Armando Saitta
Saitta è stato uno dei maggiori esponenti del rinnovamento della storiografia italiana di questo dopoguerra. Si deve essenzialmente ai suoi studi il ripensamento del Risorgimento e il suo radicamento nel giacobinismo italiano. Tema avvertito dalla tradizionale storiografia liberale e sabaudista come politicamente eversivo, ma che Saitta tenne sotto stretto controllo scientifico, scontrandosi duramente proprio con quanti facevano del giacobinismo italiano un’identità di partito. La difesa del rigore metodologico e dell’onestà intellettuale, lo espose all’aggressione della contestazione studentesca, a censure editoriali, infine all’isolamento fecondo, fuori da ogni conformismo mondano della cultura di regime.
Armando Saitta nacque il 15 marzo 1919 a Sant’Angelo di Brolo, piccolo paese in provincia di Messina. La madre, Maria Teresa Caldarera, era insegnante elementare. Il padre, Francesco Paolo, aveva avviato in loco, una piccola fabbrica di produzione di sapone che dovette però chiudere alla fine del 1930, morendo poco dopo (1934) e lasciando la famiglia in difficoltà economiche. Armando, ultimo di quattro figli, alla morte del padre completò in anticipo gli studi, conseguendo la licenza liceale a Messina nel 1934 e vincendo, l’anno seguente, il concorso d’accesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Assieme ad altri allievi della Scuola (oasi di libere discussioni grazie alla guida intelligente e tollerante di Giovanni Gentile), fu uno dei membri del gruppo d’opposizione liberalsocialista. Ebbe maestri, in Normale, Luigi Russo e Guido Calogero; e, alla facoltà di Lettere, Carlo Morandi. Si laureò nel giugno 1940, discutendo una tesi su Andrea Luigi Mazzini, argomento per cui Calogero l’aveva messo in contatto con Delio Cantimori che da allora sarebbe stato il mentore del giovane studioso siciliano.
Insegnante di ruolo dal 1942 presso l’Istituto magistrale di San Miniato, vi trascorse i mesi drammatici del passaggio del fronte, rendendosi protagonista, nel luglio 1944, della riunione del collegio docenti che esprimeva il plauso «nel vedere l’istruzione italiana affidata alle mani prima di Adolfo Omodeo e ora di Guido De Ruggiero».
Dal febbraio 1947 fu comandato presso la Scuola di storia moderna e contemporanea annessa all’omonimo Istituto storico italiano; dall’ottobre 1949 ne assunse le funzioni di segretario. A Roma entrò in contatto con don Giuseppe De Luca che gli aprì le porte delle proprie prestigiose Edizioni di Storia e Letteratura che ne pubblicarono i primi volumi. Dopo un discusso esito del concorso del 1951 alla cattedra di storia medievale e moderna bandito dall’Università di Cagliari, che lo vide escluso dalla ‘terna’, lasciò l’Italia per andare, lettore di italiano, all’Università di Granada per gli anni 1953-54. Da Granada, nell’estate del 1953, fu chiamato a dirigere la rivista «Movimento operaio».
Nell’ottobre 1954, appena tornato in Italia, vinta la cattedra universitaria di storia moderna, fu chiamato presso la facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. Dal 1955, proposto da Russo a Vito Laterza, diresse la Collezione storica dell’omonima casa editrice; nel 1962 pubblicò la rivista «Critica storica», diretta fino alla morte. Lasciò l’Università di Pisa per la facoltà di Magistero di Roma nel 1967-68. Si oppose alla violenta contestazione studentesca (di cui individuò la sottostante eversione sociale, fintamente ugualitaria, in danno dei ceti sociali più deboli) fino a subire un cedimento fisico. Dal 1971-72 passò alla facoltà di Scienze politiche dove, nel 1989, avrebbe concluso la sua attività di docente.
Nominato nel 1973 presidente dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, accademico dei Lincei, fondò l’Associazione degli storici europei (1986), di cui fu il primo presidente, e sotto la cui egida si svolse nel 1989 il grande Convegno internazionale dedicato alla Storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese. Si spense a Roma il 25 maggio 1991.
Ci sono circostanze che racchiudono in una simbologia esplicita e rivelatrice la continuità della sua formazione di giovane studioso e poi di docente: il primo seminario che seguì in Normale nel 1936 sulla libertà in Vittorio Alfieri, sotto la guida di Russo; la prolusione al suo primo corso, tenuta il 16 febbraio 1955 all’Università di Pisa sul Robespierrismo di Filippo Buonarroti e le premesse dell’unità italiana; il ricordo di Russo pubblicato sul fascicolo d’esordio di «Critica storica», nel 1962; l’iniziativa, unica nel suo genere, che volle prendere presso l’Istituto storico italiano, nel 1980, di pubblicare gli Scritti storici di Morandi; l’ultimo corso di lezioni, nel 1988-89, dedicato a Cantimori. È un cerchio che si chiude e che racchiude le sue esperienze esistenziali e intellettuali con i vecchi maestri diventati colleghi.
All’esuberanza polemica di Russo che nel 1936 leggeva in Alfieri la funzione antitirannica della letteratura, si aggiunsero i seminari e i colloqui con Calogero, più freddi, analitici, che lasciarono in Saitta il senso di una «spietata logica demistificante». Attraverso Calogero maturò la scelta liberalsocialista (incontrando di persona Benedetto Croce, e finendo subito schedato dalla Polizia politica). A Calogero si dovette la pubblicazione del primo articolo di Saitta sul Problema della filìa in Aristotele e nello stoicismo (1939). Gli interessi ottocenteschi nacquero dal lavoro con Morandi, all’Università, in particolare da un seminario su Andrea Luigi Mazzini che divenne l’oggetto della sua tesi di laurea per cui dal 1938 era in contatto con Cantimori. Dalla tesi pubblicava il saggio Sull’opera di Andrea Luigi Mazzini “De l’Italie dans ses rapports avec la liberté et la civilasation moderne” (1941), in cui appariva la ricerca delle componenti eterodosse del Risorgimento italiano e l’affiorare del marxismo in Italia, con evocativi riferimenti ai principi di libertà espressi dall’hegeliano toscano.
La linfa liberalsocialista che aveva innervato Saitta negli anni di studi pisani (e che l’avrebbe portato ad aderire al Partito d’azione), nel dopoguerra lo rimise in contatto con il ‘gruppo crociano eretico’ di Russo e Omodeo, alla cui rivista «L’Acropoli» avrebbe infatti collaborato. La Francia appariva allora a Saitta la palestra costituzionale e il crocevia ideologico di una nuova concezione europea: a guerra appena conclusa, le discussioni sulla struttura costituzionale della Quarta Repubblica, il ruolo ‘cesaristico’ di Charles De Gaulle, la fine dell’egemonia culturale tedesca ecc., erano temi che incrociavano le vicende italiane (cui le risposte del liberalsocialismo apparivano però a Saitta scarsamente concrete). Ispirata al ruolo francese di guida politico-spirituale per la nuova Europa, democratica e federalista, è l’edizione, curata da Saitta nel 1945, de La riorganizzazione della società europea di Claude Henri de Rouvroy de Saint-Simon e Augustin Thierry pubblicato nel 1814; un lavoro che fa il paio con quello, approntato nel biennio 1946-47, nell’ambito della collana di studi promossa dal ministero per la Costituente, per la pubblicazione dei testi costituzionali francesi del 1789-1795, del 1875, e di quello della Quarta Repubblica. E inevitabilmente alla Francia, alla sua radice politico-culturale presente e infissa nella storia d’Europa, è dedicato il suo primo volume: Dalla ‘Res publica christiana’ agli Stati uniti d’Europa. Sviluppo dell’idea pacifista in Francia nei secoli XVII-XIX (1948). Un volumetto scritto avendo già aderito al materialismo storico (non al Partito comunista italiano), edito sotto l’egida di don De Luca poco prima delle elezioni del 18 aprile 1948, ma senza che vi si ravvisi una minima commistione politica.
Il seguito delle sue ricerche a vasto raggio lo portò al superamento dello schema idealistico-crociano, omodeiano, in tema di Rivoluzione francese e di Risorgimento italiano, e a una progressione di accostamenti al tema che lo vide protagonista del ripensamento storiografico dell’Unità nazionale: Filippo Buonarroti. Il primo volume dedicatogli, edito nel 1950, venne accolto con plauso da Cantimori sulla «Rivista storica italiana»: «Finalmente un Buonarroti politico», situato al crocevia europeo della storia del movimento operaio in Francia e della «tradizione propriamente democratica del nostro Risorgimento» (in D. Cantimori, Studi di storia, 1959, p. 606); l’universo settario veniva ricostruito e definito da ricerche minute, rigorosamente filologiche, che ne risolvevano l’apparente contraddizione politica di cospiratore e agente del Direttorio: «l’azione rivoluzionaria (giacobina, democratica) in Italia era una parte del piano di cospirazione babuvista» (p. 610); il Risorgimento italiano veniva con ciò radicato in un contesto repubblicano e socialista (e presabaudista).
Il superamento della tradizionale storiografia risorgimentista italiana veniva rimarcato da Saitta in occasione di un proprio intervento sul coevo Il Risorgimento in Sicilia (1950) di Rosario Romeo. Saitta su «Società» (1951), ne parlava anzi come di «atto di decesso, e speriamo in maniera definitiva, della storiografia risorgimentale» (in A. Saitta, Momenti e figure della società europea, 3° vol., 1994), con il volume che cadeva quindi «in un tempo in cui vivissima è l’esigenza di una revisione profonda della storiografia sull’unità italiana» (p. 253). L’accusa di marxismo, avanzata sul «Mondo» a Romeo per la sua analisi di strutture economiche, spostamenti di proprietà, dinamiche di classi sociali, rivelava piuttosto, per Saitta, come la concezione marxista fosse ormai diventata in Italia «un’atmosfera culturale dalla quale non si sfugge» (p. 254), per cui imputava a Romeo di aver trascurato l’apporto delle forze popolari e rurali e di aver limitato il contrasto dialettico all’interno della classe egemonica anziché allargarlo a quello tra classi egemoniche e subalterne. Rilievi che non inficiavano comunque il giudizio di fondo altamente positivo espresso da Saitta sul volume di Romeo. I due giovani storici siciliani, che assieme collaboravano all’Istituto della Enciclopedia Italiana, vennero da allora intrecciando i loro destini.
Perso il concorso del 1951 alla cattedra universitaria bandita da Cagliari, Saitta, in attesa di partire per Granada, proseguiva le ricerche su Buonarroti (il secondo volume sarebbe stato un volume di documenti) e, parallelamente, la redazione del manuale scolastico, Il cammino umano, che proprio da quell’anno avrebbe cominciato a esser edito dalla Nuova Italia di Ernesto Codignola; un manuale innovatore accusato dalla «Civiltà cattolica» di avere introdotto il marxismo nelle scuole italiane.
Dal 1953 si trasferì dunque in Andalusia, il che spiega l’apparire di qualche titolo ‘ispanista’ nella sua bibliografia e la spinta allo studio sull’origine della presenza islamica nell’Europa occidentale e sulla compenetrazione delle due civiltà, cristiana e mussulmana (da quegli «incroci e scontri di civiltà» sarebbe nato, più tardi, un corso universitario e un volume). Mentre era ancora a Granada, gli giunse la proposta di dirigere la rivista «Movimento operaio», rivista nata nel 1949 da un’iniziativa del socialista Gianni Bosio che ne fu il primo direttore, ma che da quando, nel 1952, venne edita da Feltrinelli, fu di fatto commissariata. Dal luglio 1953 la rivista uscì sotto la direzione di Saitta (circostanza che confortò i sospetti di colpo di mano comunista).
Rientrato in Italia nell’autunno del 1954, la commissione di un nuovo concorso alla cattedra di storia bandito dall’Università di Cagliari ‘riparava’, nell’ottobre, l’esito di quello del 1951: Saitta conseguiva il primo posto nella ‘terna’; chiamato dalla facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, il 16 febbraio 1955 vi teneva la Prolusione sul Robespierrismo di Filippo Buonarroti e le premesse dell’unità italiana. Una prolusione dal tono molto risoluto che andava a legittimare accademicamente l’impulso rinnovatore della giovane storiografia marxista italiana, il cui ripensamento storiografico sulle origini del Risorgimento si avvaleva ora dell’«influenza determinante di Gramsci», la pubblicazione dei cui scritti era stata fondamentale per la «comprensione del giacobinismo italiano». Un tema dunque da «riaffrontare»; riaffrontare perché appena un anno e mezzo prima, nel settembre 1953, nel corso del XXXII Congresso di storia del Risorgimento tenutosi a Firenze, Franco Venturi aveva tenuto un’ampia relazione su La circolazione delle idee, che riduceva la portata storica del giacobinismo italiano, facendone piuttosto un paradigma ideologico e radicandolo nell’esperienza del riformismo settecentesco. Radici che Saitta considerava analoghe a quelle dell’improponibile «autoctonismo» risorgimentale e che contestava in blocco:
L’errore di quanti hanno voluto riportare le origini del Risorgimento italiano alle riforme settecentesche consiste proprio in questo, nell’aver voluto accoppiare e valutare alla stessa stregua coloro che spezzano lo schema preesistente e coloro che invece pensano di poterlo utilizzare. Il Risorgimento fu un fatto rivoluzionario, in quanto tale non è possibile staccarlo dalla Rivoluzione francese, attribuirgli altra origine (Momenti e figure della società europea, 2° vol., 1991, p. 835).
Un’interpretazione che avrebbe riproposto nel 1956, in occasione della presentazione del primo volume dell’antologia dei Giacobini italiani, curata da Cantimori che, schierato con Saitta nel merito della critica all’interpretazione venturiana, però aveva dato dei giacobini italiani una definizione che costituiva un primo, piccolo passo in direzione opposta rispetto a quella antiteorica formulata da Saitta e che questi aveva già trasferito nel programma editoriale della Collezione storica della Laterza: necessità di un superamento della «‘crisi’ della storiografia italiana attuale», con aria nuova, con il marxismo che succede allo storicismo, con Gramsci e la storiografia «integrale» e così via. Conclusione e suggerimenti: il recupero della tradizione lefebvriana degli studi sulla Rivoluzione francese, Bloch, origini del Risorgimento…; ne sarebbero seguite traduzioni italiane e quindi la diffusione della più recente storiografia sulla Rivoluzione francese, spesso in collaborazione con lo storico marxista Albert Soboul.
Nel fondamentale snodo politico-culturale del 1955-56 (tra il X Congresso internazionale di scienze storiche di Roma e l’aggressione sovietica dell’Ungheria), Saitta dette vita, al fianco di Cantimori, a vivaci discussioni e polemiche che, nate a latere dell’ampliamento di «Movimento operaio» a temi di storia del Risorgimento, di storia economica ecc., dovettero ripiegare d’urgenza in difesa del rigore scientifico del ‘fare storia’, di contro a una giovane storiografia marxista, arrembante e faziosa, acriticamente iconoclasta nei confronti di una non meglio identificata ‘storiografia ufficiale’, cui opponeva studi paludati solo dal nominale riferimento a Gramsci, senza risultati scientifici concreti. Discussioni che videro anche Romeo, con i magistrali interventi sulla Storiografia politica marxista (editi in «Nord e Sud» dell’agosto-settembre 1956), affiancarsi a Cantimori e Saitta in difesa della rigorosità del ‘fare storia’. Con cui si veniva delineando non più un fronte politicamente omogeneo, ma uno schieramento di ortodossia metodologica, contrario alla commistione nella ricerca storica della più grossolana e banale propaganda di partito che veniva facendo del giacobinismo italiano, e del Risorgimento tradito dalle sue classi dirigenti avverse alla riforma agraria, una bandiera ideologica anziché una questione storica.
E certo emblematica è l’edizione su «Movimento operaio», in contemporanea all’edizione dei saggi di Romeo, di un importante contributo di Saitta che fin dal titolo richiamava una tradizione di studi d’alta accademica: L’idea d’Europa dal 1815 al 1870, dove affrontava il nesso dialettico fra Europa e nazione, leggeva e codificava diverse concezioni dell’«europeismo», additando nel 1870 il tornante della crisi, la fine di quella comune coscienza europea che chiudeva l’epoca del sogno di un moto europeo nuovo, fondato su un processo rivoluzionario (un tema che nel 1961 lo portò a curare, con Ernesto Sestan, il mitico corso di Federico Chabod nella Milano del 1943-44 sull’idea di nazione e l’idea d’Europa, che ne proponeva la complementarietà «romantica»).
In questo contesto di discussioni e polemiche, l’invasione sovietica dell’Ungheria nell’ottobre 1956 determinava l’«innesco» di un traumatico radicalismo: la frattura con l’ideologizzazione e la faziosità politica della ricerca storica s’era compiuta all’insegna delle accuse, da parte di Cantimori e Saitta, condivise da importanti esponenti della storiografia italiana, di settarismo, tradimento del metodo, presunzione, ‘zdanovismo’. Sarebbe stata una frattura incomponibile e avrebbe lasciato un lungo strascico di rancori anche personali.
Negli anni successivi, l’attenzione prevalente riservata da Saitta a edizioni di fonti ed editoria scolastica potrebbe sembrare un arretramento rispetto all’energica azione culturale svolta in quella prima metà degli anni Cinquanta; ma c’è da chiedersi quanto non sia stata piuttosto una scelta consapevole diretta a offrire, quasi in alternativa alle forzature ideologiche della ricerca, le fonti stesse della ricerca.
Fanno eccezione due sintomatici interventi del 1959: la recensione pubblicata su «Belfagor» agli Studi storici in onore di Gioacchino Volpe come testimonianza esplicita del proprio anticonformismo di fronte alle aggressive contestazioni dell’iniziativa onorifica da parte di alcuni ruvidi esponenti della cultura azionista e comunista; e un saggio su L’ideologia e la politica in Salvemini che consentiva a Saitta di tornare all’ermeneutica e alla filologia ricostruttiva di pensiero politico, nella fattispecie, del complesso percorso salveminiano, di cui ricostruiva un’adesione «al più autentico metodo marxista», di contro alle sottovalutazioni espresse da Ragionieri.
Questo intervento avrebbe fatto il paio con quello su Russo all’indomani della sua morte (agosto 1961; Luigi Russo, in Momenti e figure della società europea, 5° vol., 1997, pp. 138-39), in cui Russo divenne il reagente per un’autobiografia generazionale: attraverso di lui era stato conosciuto Piero Gobetti ed era stato letto quel Croce che aveva consentito nella «nostra Pisa», la resistenza negli anni del consenso al fascismo; e se a Omodeo e De Ruggiero non era stato concesso dal fato di andare oltre il tempo del Partito d’azione, Russo aveva navigato «a bracciate vigorose quanto improvvise verso Antonio Gramsci e le forze di estrema sinistra, ridando a se stesso e alla propria generazione un significato nuovo», senza per questo diventare marxista. Un’attenzione dunque filologica a contestualizzare e definire ideologicamente senza cedere all’approssimazione pratico-politica. Questo ricordo, s’è detto, veniva pubblicato sul primo fascicolo di una nuova rivista, «Critica storica», fondata e diretta da Saitta subito dopo la morte di Russo con l’intento di riprendere le discussioni interrotte nel 1956, far confluire «storie particolari» e storiografia generale, non chiudersi alla storia contemporanea, parlare a tutti e così via. Era dunque un ritorno in campo, a tutto campo, di Saitta nell’attività di ricerca, informazione, polemiche a 360 gradi, senza limiti geografici né cronologici del fare storia.
Frattanto la questione del giacobinismo tornava a coinvolgerlo, non solo come protagonista attivo (che continuava a dare fondamentali edizioni di testi). Nel 1964 usciva il secondo volume dei Giacobini italiani a cura di Cantimori e Renzo De Felice. Attorno a questa edizione si venne accendendo una discussione che di nuovo vide circostanze extrascientifiche convergere e provocare la detonazione (la libera docenza negata a De Felice, nei primi mesi del 1962, da una commissione di concorso di cui faceva parte Saitta; e l’esito, nel 1964, del concorso per il trasferimento alla cattedra di storia del Risorgimento dell’Università di Roma, perso da Saitta e vinto da Emilia Morelli con il determinante appoggio di Romeo; circostanza che interruppe il rapporto d’amicizia e collaborazione scientifica tra Romeo e Saitta con negative ripercussioni sulle sorti complessive della storiografia italiana).
La questione del giacobinismo affrontata dunque in quel clima, malgrado un contesto ormai politicamente depotenziato rispetto a quello del 1956, non poteva nascondere eccessi polemici. L’intervento La questione del ‘giacobinismo’ italiano di Furio Diaz («Critica storica», 1964, 2, pp. 577-602) aderiva alla tesi interpretativa di Venturi, fatta propria ormai da Cantimori e De Felice, sul nesso Illuminismo-giacobinismo italiano, progredendo fino a negare qualsiasi possibilità di confronto tra il giacobinismo francese e l’inconsistente giacobinismo italiano, e dubitando persino di poter parlare di giacobinismo italiano. La replica di Saitta ricordava sarcasticamente i timori politici che aveva provocato (anche a Romeo) lo studio del giacobinismo italiano; quindi, dopo aver messo in conto a De Felice ogni genere di errori e omissioni contenute nell’antologia dei Giornali giacobini italiani (da questi edita nel 1962), ribadiva la consapevolezza nei giacobini italiani del «sentimento di frattura» rispetto al passato illuminista-riformista, e l’emergere di un programma politico-sociale «entro una cornice nazionale», cioè la primogenitura progettuale di un Risorgimento italiano, giacobino e repubblicano.
Dall’anno accademico 1967-68 lasciava l’Università di Pisa, chiamato presso la facoltà di Magistero di Roma. Saitta, che sentiva l’insegnamento non come un qualsiasi mestiere toccato in sorte dalla casualità dell’esistenza, ma come antica, nobile e non tradita vocazione, si trovò allora di fronte a una contestazione dura e ottusa. Vide la disarticolazione dell’intero sistema scolastico, come progetto scientificamente perseguito dal corrotto sistema partitocratico della prima Repubblica per spostare dalle aule scolastiche alle segreterie di partiti e sindacati la formazione non più di funzionari e intellettuali, ma di yes men. Emblematicamente venne attaccato sia da destra, per un volume scolastico di educazione civica di impianto marxista, sia all’estrema sinistra dal Movimento studentesco: non aveva dunque abdicato al ragionamento. Combatté allora strenuamente per riformare e salvare il sistema universitario. Invano. Anzi, il suo spirito indipendente e critico, il suo coraggio non solo intellettuale (e ce ne voleva in quegli anni di piombo) lo portarono a subire nel 1975 un intervento censorio da parte della casa editrice La Nuova Italia che stravolse dei passi del suo manuale scolastico, Il cammino umano, tra cui uno sul terrorismo italiano, le cui responsabilità Saitta attribuiva a entrambi i fronti, neofascista e comunista, ma che l’editore, mutando il testo, faceva pesare solo su quello neofascista. Il ricorso alla magistratura (vinto), assunse, al di là del merito, le dimensioni di una battaglia per la difesa della libertà di pensiero.
Giovò a Saitta la chiamata, dall’anno accademico 1971-72, presso la facoltà di Scienze politiche. Vi tenne corsi sulla Rivoluzione francese e sul giacobinismo, riavvicinandosi a quella storia delle dottrine e delle istituzioni politiche che aveva sperimentato nei primi anni della sua formazione e delle sue ricerche.
La nomina alla presidenza dell’Istituto storico italiano, nel 1973, gli offrì la possibilità di farne un rifugio di serietà di studi nel mezzo della dilagante corruzione intellettuale e morale di regime. L’Istituto, rilanciato nelle sue varie attività istituzionali, divenne uno dei maggiori centri nazionali di ricerca storica e di riflessione storiografica: ebbero nuova linfa le tradizionali collane di edizioni di fonti per la storia d’Italia e di testi diplomatici (cui Saitta continuò ad aggiungere proprie edizioni sia dei rapporti tra Francia e Regno di Sardegna, sia dei Discorsi parlamentari di Cavour); se ne aggiunsero di nuove, aperte alla collaborazione di giovani studiosi. Da allora vennero organizzati Convegni internazionali su temi di particolare sensibilità politico-culturale: la Storia dell’Italia giacobina e napoleonica (1974), Potere ed élites nella Spagna e nell’Italia spagnola nei secoli XV-XVII (1977), L’Inquisizione nel XVI e XVII secolo (1981), L’Europa: fondamenti, formazione e realtà (1984). Ma l’organizzazione culturale, che pure ne assorbiva tempo ed energie, non gli impediva di continuare le antiche ricerche. A nuove edizioni aggiornate di studi precedenti, ai continui interventi e documenti che pubblicava regolarmente su «Critica storica», aggiunse l’importante lavoro come membro della Commissione, con Soboul e Victor Daline, per la pubblicazione, dal 1977, delle Œuvres de Babeuf. Contemporaneamente avviò un progetto straordinario di comprensione unitaria della storia, previsto in 18 volumi: 2000 anni di storia, iniziato nel 1978 con il volume Cristiani e barbari e giunto nel 1983 al quarto, sull’Impero carolingio (cui non ne sarebbero seguiti altri).
Negli ultimi anni di attività, Saitta stava pensando a una ‘microstoria’ del proprio paese di origine; del resto alla storia siciliana aveva dedicato studi e ricerche da Scipione di Castro a Rosario Gregorio; un richiamo emotivo a quel «villaggio di una Sicilia preistorica privo di biblioteche e librerie» (Rio Darro, Hubert Jedin funambolo, «Critica storica», 1984, 21, p. 489) da cui era partito per la grande avventura intellettuale apertagli a Pisa dalla Normale gentiliana. Non fece in tempo a riallacciarvisi scientificamente. L’ultimo suo lavoro di grande respiro, poco prima della morte, fu dedicato ancora alla Rivoluzione francese: l’affresco della Storiografia italiana sulla Rivoluzione francese, e un commento postfatorio all’edizione dei volumi degli atti del grande Convegno del 1989: una riflessione conclusiva dei suoi studi, basata sull’insistita necessità di indagare fra movimenti altrimenti nascosti allo storico da sbrigative etichettature politiche, ma soprattutto una presa di distanze dal «capofila del revisionismo», François Furet (1927-1997) e dalla sua immagine di una Rivoluzione scomposta, deragliata, e relativa «svalutazione del ‘politico’».
La bibliografia delle opere di Armando Saitta è pubblicata a cura di M. Leonardi nel IV fascicolo di «Critica storica» del 1991, con ricordi e saggi di diversi autori dedicati a Saitta. La maggior parte dei suoi scritti, oltre quelli citati nel testo, sono raccolti in A. Saitta, Momenti e figure della società europea, 5 voll., Roma 1991-1997.
Si vedano inoltre:
P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze 2001.
E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004.
G. Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Roma-Bari 2011.