ARMINIO (Arminius e anche Armenius)
Principe germanico, duce dei Cherusci. Nacque, secondo le migliori probabilità, nel 16 a. C., da primaria famiglia cherusca, la quale anzi fu più tardi considerata come fornita di dignità regale. Suo padre Sigimero aveva un fratello di nome Inguiomaro e un altro figlio detto Flavo. Era una famiglia già entrata nell'orbita romana. Inguiomaro godette per lungo tempo la fiducia dei Romani, e Flavo fu uno dei più valorosi ufficiali dell'esercito imperiale. Anche Arminio prestò servizio sotto i Romani come comandante di un reparto di truppe ausiliarie fornite dai Chemsci durante la campagna di Tiberio in Germania, dal 5 al 6 d. C. La sua condizione in tale contingenza non era propriamente quella d'un ufficiale romano; ma da un accenno, disgraziatamente mutilo, d'uno scrittore antico, risulta che non solo egli aveva avuta la cittadinanza romana, ma era stato anche ammesso nell'ordine equestre, il che era un onore che Augusto non concesse che assai raramente. Arminio dunque aveva reso ai Romani buoni servizî, e molto assegnamento si faceva su di lui. Quelli che poterono conoscerlo da vicino lo descrivevano come un giovane forte di braccio, impressionabile e precipitoso più ancora di quanto fossero i barbari, tutto acceso nel volto e negli occhi del fuoco dell'anima. Della sua innata violenza parla anche Tacito. Non meno impetuoso di lui ci appare il fratello Flavo. Dalla consuetudine con le milizie romane A. aveva riportato qualche conoscenza del latino che inframezzava alla lingua materna.
Un grave malcontento si propagò fra i principi germanici, e perciò fra le loro clientele, quando P. Quintilio Varo, mandato in Germania come legato di Augusto (verso il 7 d. C.), si adoperò a mutare i costumi del paese, e volle introdurre le norme del diritto e le discussioni giudiziarie fra gente abituata a decidere delle sue controversie con la forza delle armi. I principi vedevano tagliate le radici alla loro autorità e alla loro potenza. E gli avvenimenti della rivolta pannonica (6-9 d. C.) non potevano restare senza effetto negli animi della Germania. Varo nel 9 d. C. aveva portati gli accampamenti estivi nel cuore di questo paese, presso il Visurgi (Weser) nel territorio dei Cherusci. Gli stava a fianco A., che spesso anzi era a mensa con lui. Ma intanto tramava accordi con i principi malcontenti contro Varo e i Romani. Qualcuno dei Germani stessi avrebbe denunziato al comandante romano la congiura ordita da A., ma non ebbe ascolto. Passata l'estate, quando Varo levò il campo per tornare verso il Reno, mentre marciava per una regione impervia, tra boschi e paludi, si trovò improvvisamente circondato dai Germani. Il suo esercito fu trucidato. Perirono tre legioni, altrettante ale di cavalleria, sei coorti. Pochi scamparono. Varo si uccise (v. varo e teutoburgo). Così la fama di A. è indissolubilmente legata alla strage di Teutoburgo, a un atto cioè di innegabile perfidia.
La rivolta delle stirpi germaniche non fu generale; una parte rimase fedele, o almeno non ostile ai Romani. Tra i parenti stessi di A., rimase fedele Inguiomaro, a non parlare poi di Flavo. Era passato invece ai ribelli Segeste, cittadino romano, di cui A. aveva tolta in moglie violentemente la figlia, nota col nome di Tusnelda. Ma tra suocero e genero covavano fieri odî, e gli anni che seguirono alla disfatta di Varo, sino al 15 d. C., sono occupati dalle lotte combattute da queste due. Segeste riuscì a far prigioniero A., ma in seguito fu fatto a sua volta prigioniero dalla fazione del genero. Tuttavia Segeste aveva potuto riprendere e condurre con sé la figlia. Arminio lo assediò. A questo punto, Segeste invocò l'aiuto di Germanico e dei Romani, che avevano passato il Reno. Germanico lo liberò, ma tenne come prigioniera Tusnelda allora incinta (15 d. C.). Pieno di furore, A. chiamò a raccolta i Cherusci: Inguiomaro si unì a lui, altre popolazioni si levarono in suo favore. I Germani comandati da Arminio furono di nuovo di fronte ai Romani. Egli riprese l'antica strategia che aveva portato alla distruzione l'esercito di Varo: cercare di giovarsi del terreno, assalire il nemico quando si trovasse in situazione sfavorevole, tra boschi e paludi. Questo gli riuscì in parte con Germanico, in uno scontro che si chiuse senza che ci fosse un vincitore e un vinto, ma molto più con l'esercito comandato da Cecina, che doveva raggiungere il Reno attraverso i cosiddetti "ponti lunghi", un'angusta via fra terre fangose e paludi chiuse intorno da selve. Ivi sembrò che il disastro di Varo fosse prossimo a ripetersi. I Romani si trovarono in situazione estremamente critica, ma l'assalto che il nemico imbaldanzito volle dare all'accampamento fu vittoriosamente respinto. Arminio si salvò, Inguiomaro rimase gravemente ferito. L'esercito romano raggiunse indisturbato il Reno (15 d. C.).
Le operazioni militari furono riprese nell'anno seguente dopo che fu fatto da parte di A. un inutile tentativo d'indurre il fratello Flavo a disertare le file romane. Si combatté un'accanita battaglia nella pianura di Idisiaviso a levante del Visurgi. I Germani furono disfatti, A., ferito, scampò per miracolo dalle mani dei Romani, dopo di essersi tinto di sangue il viso per non esser riconosciuto. Seguì a questa una nuova battaglia, al confine degli Angrivarî, in campo che aveva per i Germani il solito vantaggio di boschi e paludi. Ma anche questa terminò con la vittoria dei Romani. L'opera di A. non fu quale era stata altrove, forse in conseguenza della ferita riportata nella battaglia precedente (16 d. C.).
Dall'anno seguente i Romani non entrarono più in campo in Germania. Tiberio preferì di abbandonarli alle loro discordie intestine. E in effetto queste non mancarono. Si ebbe da prima una guerra tra A. e Maroboduo, nella quale Inguiomaro passò dalla parte di quest'ultimo, non fidandosi di rimanere ancora sotto gli ordini del nipote. Si combatté una battaglia ch'ebbe esito incerto. Ma Maroboduo si ritirò nei suoi territorî né A. pensò d'inseguirlo. Probabilmente egli aveva molto da fare nel suo paese. La defezione di Inguiomaro non è senza significato. Arminio tendeva sempre più a prender gli atteggiamenti dispotici, ed ebbe a lottare con altri principi, contro i quali combatté con diversa fortuna. Cadde in ultimo, a quanto ci è detto, per insidie tesegli dai suoi stessi parenti. Aveva 37 anni. Sua moglie, Tusnelda, era stata condotta a Roma ad ornare il trionfo di Germanico (17 d. C.), insieme col figlioletto Tumelico, che fu educato a Ravenna.
Tracito è pieno di ammirazione per A. che proclama come il liberatore della Germania, assicurando ch'egli viveva ancora nei canti della sua gente; e deplora che gli scrittori greci non facessero menzione di lui, né i latini lo conoscessero quanto meritava. Pure, la disfatta di Varo era stata ampiamente narrata da scrittori latini, già prima di Velleio (30 d. C.). Questo scrittore dedica ad essa un paragrafo, che ci è prezioso, tuttoché molto breve. Una descrizione più particolareggiata, tratta da ottima fonte, e non troppo guasta da tendenze retoriche, ci è conservata in Dione. Preziosi sono pure gli accenni tuttoché frammentarî che ci conserva Strabone. Tacito è la fonte principale degli avvenimenti che vanno dal 14 al 19. La narrazione del compendio di Floro, il quale mostra di credere che Varo sia stato assalito nei suoi accampamenti, è priva d'ogni valore. Ad A. è stato alzato dalla Germania presso Detmold un monumento gigantesco cominciato nel 1838 e inaugurato nel 1875. La statua in bronzo è opera dello scultore E. V. Bandel (morto nel 1876).
Col ridestarsi della coscienza nazionale in Germania, la figura di A., esaltata a simbolo di libertà e di indipendenza, ebbe naturalmente un larghissimo culto nella poesia. Fra i poeti che ne trattarono sono J. E. Schlegel, Klopstock, C. H. v. Ayrenhoff, Heinrich von Kleist, F. De la Motte Fouqué, A. Kopisch, Louise Pichler, Eugenia delle Grazie. Frammenti di opere lasciarono anche Wieland e Otto Ludwig. Le cose più notevoli sono le poesie di Klopstock e il dramma di Kleist. Il punto di vista è quasi sempre non soltanto accesamente germanico, ma antiromano. La stessa Hermannsschlacht di Kleist è viziata, come opera di poesia, dalla tendenziosità troppo evidente della composizione.
Bibl.: Oltre all'ampio e particolareggiato articolo del Rohden, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 1190 segg., vedi V. Gardthausen, Augustus und seine Zeit, I, iiii, Lipsia 1904, p. 1194 segg., e II, iii, p. 789 segg., con ricca bibl.; F. Knoke, Die Kriegszüge des Germanicus in Deutschland, 2ª ed., Berlino 1922.
Per la figura di Arminio nella storia della letteratura, v. W. Creizenach, Armin in Poesie und Literaturgeschichte, in Preussische Jahrbücher, XXXVI (1866), da completarsi ora con l'ampio elenco di opere che dà W. Kosch nel suo Deutsches Literaturlexikon, I, Halle 1927.