TESTA, Armando
TESTA, Armando. – Nacque a Torino il 23 marzo 1917, da Amadio e da Lucia Teresa Sarzotto, di professione portinai di una fabbrica.
Dopo la morte del padre si ritrovò, insieme alla madre e a tre fratelli, in una condizione economica assai difficile. A tredici anni dovette pertanto abbandonare le scuole e a quattordici iniziò a lavorare come apprendista compositore tipografico. Contemporaneamente, nel capoluogo piemontese, frequentò di sera la scuola tipografica Giuseppe Vigliardi Paravia, dove il pittore astrattista Ezio D’Errico, che lì insegnava, lo fece appassionare all’arte contemporanea (un interesse destinato a marcare profondamente il suo orizzonte professionale negli anni a venire). Nel 1937, conseguì la prima vittoria in un concorso, con la preparazione di un manifesto per l’azienda milanese di colori e inchiostri tipografici da stampa ICI (Industria Colori e Inchiostri); il disegno geometrico che preparò per l’occasione, all’insegna di un design semplice con le lettere dell’acronimo dell’impresa in forma di origami, annunciava già i futuri sviluppi dell’opera del pubblicitario-artista.
Mosse i primi passi in quella che sarebbe stata la professione di tutta una vita nello studio grafico fondato nel 1946 a Torino (lo Studio Testa), che ottenne alcuni incarichi, tra gli altri, da committenti come Pirelli e l’azienda produttrice di cappelli Borsalino.
Figura istrionica e personalità estroversa, «nato povero, ma moderno» (come ebbe modo di definirsi), era, nella sua essenza, un giovane artista e un illustratore per l’editoria, con un’attrazione per gli affichistes francesi dell’Ottocento (da Honoré Daumier a Henri de Toulouse-Lautrec); e quello era precisamente l’imprinting, tra grafica e belle arti applicate, che orientava la pubblicità – ruotante esclusivamente intorno alla realizzazione di manifesti, volantini e réclames – dell’Italia della prima metà del secolo.
Nel 1956, convertì il suo studio grafico in un’agenzia pubblicitaria, composta da sei persone, dedicata pure alla pubblicità in televisione, intercettando così il processo di trasformazione che proveniva, anche (e soprattutto) in questo ambito, dagli Stati Uniti. In associazione con Francesco e Lidia de Barberis (il primo che si occupava di marketing, la seconda che svolgeva il ruolo di amministratrice e si dedicava ai rapporti con i mezzi di comunicazione), nacque così l’Agenzia Armando Testa. Lidia de Barberis fu anche la sua prima moglie, e dalla loro unione nacquero tre figli: Delfina, Marco e Antonella; il loro sodalizio professionale non si interruppe mai, neppure con la fine del matrimonio (Testa si sarebbe in seguito risposato con Gemma De Angelis).
L’Agenzia Armando Testa era una (piccola) agenzia di pubblicità a servizio completo, destinata a crescere nel tempo fino alla posizione di primo gruppo unicamente italiano, e capace di rivaleggiare con le filiali locali dei gruppi multinazionali della comunicazione anglosassoni. Un’operazione che, come testimoniato dal suo stesso protagonista, significò anche l’addio ai ‘sogni di gloria’ artistici e pittorici in prima persona.
Grazie a questa metodologia professionale e a questo tipo di lavoro di agenzia, Testa si rivelò un anticipatore, in grado di declinare meglio la «maniera italiana» – come la etichettò il semiologo Omar Calabrese (in Armando Testa, 1985, p. 14) – e la via nazionale alla propaganda commerciale. E di quel Novecento che è stato anche un secolo di grande pubblicità italiana rappresentò uno dei massimi protagonisti. La sua è una figura che va annoverata tra i pionieri e i padri fondatori dell’advertising, in grado di interpretare in modo esemplare l’evoluzione della professione pubblicitaria in Italia e i mutamenti della società e dell’economia di una nazione che viveva il ‘miracolo’ del boom e la rivoluzione della televisione medium di massa.
La sua peculiarità fu la realizzazione dei manifesti e la cartellonistica; nel 1960 concepì per la Carpano e il suo aperitivo Punt e Mes (in dialetto piemontese «un punto e mezzo») quello che sarebbe divenuto, per molti versi, il suo manifesto più famoso, con una sfera sospesa su un’altra mezza sfera, ambedue rosse e collocate su uno sfondo bianco.
Il giovane Testa fece dunque i propri esordi come graphic designer e si convertì, strada facendo, in un «visualizzatore globale», secondo la definizione riservatagli da Gillo Dorfles (in Armando Testa, 1985, p. 19). Il segno grafico rappresentò, infatti, costantemente un elemento centrale della sua ricerca, che lo portò a realizzare una successione di manifesti memorabili lungo tutto l’arco della carriera: ‘re Carpano’ (1951); i pneumatici Atlante Pirelli (1954); il digestivo Antonetto e la campagna per le Olimpiadi di Roma (con il design del logo ufficiale, il tedoforo triangolare ispirato alla pittura di Mario Sironi) nel 1960; il collirio Stilla e i pannolini della Lines nel 1968; gli abitanti sferici del pianeta Papalla per promuovere gli elettrodomestici della Philco (1969); la ‘dolce Euchessina’ (1975).
Un talento che trovava nella sintesi e nel saper cogliere al volo il connotato distintivo primario della merce reclamizzata due delle qualità fondamentali, perché vincente – una regola immarcescibile della comunicazione – è quel messaggio che veicola un concetto, un’idea o una merce che si fanno ricordare in maniera diretta ed essenziale. Accanto a un uso marcato del colore, si collocavano l’ironia e la capacità di contestualizzazione del prodotto rispetto a un ambiente sociale e culturale, come nel connubio con l’azienda Carpano (creatrice del vermut), la cui pubblicità era intrisa di sottintesi e riferimenti tutti ‘sabaudi’; e, ancora, come nella giocosa reinvenzione di alcune figure chiave del Risorgimento e della storia patria (da Cavour a Giuseppe Verdi). Testa riuscì a partorire una sequenza di vere e proprie icone grafiche, il cui ricordo si tramanda tutt’oggi, dall’elefante Pirelli alle già ricordate sfere di Punt e Mes, dall’ippopotamo blu Pippo della Lines fino ai pupazzi di Caballero e Carmencita per il caffè Paulista della Lavazza. E, perciò, moltissime furono le imprese di prima grandezza che si rivolsero a lui, dalla Peroni alla Face, da Olio Sasso alla Simmenthal, sino alla Banca nazionale del lavoro.
Un Paese nel pieno del miracolo economico e una società affluente trovarono in Testa il cervello creativo per rappresentarsi ed esprimere la gioiosa vertigine dei consumi che, finalmente, si estendevano a settori ampi della popolazione. Il Carosello televisivo fu il palcoscenico di questa stagione di consumismo felice e pacificato che si premurava di arrivare direttamente dentro le case degli italiani, e lo Studio Testa ne costituì il principale, e più brillante, ‘spacciatore di idee’, nonché una speciale fucina di creatività per alimentarne il format. Di quel fermento e di quella fase di modernizzazione sotto la stella dell’americanizzazione Testa si fece terminale – lui che proveniva giustappunto dall’assai più tradizionale cultura della cartellonistica – adottando per la propria agenzia i paradigmi di organizzazione del lavoro d’Oltreoceano, e cavalcando la ventata di novità e le potenzialità in termini di efficacia promozionale offerte dal tubo catodico.
Cominciarono così a piovere anche i riconoscimenti: nel 1968 ricevette la medaglia d’oro del ministero della Pubblica Istruzione per il suo contributo all’arte visiva, nel 1975 la medaglia d’oro della Federazione italiana della pubblicità per i successi ottenuti all’estero e, tra il 1965 e il 1971, gli venne assegnata la cattedra di disegno e composizione della stampa presso il Politecnico di Torino.
Nel 1978, a seguito del cambiamento dell’assetto societario, sorse l’Armando Testa S.p.a., che sbarcò anche a Roma e Milano affermandosi come la prima agenzia pubblicitaria nazionale per fatturato (nonché, al momento, ulteriore peculiarità significativa, l’unica operante nel Paese a capitale interamente italiano). Dalla seconda metà degli anni Ottanta, maturò una ‘svolta’ professionale che condusse Testa a lavorare sempre più strettamente con istituzioni e festival culturali (sue furono, a lungo, la comunicazione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, e l’ideazione del logo e dell’immagine del Salone del libro nel 1988), oltre che di musei (come il Castello di Rivoli) e associazioni di impegno civile e promozione sociale (dalla Croce rossa ad Amnesty international). Nel 1985 gli succedette come direttore generale dell’Agenzia Testa il figlio Marco che, vincendo alcune riluttanze, era entrato nella compagine all’inizio degli anni Ottanta; un altro elemento che conferma l’importanza del ruolo della famiglia nella sua attività.
Un creativo integrale, quindi, e un inesauribile innovatore, che seppe mescolare i rimandi alla cultura pop, nelle sue modificazioni nel corso del tempo, ai segni grafici e agli stilemi concettuali ricavati dalle avanguardie artistiche del Novecento (astrattismo, futurismo, dadaismo e surrealismo). E il modernizzatore che traghettò un combinato disposto di figure retoriche e personificazione originale dei prodotti all’interno di un’economia in procinto di farsi brand economy. Ovvero, la gloriosa ‘maniera italiana’ al servizio dei progetti di marketing dei marchi, cui mise a disposizione una modalità originale di ricorso alle figure dei testimonial per la pubblicità televisiva, e un utilizzo speciale della citazione – e del ‘citazionismo’ – che lo pose in sintonia con una certa sensibilità postmoderna, come ebbe modo di sottolineare Calabrese (in Armando Testa, 1985, p. 15).
Testa fu una delle «icone europee» della pubblicità, secondo Mark Tungate (2010, p. 177), uno dei giornalisti di riferimento per il settore della comunicazione e del marketing. Se i detrattori gli imputarono una responsabilità nella semplificazione linguistica quale tratto costitutivo del ‘DNA’ della pubblicità nazionale, appare indiscutibile la sua preveggente comprensione della rilevanza delle leve dell’emozione e del divertimento (e dell’umorismo) per coinvolgere e appassionare il compratore-spettatore.
Morì il 20 marzo 1992 a Torino.
Fonti e Bibl.: A. T. Il segno e la pubblicità, Milano 1985 (in partic. O. Calabrese, A. T. e la pubblicità, pp. 13-18; G. Dorfles, A. T.: visualizzatore globale, pp. 19-24); G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, Milano 2001; D. Pittèri, La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Roma 2002; G.L. Falabrino, Storia della pubblicità in Italia dal 1945 a oggi, Roma 2007; M. Tungate, Adland. A global history of advertising, London 2007 (trad. it. Storia della pubblicità: gli uomini e le idee che hanno cambiato il mondo, Milano 2010); M. Arcangeli, Il linguaggio pubblicitario, Roma 2008; V. Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, Roma 2013.