Daniello, quale D. la sentì: arte che la tecnica sapiente non limita o mortifica. La tecnica arnaldiana non è vuoto artificio che dissimuli l'aridità e la freddezza: è il complesso dei mezzi che il trovatore si è foggiato per servire pienamente e veramente a esigenze artistiche che sono proprie del poeta e solo del poeta. L'affermazione che la distinzione tra tecnica e poesia ha solo valore formale vale specialmente per il Daniello; che ansiosamente cerca i mezzi tecnici idonei a esprimere pienamente il suo mondo. Bene ha scritto il Vossler che " l'artificio è in Giraut qualche cosa di esteriore e disturba; in Arnaut esso nasce dall'impulso della poesia stessa e la incorona come ricca fioritura ".
" Jeu sui Arnautz que amas l'aura E chass la lievra ab lo bou E nadi contra suberna ": io son Arnaldo che accumulo il vento e vado a caccia della lepre col bue e nuoto contro corrente... È la confessione, forse, più aperta che il poeta fa di sé, tormentato ricercatore di mete remote e irraggiungibili. E l'ansia, disperata quasi, si placa nella conquista della parola e del costrutto, che realizzano il fantasma remoto intensamente contemplato.
Possiamo, ora, verificare che in nessun'altra poesia di A. la ricerca tormentata e orgogliosa di vette inaccessibili si riconosce più chiaramente che nella sestina Lo ferm voler. L'impegno terribilmente vincolativo che impone l'impiego delle sei parole-rime rincorrentisi per entro le sei stanze, è reso anche più grave dalle parole-rime che il poeta ha scelto e sembrano repugnare a ogni possibilità di connessione non diremo logica, ma nemmeno fantastica, sembrano remote, assolutamente, una dall'altra e assolutamente dissonanti, non accostabili in alcun modo e non componibili in una serie, comunque, coerente: " intra " (entra), " ongla " (unghia), " arma " (anima), " verga " (verga), " oncle " (zio), " cambra " (camera).
Una sfida al buon senso, osserva il Jeanroy. E certo, anche lasciando da parte il riferimento al buon senso o al senso comune, una sfida aperta e orgogliosa alla difficoltà volutamente cercata è nella scelta delle parole-rime che il poeta ha fatto; ed è sfida che si risolve in vittoria trionfale: pur la materia dura e indocile che si è scelta, il poeta plasma e foggia in immagini grandi e intensissime che le parole strane, che sembrano tra loro in brusco e aspro contrasto, realizzano ed esprimono pienamente:
Il fermo volere che m'entra nel cuore non possono spezzare becco né unghia di lusingatore... non ho membro che non frema né unghia... così come trema fanciullo davanti alla verga... sempre sarò con lei come carne e unghia... Tanto quant'è il dito all'unghia vorrei, se le piacesse, esser vicino alla sua camera... Di me può fare l'amore che m'entra nel cuore meglio a sua volontà che uomo forte di fragile verga... che così s'imprende e s'inunghia mio cuore in lei come scorza nella verga...
Non gioco di parole accorto e brillante ma svagato, bensì traduzione limpida e netta di un mondo intensamente intuito. E non brevi lampi soltanto, che rompano il grigiore del tono freddamente discorsivo: tutta la poesia è animata e illuminata da un fervore impetuoso. Parola e costrutto sono dal poeta foggiati energicamente, a colpi di maglio; sicché l'espressione fabbro del parlar materno rende a pieno i toni e i modi dell'arte arnaldiana della parola (come del resto il termine ‛ fabbro ' conferma); mentre remoto da un'esatta valutazione dell'arte del Daniello sembra resti il Jeanroy, quando propone di sostituire al termine dantesco ‛ fabbro ' un altro termine, ‛ cesellatore '. E, quello di A., un parlare strano e avvolto, intessuto di bruschi contrasti, di chiaroscuri crudi e di linee crude e recise e taglianti. Senza dubbio, Lo ferm voler resta la poesia in cui l'arte di A., gran fabbro del parlar materno, appare più veramente realizzata. Certo, in altre poesie, l'artificio resta meccanismo vano e freddo. Ma sempre, in ogni poesia, c'è un momento almeno, in cui il poeta perviene a far balenare luminosa l'immagine; in ogni poesia, una volta almeno è lo splendore della parola grande che illumina. Così nella IV canzone, che è una dissertazione sull'amore, c'è alla fine l'immagine grande del sole che al tramonto " piove " lento sul mare (" Tro lai on lo soleil ploigna Tro lai on lo soleil plovil "); e nella V canzone il fervore della primavera si risolve in un'esaltazione viva e aspra delle forze vitali del poeta che si desta la notte mentre dorme e riposa il mondo:
Lanquan vei fueill' e fior e frug
Parer dels arbres e.ll ramel
Et aug lo chan que fan e.l brug
La ran' e.l riu, e.l bos l'auzel,
Doncs mi fuella e.m floris e.m fruch Amors
E l cor tan gen que la nueit me retsida
Quant autra gens dorm' e pauza e sojorna.
Lo slancio gioioso d'amore è, nella stessa canzone, espresso con un fortissimo verso (il trentesimo): " Que jois mi monta.l cor e.l ciel "; altrove, con parole violente si esprime l'urto della passione (" Amors m'asauta "...) o l'ardore che brucia e consuma (" m'art dinz ma meola lo fuocs "). Con parole fresche e dolci o squillanti o tenere, invece, son rappresentate le voci inebrianti della primavera (" Dous brais et critz - Lais et confors et voutas - Aug dels auzels "...) o il ricordo di un bacio (" Lo jorn qu'ieu et midons nos baisam ") o la grazia di un ramo fiorito che gli uccelli fan tremolare, non più dolce e leggiadro, però, che il corpo della donna amata:
Ges ram floritz
De floretas en voutas
Cui fan tremblar auzelhon ab lurs becs
non es plus frescs...
Così, di canto in canto, sempre un'intuizione luminosa, una notazione limpida e netta, una visione tutta personale e originale del mondo, una traduzione sicura dei moti della fantasia e del sentimento. Artefice grandissimo, non giocoliere o virtuoso. Insomma, un poeta.
Bibl. - Edizioni: U.A. Canello, Halle 1883; R. Lavaud, Tolosa, Bibl. Mérid., 1910 (" réedition critique d'après Canello "); G. Toja, Firenze 1960. Per la valutazione critica, cfr. Anglade, Les troubadours, Parigi 1907; A. Jeanroy, La poésie lyrique des troubadours, Parigi 1934; A. Viscardi, Storia delle letterature d'oc e, d'oil, Milano 19593. La bibliografia completa fino al 1933 (integrata dall'opera del Frank, Re'pertoire métrique des Troubadours, Halle 1953) è nella Bibliographie des Troubadours del Pillet, Halle 1933, n. 29.
Su D. e A. cfr. l'ampia rassegna della critica in Toja cit., 65, 106; in particolare si consultino F. Torraca, Nuovi studi danteschi nel sesto centenario della morte di D., Napoli 1921, 435-478; C. De Lollis, A. e Guittone, in Idealistische Neuphilologie-Festsschrift fisr Karl Vossler, Heidelber 1922; H. Hauvette, La France et la Provence dans l'auvre de D., Parigi 1929; C. Guerrieri Crocetti, Problemi di poesia antica, Pavia 1942; C.M. Bowra, D. and A.D., in " Speculum " XXVII (1952) 459-474; A. Roncaglia, Il canto XXVI del Purgatorio, Roma 19552; E. Melli, D. e A.D., in " Filologia Romanza " VI (1959) 425-428; S. Battaglia, La scuola dei trovatori, in La coscienza letteraria del Medio Evo, Napoli 1965, 171-214; A. Monteverdi, Il canto XXVI del Purgatorio, in Lec. Scaligera II 955-990.