Armannino da Bologna
Giudice e notaio, nato nel capoluogo emiliano prima del 1260. Compiuti gli studi legali, esercitò l'attività notarile in alcune città d'Italia, tra cui Viterbo, mantenendo la residenza a Bologna, dove nel 1310 aveva comprato un ampio podere con case. Prima del 1320, o in quest'anno stesso, si stabilì a Fabriano, dove compose l'unica sua opera, La Fiorita, terminata nel 1325, e dove probabilmente morì in data sconosciuta.
Nella Fiorita A. narra la storia del mondo da Adamo a Corradino di Svevia, dilungandosi specialmente a trattare le vicende dei cicli tebano e troiano, e inserendo nel corso della narrazione divagazioni, di carattere per lo più moraleggiante, là dove un avvenimento o un personaggio gliene offrono pretesto. Le fonti dell'opera sono citate dallo stesso A. nel prologo, dopo la dedica a Bosone da Gubbio " egregiae nobilitatis et potentiae militi et domino suo ": oltre a Darete e Ditti, esse sono i " dicta... Josephi, Josuae, Moisis, Petri, Terrentii..., Virgilii, Statii, Omeri et Lucani..., Boetii, Oratii, Isidori, Cassiodori... "; e poco oltre sono citati Solino e Giovenale. Si tratta dunque delle fonti comuni a gran parte della letteratura didascalica medievale.
Tra le ragioni d'interesse che l'opera indubbiamente riveste nella storia della cultura due-trecentesca, essenziale è quella concernente i rapporti tra A. e l'opera dantesca. Oltre a precisi riferimenti alla Commedia, A. ripete infatti da D. l'inizio e, grosso modo, la struttura della propria opera, immaginando di trovarsi, " già lungo tempo pellegrino errante ", smarrito in un " tenebroso bosco " che non lascia scorgere " via né sentiere ": topos che, per quanto già presente nella letteratura didascalica, appare qui con evidenza assunto direttamente dalla Commedia. Gl'incontri di A. nella selva non sono però quelli di D.: capitato in mezzo a una " compagna d'uomini constanti ", da cui è pregato di raccontare i detti dei " nostri antichi autori ", gli si fa poi innanzi a rincuorarlo " una antica donçella ", personificazione della Fiorita stessa (" Io son Fiorita di molti colori; / mostrar mi vegno per darvi dilecto ") e della poesia: essa gli si offre come guida (ma meglio si direbbe come ‛ moderatrice ' del racconto, da lei spesso interrotto allo scopo di sottolinearne i ‛ fiori ').
La prima citazione esplicita della Commedia (mai designata con questo titolo, ma solo col generico appellativo di " libro ") ricorre a proposito di Semiramide (" de costey fa menzione Dante nel suo libro "), della quale è sottolineata la corruzione, sia perché " fece fare legge che ... ongne altra femena " potesse sposare il proprio figlio, sia perché " fo quella che prima trovò brache... così coprìo la vergogna altrui qual mai la sua non seppe coprire " (codice Vaticano Barberiano lat. 3923 f. 8 v). Più interessante la chiosa a Pg XXIV 123 a proposito dei doppi petti dei centauri, i quali, essendo metà uomini e metà cavalli, " doi pecti senpre mostrava. E questo ad quello che dice lo buon Danti nel suo libro, dove pone che Teseo combactio co li dopli pecti " (ibid., f. 14 i). Ancora dal Purgatorio (ix 37) è la citazione successiva; A. se ne serve per sfatare la leggenda secondo la quale Achille fu condotto a Sciro su una barca trainata da delfini: " Così conta Statio la novella; ... però disse Danti nel suo bel libro quella parola, qual pochi l'atende non altramente se non come [Theti] portò Achille da Chyrone a Schyro " (ibid., f. 33 v). Dopo aver descritto il bestiale atto di Tideo morente contro il corpo di Menalippo, A. così apostrofa direttamente il personaggio: " Pensasti de canpare per tal vendecta? Folle fusti e sença pietate, però di te aver mercé non debbe Collui ch'è posto sopre le vendecte. Dante Allegieri nel suo bello libro fece mentione del tuo mal facto solo per biasmare lo tuo mesfacto " (ibid., f. 56 v).
Di notevole interesse, ma con ogni probabilità nulla più di una " bizzarra reminiscenza dantesca " (Parodi) sono poi le tre citazioni del Veltro, a proposito delle quali è stata anche avanzata l'ipotesi (Cian) che D. avrebbe potuto attingere a tradizioni anteriori, alle stesse, cioè cui potrebbe esser risalito anche A., che di D. si serve qui soltanto come di un ‛ auctor ' ponendolo a rango con Merlino: " Ma, come dice Merlino, queste [corruzione e controversie religiose] se debono poi finire per la caccia di quel forte veltre, qual cacciarà quella affamata lupa [qui evidentemente assunta a simbolo della corruzione] onde risorge tanta crudelità " (ibid., f. 16 v-17 r); e ancora: " Toscana [è] quella provincia sola ch'à comosse tucte l'altre terre a li magiuri facti che mai facesse alcuna altra gente. E questo diviene per loro malitioso engengno assai più che per sua bona vertude... Ma quel gran veltre che cacciarà la lupa, de la quale disse Dante nel suo libro, sarà quello che scroperà [" scoprirà "] li loro arguaiti [" inganni "] e farà parere li più soctili di loro essere li più grossi, e stutarsse [" cessare "] la sophysticatione quale era tra loro " (ibid., f. 27 r-v); infine Eligio, discendente di Antenore, " edificoe due cittadi: l'una fé chiamare ‛ Feltro ' e l'altra ‛ Fioltro '... Tra queste due terre doveva nasciere quello veltro che caccierà la lupa de la quale fa mentione Dante Alighieri ".
Tralasciando altre citazioni e chiose (tra le quali ricorderemo solo quella che fa derivare il nome di Pavia da " pape ", che " en greco vien a dire ‛ grande meravilgia ' "), o infine calchi più o meno evidenti di concetti e di forma (tutti comunque limitati all'ambito di Inferno e Purgatorio), merita considerazione un passo (f. 63 r) nel quale A. accenna a un altare in Atene che " non se sapìa de qual dio fosse consacrato, però giacea scoperto e sença alcuno honore; ma tucti li tribulati che ve gìa devotamente, sença alcuna offerta vi avìa exaudito... Questo altare... durò poi lungo tempo, perfino che Cristo venne... Santo Paulo vedendo lo miracolo de questo altare, per revelatione de l'angelo de Dio comminciò a predecare e mostrare a quella gente pagana como tucti l'altri altari erano consacrati a le demonia, e solo quello era consacrato al vero Dio; onde molta gente allora se convertìo ". Il Savj-Lopez pensò di poter indicare in questo passo di A. un sostegno a un'osservazione dello Scherillo, per il quale alla mente di D. l'idea della conversione di Stazio si sarebbe potuta affacciare leggendo " gli ultimi libri della Tebaide: un indizio ei ne trovò forse nel 1x, nello scoramento di Apollo; una magnifica conferma nel XII, nella dipintura dell'Ara della Clemenza " (cfr. Theb. xli 481-484 " Urbe fuit media nulli concessa potentum / ara deum; mitis posuit Clementia sedem, / et miseri fecere sacram; sine supplice numquam / illa novo, nulla damnavit vota repulsa "); accostando il passo di Stazio a uno degli Atti degli Apostoli (17,23 " videns simulacra vestra [è s. Paolo che parla agli Ateniesi], inveni et aram, in qua scriptum erat ‛ ignoto deo '. Quod ergo ignorantes colitis, hoc ego annuncio vobis "), lo Scherillo suppose che D. avrebbe potuto accostare i due passi e vedere nell'antico altare ateniese un primo segno di cristianesimo, e in colui che quell'altare aveva citato un segno di conversione. Tenendo in debita considerazione le critiche che allo Scherillo aveva mosso l'Albini e ribadendo l'esplicita dichiarazione di D. stesso (Pg XXII 55 ss.) che nulla negli scritti di Stazio esisteva di seppur vaga ispirazione cristiana, il Savj-Lopez conclude che la ‛ contaminatio ' tra Stazio e gli Atti operata da A. (o, assai verosimilmente, da qualcuno prima di lui, come ha potuto dimostrare il Landi sulla scorta di scolii al relativo passo della Tebaide) se certo non poteva essere " la chiave di tutta la leggenda [della conversione del poeta latino], che secondo le parole di Dante va cercata fuori del poema ... è forse una delle ragioni che la leggenda resero possibile ".
Familiare di Bosone da Gubbio, uno dei primi divulgatori dell'opera dantesca, A. si mostra in definitiva buon lettore della Commedia e, forse, del Convivio e del De vulgari Eloquentia, di cui sembra parafrasare qua e là alcuni passi. Le citazioni che egli produce del poema dantesco non mostrano tuttavia che ne avesse approfondito la lettura, ma si mantiene su un piano di superficialità: c'è più la deferenza nei confronti di un'auctoritas che l'ammirazione cosciente della reale grandezza del poeta fiorentino; sì che sembra lecito concludere col Parodi che A. " merita d'esser tenuto in conto per la storia della fortuna di Dante; non già, o almeno ben di rado, per l'interpretazione del Poema ".
Bibl. - V. Cian, Sulle orme del Veltro, Messina 1897, 96 ss.; M. Scherillo, Il cristianesimo di Stazio secondo D., in " Atene e Roma " V (1902) 497-506; G. Albini, Se e come la ‛ Thebais ' ispirasse a D. di fare Stazio cristiano, ibid. 561-567 (recens. ad ambedue gli articoli in " Bull " IX [1902] 311 ss.); P. Savj-Lopez, Storie tebane in Italia, Bergamo 1905, XXI-XXIII (recens. di E.G. Parodi, in " Bull. " XII [1913] 373-374); M. Scherillo, Lectura Dantis. Stazio nella D.C., in Miscellanea di studi... della R. Accad. scient. e letteraria, Milano s.d. [ma 1913]; C. Landi, Sulla leggenda del cristianesimo di Stazio, in Atti e memorie della R. Accad. di Scienze Lettere e Arti di Padova, XXIX (1913); recens. entrambi da E.G. Parodi, in " Bull. " XX [1913] 184-193); G. Ghinassi, A. giudice, in Dizion. biogr. degli Ital. IV (1962) 224-225.