ARITMETICA (dal gr. ἀτιμητική, da ἀριϑμός "numero" fr. arithmetique; sp. aritmética; ted. Arithmetik; ingl. arithmetic)
Il termine aritmetica fu usato per la prima volta dai pitagorici per distinguere la scienza dei numeri dalla mera pratica del calcolo per mezzo di operazioni elementari, o logistica (λογιστική). Secondo l'uso moderno però tale parola comprende tanto la logistica quanto la vera e propria aritmetica nel senso attribuito a questa parola dagli antichi Greci. Noi qui tratteremo separatamente: 1. del contenuto dell'aritmetica in genere nel suo sviluppo storico; 2. delle principali regole dell'aritmetica nel loro stato presente e delle loro applicazioni specialmente all'aritmetica commerciale.
La formazione storica dell'aritmetica.
a) Dai calcoli primitivi all'aritmetica in senso pitagorico. - Le analisi etnologiche più recenti portano a stabilire che - allo stato selvaggio - l'uomo ha per secoli giudicato della quantità senza compiere quella decomposizione e ricomposizione di un insieme che porta al concetto di numero. I rozzi scambî diretti, i giudizi circa l'invariabilità di un dato numero di oggetti (quali una muta di cani, un gregge ecc.) erano compiuti spesso con eccezionale precisione ad occhio, in presenza dei gruppi da giudicare. Ma lo sviluppo degli scambî, pattuiti senza la presenza degli oggetti, il bisogno di calcolare il tempo passato da un certo avvenimento (bisogno che si connette allo sviluppo dell'astronomia) e magari la stessa necessità di una sia pure rozza agrimensura, portavano verso la formazione e l'elaborazione del concetto di numero: verso, cioè, una designazione capace di rendere evidenti i rapporti quantitativi fra determinati gruppi di oggetti, indipendentemente dalla osservazione diretta e contemporanea di tali gruppi.
Gli studî etnografici, particolarmente di E. B. Taylor (Primitive culture, 4ª ed., Londra 1903) e di L. Lévy-Brühl (Les fonctions mentales dans les société inférieures, Parigi 1910) permettono di stabilire in modo relativamente sicuro gli stadî del successivo sviluppo della scienza calcolatoria.
Primo abaco usato per il calcolo dovette essere lo stesso corpo dell'uomo, e particolarmente le dieci dita delle mani: donde l'origine della numerazione decimale. Così il Proteo in Omero:
Prima conterà le foche.....
Poi quando le avrà quinquenumerate tutte e passate in rivista
Si addormenterà fra di esse come un pastore in mezzo al gregge.
(Odissea, IV, 412).
L'espressione quinquenumerare o contare per cinque (πεμπάξω) indica appunto un primitivo e popolare sistema di calcolo fondato sulle cinque dita di una mano; mentre un antico sistema danese di numerazione ventesimale si riferiva probabilmente alle venti dita dell'uomo (mani e piedi). Quali fossero di preciso le convenzioni usate dagli antichi Greci per elevarsi con metodi così primitivi al calcolo di grossi numeri, non ci è dato conoscere con sicurezza. Tuttavia tali convenzioni non dovevano differire moltissimo da quelle esposte nelle due lettere di Nicolò Artavasde soprannominato Rabda (Smirne, sec. XIII-XIV), edite da P. Tannery (Notices sur les deux lettres arithmétiques de N. R., in Notices et Extraits des Manuscrits de la Biblioth. Nat., XXXII, 1886,1, pp. 121-252).
Quando già il concetto di numero si era in tal modo sviluppato, dovette nascere il desiderio di una sua rappresentazione grafica e simbolica, rappresentazione che dapprima apparve semplicemente connessa alla rappresentazione che del numero si dava già per mezzo delle dita e delle mani: senza alcuna pretesa, com'è naturale, di presentarsi atta a facilitare il calcolo, e particolarmente comoda. Di questo sviluppo fanno fede i cosiddetti numeri romani, tramandati fino a noi da tempi molto anteriori a quelli della fondazione di Roma: forse dai primordî della civiltà etrusca. I segni I, II, III, sono rappresentazioni grafiche evidenti di una, due, tre dita distese. Il V (cinque) è un evidente completamento in triangolo della figura quasi trapezoidale offerta dalla mano distesa. Il X (dieci) non è che l'unione di due V, ecc. Per i numeri maggiori - non essendo possibile l'aiuto dell'intuizione - si adottavano segni convenzionali come L, C, D, M (cinquanta, cento, cinquecento, mille....). Nella numerazione romana le varie cifre non avevano certo quello che oggi si chiama valore di posizione. Tuttavia un certo valore di posizione sui generis era posseduto dalle cifre stesse, in quanto esse dovevano aggiungersi o togliersi ad altre cifre secondoché si trovavano alla destra o alla sinistra di esse. Questo particolare rendeva la numerazione romana superiore alla greca, poiché il fatto che ogni numero appariva in un certo modo decomposto (per addizione o per sottrazione) facilitava notevolmente il calcolo intuitivo. Per addurre l'esempio più banale basterà osservare che è facilissimo nel sistema romano comprendere che 5+ 2 = 7; mentre allorché gli addendi vengano espressi con i simboli greci - di cui tosto parleremo - la cosa presenta una maggiore difficoltà.
Ad ogni modo l'espressione di numeri per mezzo di tratti orizzontali o verticali è comunissima come numerazione scritta primitiva, e antichi monumenti e testimonianze di viaggiatori ci assicurano che tali numerazioni dovevano essere sul genere di quelle esemplificate qui appresso:
Il sistema romano, rappresenta perciò un sistema già notevolmente evoluto e sintetico. Più rozzo appare, per esempio, il sistema egiziano. In esso i numeri1,10,100,1000,10.000, 100.000, venivano distinti con i simboli
e la semplice addizione di varî simboli valeva a significare i diversi numeri, come negli esempî seguenti: ⋂ ⋂ ⋂ ∣∣ = 32, &mis3;b &mis3;b ⋂ ∣∣ = 212. Nel caso di grossi numeri la scrittura veniva eseguita anche su più linee orizzontali: così 2190 si scriveva:
Le frazioni (all'infuori di 2/3= &mis3;i) venivano concepite solo come una singola parte aliquota di una certa grandezza, avevano cioè tutte 1 per numeratore, se vogliamo servirci del nostro linguaggio. Esse venivano espresse dal denominatore a cui sovrastava il segno &mis3;m che doveva probabilmente simboleggiare una specie di oggetto tagliente, di coltello. Così p. es.1/32 si scriveva &mis3;f.
I Babilonesi avevano invece due sistemi, uno decimale e l'altro sessagesimale. Il primo era molto simile dell'egiziano, ma caratterizzato dalla presenza di una funzione moltiplicatrice di certi prefissi, così p. es. essendo &mis3;d = 10, &mis3;j&mis3;g = 1000, il numero 10.000 era espresso dal segno &mis3;c&mis3;j&mis3;g. Ciò spiega perché tale sistema potesse fare a meno di simboleggiare con segni speciali numeri superiori al mille.
Nel sistema sessagesimale invece i numeri avevano un vero e proprio valore di posizione risultando posti in colonne rappresentanti le successive potenze di 60, o le frazioni aventi per denominatore tali potenze. Si aveva così: &mis3;e&mis3;h &mis3;d&mis3;d&mis3;e&mis3;e&mis3;e &mis3;e&mis3;e = 44 • 602 + 26 • 60 + 40 = 160.000, ecc. Mentre &mis3;c&mis3;c&mis3;c &mis3;c&mis3;c&mis3;c poteva rappresentare
ecc. In tale sistema, molto simile al sistema di nume merazione attualmente in uso, doveva esistere uno zero, e sembra che effettivamente esistesse e fosse espresso dal segno &mis3;a. È difficile comprendere come mai i Babilonesi usassero un sistema sessagesimale, ma se si pensa che l'uso del decimale deriva sostanzialmente dal fatto che le dita sono dieci, la scelta dei Babilonesi non può apparire molto arbitraria. Era però più incomoda in quanto mentre noi ci possiamo arrestare, nella nostra tavola di moltiplicazione, al prodotto 9 × 9, essi dovevano arrivare fino a 59 × 59. Imparare a memoria la tavola babilonese doveva essere impresa assai faticosa. D'altra parte il fatto che la base stessa (60) avesse tanti divisori costituiva un compenso non indifferente. In complesso questo sistema risale a più di venti secoli a. C.
Non si può certo ripetere dunque che i Fenici abbiano inventato l'aritmetica. Può dirsi soltanto che da essi e dagli Ebrei i Greci appresero molte nozioni di aritmetica. Due furono i sistemi di numerazione scritta in uso presso gli antichi Elleni. Un primo, detto erodiano o più precisamente attico, era usato esclusivamente per i numeri cardinali, e prendeva a simbolo dei varî numeri fondamentali la prima lettera con cui si scrivevano in parole tali numeri. In esso ogni numero figurava come una somma di altri al modo del sistema egizio.
Noi ci tratterremo più particolarmente sul secondo sistema (alfabetico) che era più popolare, e che doveva essere in uso non si sa bene se dal V o dall'VIII secolo a. C. I numeri più semplici venivano rappresentati come nella tabella seguente, avvertendo però che le unità erano distinte da un apice in alto a destra o da un trattino orizzontale, che nei numeri di più cifre si estendeva anche sulle altre.
Si comprende subito come si effettuassero le addizioni o le sottrazioni. Eccone un esempio:
ovvero:
Si può dire in complesso che tale modo di calcolare sia come quello che noi attualmente usiamo, e - a parte la minore intuitività di certe somme o di certe differenze - esso non differiva essenzialmente da quello egiziano. Richiedeva soltanto una capacità di calcolo un po' maggiore. Ma ciò che segna un progresso rimarchevole dell'aritmetica greca rispetto a quella egizia è senza dubbio la moltiplicazione.
Gli Egiziani non possedevano una tavola di moltiplicazione: essi calcolavano i prodotti usando semplicemente il metodo di raddoppiamento. Così, p. es., dovendo moltiplicare un numero per 19 essi non usavano moltiplicarlo prima per 9, poi per 10 e quindi sommare i numeri così ottenuti. Solevano invece raddoppiare il numero, poi il numero così ottenuto e così di seguito, fino ad ottenere un numero sedici volte maggiore di quello dato. A questo aggiungevano il numero stesso e il suo valore doppio, pervenendo così al risultato finale. Più rozzo ancora era il sistema con cui essi eseguivano la divisione: per mezzo del citato metodo di raddoppiamento essi cercavano un numero che moltiplicato per il dividendo riproducesse il divisore.
I Greci ebbero invece una tavola di moltiplicazione fin da tempo remotissimo, e certamente anteriore all'epoca in cui visse Pitagora. Il loro modo di eseguire la moltiplicazione, per quanto non così abbreviato, somigliava in sostanza a quello ancora in uso. La differenza forse più rimarchevole era data dal fatto che i prodotti parziali venivano eseguiti a partire da destra. Così, p. es., volendo moltiplicare 1351 per 1351 (Eutocio) essi non moltiplicavano prima 1, poi 50, poi 300, ecc. successivamente per 1,50,300..., ma procedevano invece nel modo seguente, moltiplicando ordinatamente per 1000, 300, 50, 1 i numeri successivi 1000, 300, 50, 1.
Per semplicità abbiamo sostituito le cifre greche con le arabe, conservando solo i due termini caratteristici ἐπί (per) ὁμοῦ (insieme).
Nel caso di numeri misti il procedimento era essenzialmente uguale, p. es. (Eutocio):
Al pari degli Egiziani, i Greci non consideravano in genere altro che frazioni aventi come numeratore l'unità, frazioni il cui calcolo è particolarmente facile. Nel caso delle frazioni più comuni essi usavano procedimenti di carattere intuitivo, ma poco sintetico. Valga il seguente esempio di moltiplicazione di
tolto da Erone:
Il risultato del prodotto è dunque
La divisione di due numeri, p. es. 1.825.201 :1351, procedeva nel modo illustrato dall'esempio seguente:
Prescindendo cioè dalle cifre significative di destra, si osservava che il 1000 stava 1000 volte in un milione; si moltiplicava il quoziente così ottenuto per il divisore e si toglieva dal dividendo. Sul resto ottenuto (474.201) si operava come sul dividendo, si constatava cioè che il 1000 vi stava 400 volte. Ma poiché 400 × 1351 dava un numero maggiore di 474.201, si scendeva a 300, ecc.
La regola di estrazione di radice quadrata era fondata essenzialmente sulla nota formula euclidea relativa al quadrato del binomio: (a + b)2 = a2 + b2 + 2 ab.
Tale formula, mentre da un lato permette immediatamente di trovare la seconda potenza di un numero di due cifre (p. es. 27 = 20 + 7), dall'altro suggerisce subito un metodo utile per compiere l'operazione inversa. Infatti il quadrato di un numero di due sole cifre (per esempio 1369 = 372) è un numero avente al massimo quattro cifre, e le sue ultime due cifre a destra dipendono unicamente dalla seconda cifra della radice; sicché per trovare la prima cifra di tale radice verrà spontaneo il separare con un punto le prime due cifre a destra, e considerare solo il rimanente. Nel caso citato il numero di cui si cerca la radice verrà scomposto così: 1369 = 1300 + 69. La radice quadrata per difetto di 1300 è eguale alla radice quadrata per difetto di 13, moltiplicata per 10, è cioè data dal numero 30. Quindi la prima cifra della radice cercata sarà 3. È evidente che se noi chiamiamo in genere la cifra in questione, la seconda cifra x ci verrà data dalla formula a + x)2 = a2 +ax + x2, da cui:
Cioè nel nostro caso:
cioè:
Il quoziente per difetto di 469 per 60 potrà quindi dare il valore della seconda cifra cercata.
D'altra parte, la 469 = (60+ x) x, che si deduce dalla (1), permette di verificare se il quoziente trovato supera il valore reale della cifra cercata. Nel nostro caso si ha: 469 : 60 = x = 7. E d'altro canto (60 + 7) • 7 = 67 • 7 = 469. La radice quadrata risulta quindi eguale ad a + x, cioè a 30 + 7 = 37.
Un procedimento di questo genere è chiaramente esposto da Teone di Alessandria per il numero 144. Ma si comprende subito come la regola potesse essere estesa per analogia a numeri formati da più di quattro cifre, e come si potesse pervenire alla regola attualmente in uso, che noi ci contentiamo qui di enunciare nella sua generalità e di chiarire con un esempio. Per trovare la radice quadrata di un dato numero N, si procede al modo seguente: 1. si scompone il numero dato in gruppi di due cifre a partire da destra (la radice che si cerca avrà tante cifre quanti sono i gruppi: se il numero delle cifre di N è dispari rimane a sinistra una cifra sola che si considera come un gruppo); 2. si cerca il più grande numero il cui quadrato sia contenuto nel primo gruppo a sinistra e si ha così la prima cifra della radice cercata; si sottrae poi tale quadrato dal gruppo medesimo e a destra della differenza si scrive il secondo gruppo ottenendo così un certo numero h; 3. si separa l'ultima cifra a destra di h, e si trova il quoziente del numero formato dalle rimanenti cifre diviso per il doppio della radice trovata; 4. si scrive tale quoziente n a destra del doppio stesso e il numero così formato si moltiplica per n; se il prodotto ottenuto è minore di h, allora n è la seconda cifra della radice cercata, se invece il prodotto è maggiore di h si provano in luogo di n i numeri n − 1, n − 2,.. m finché non si ottenga appunto un numero minore di h: se ciò si è ottenuto p. es. per n − 1, sarà appunto n − 1 la seconda cifra della radice; 5. si sottrae il prodotto ottenuto da h e alla destra del resto si cala il terzo gruppo, in modo da ottenere un nuovo numero k. Si separa l'ultima cifra di k, e si trova il quoziente fra le rimanenti cifre e il doppio della radice trovata. Tale quoziente m si scrive alla destra del doppio stesso e il numero così ottenuto si moltiplica per m. Se il prodotto è minore di k allora m è la terza cifra della radice, altrimenti si provano successivamente i numeri m − 1, m − 2, ecc...., finché non si sia ottenuta un valore minore di k. Seguitando in tal modo, con processo ricorrente, si determinano tutte le successive cifre della radice, comprese eventualmente le decimali, come è chiarito dall'esempio seguente in cui si tratta di trovare la radice quadrata di 7589,2 approssimata a meno di un centesimo:
Un passo di Erone (Metrica, III, 20) in cui si conclude che
mostra che i matematici greci conoscevano anche un metodo per estrarre le radici cubiche, ed è naturale pensare che tale metodo dipendesse essenzialmente dalla formula (a + x)3 = a3 + 3a2x + 3ax3. Quanto alle frazioni può osservarsi che dapprima i Greci - a somiglianza degli Egiziani - concepirono soltanto quelle aventi per numeratore l'unità: ed era perfettamente naturale che la concezione primitiva di frazione si presentasse in guisa tale da rendere intuitive le grandezze rappresentate, e intuitive altresì le regole di calcolo da applicarsi ad esse. Queste frazioni (1/2, 1/3, 1/4, 1/5 ....) venivano dette μόρια ed erano rappresentate dal loro denominatore sormontato da un accento semplice o doppio. Come in Egitto, anche in Grecia si faceva eccezione per il numero 2/3.
L'uso esclusivo di tali frazioni si protrae per lunghi secoli ed è usato ancora nella Geometria di Pediasimo (XIV sec.); mentre, d'altro canto, già in Erone e poi in Eutocio e in Diofanto appariva l'uso metodico di frazioni qualsiansi: concepite però più come quozienti di due interi che non come numeri speciali. Per i dati e per i risultati delle singole questioni si preferivano sempre del resto le frazioni aventi numeratore unitario.
Varie erano le notazioni usate in luogo del segno orizzontale con cui noi separiamo numeratore e denominatore: poche volte questo segno si riscontra negli scrittori greci. Ma noi non approfondiremo tale soggetto. Accenneremo solo, per concludere su questo punto, che gli astronomi greci usarono molto il sistema di frazioni sessagesimali già in uso presso i Babilonesi.
Lo sviluppo dell'aritmetica nel pensiero greco da Pitagora a Diofanto. - Spetta, come si è detto, a Pitagora (sec. VI a. C.) la distinzione fra logistica ed aritmetica; fra arte di calcolare e scienza dei numeri. Con frase incisiva Aristosseno dice che Pitagora "elevò l'aritmetica al disopra dei bisogni dei mercanti".
Così sono dovute a pitagorici alcune interessanti definizioni dell'unità, concepita come quantità limitante, come confine fra il numero e le parti, e ciò in base alla posizione del numero 1 nella successione:
D'altra parte i pitagorici conobbero la divisione dei numeri in pari e dispari, in primi e composti, in amici, in perfetti ecc.
Ma fra le creazioni di questa scuola presenta interesse particolarissimo l'aritmetica geometrica, in cui appaiono i celebri numeri figurati. Ecco un esempio di numeri triangolari:
Osservandoli si vede subito che il totale dei punti contenuti in ciascun triangolo non è altro che la somma dei numeri naturali, da 1 fino al numero dei punti della base. D'altra parte si osserva che questa quantità totale è eguale al numero dei punti della base più uno, moltiplicato per il numero dei punti della base diviso per due. Donde la formula (nota ai pitagorici):
Importanza non minore avevano i numeri quadrati che rappresentiamo qui appresso:
La parte posta fra due spezzate HK successive veniva detta gnomone.
La semplice osservazione di un numero quadrato, a partire, poniamo, dal primo puntino in alto a sinistra, mostra che il totale dei puntini è eguale alla somma dei numeri dispari 1 + 3 + 5 + ... fino a quello rappresentato dall'ultimo gnomone. Se indichiamo con 2 n - 1 quest'ultimo numero, qualunque esso sia, il fatto che i numeri sono quadrati ci avverte che il totale dei puntini in essi contenuti dovrà essere n2. Da ciò si ricava immediatamente la formula che dà la somma di un numero qualsiasi di numeri dispari successivi:
Cioè la somma di n numeri dispari successivi è sempre un quadrato perfetto. Questa osservazione portava facilmente a risolvere un primo problema di analisi indeterminata: la ricerca cioè di due numeri la cui somma dei quadrati sia eguale ad un quadrato perfetto, o, in altri termini, la ricerca di tre interi che costituiscano i lati di un triangolo rettangolo, quali i numeri 3, 4, 5 per cui si ha 32 + 42 = 52. La considerazione dei numeri quadrati permette di risolvere questo quesito nella sua generalità: basterà isolare gli gnomoni che sono quadrati perfetti; la somma di uno di essi e del quadrato che giace alla sua sinistra darà sempre un quadrato perfetto eguale alla somma di due quadrati come nel caso seguente:
in cui si ha 16 + 9 = 25, cioè 42 + 32 = 52. Se supponiamo che lo gnomone eguale ad un quadrato perfetto contenga 2 n + 1 - m2 puntini, si avrà:
da cui
cioè
e, per riassumere,
Il triangolo rettangolo classico a lati razionali (3, 4, 5) noto agli Egiziani, non è che un caso particolare degl'infiniti triangoli costruibili per mezzo di questa formula pitagorica tramandataci da Proclo. Valgano ad esempio i triangoli (5, 12, 13), (7, 24, 25), (9, 40, 41), ecc.
A quest'ordine di considerazioni si riattaccavano: 1. lo sviluppo della geometria come sistema di deduzioni concatenate che appare dominato dallo scopo di fornire una dimostrazione del teorema di Pitagora; 2. le osservazioni che dovevano condurre alla scoperta degl'irrazionali, nel caso, p. es., di un triangolo rettangolo isoscele, in cui il rapporto fra l'ipotenusa e un cateto risulta sempre un numero irrazionale (ἄλογον); di quest'ultime osservazioni parleremo qui appresso.
I numeri figurati, o poligonali, furono oggetto di geniali osservazioni, ma troppo in lungo ci condurrebbe il parlare esaurientemente di questo soggetto. Concluderemo qui mostrando, con una rappresentazione grafica, come dalla considerazione dei numeri oblunghi i pitagorici traessero l'importante formula:
La seguente rappresentazione dei numeri oblunghi mostra come tale formula possa essere ricavata:
Abbiamo detto che a Pitagora, o alla sua scuola, va attribuita la scoperta delle grandezze incommensurabili, scoperta veramente fondamentale la quale mentre da un lato rivoluzionava i principî della geometria e della metafisica pitagorica, dall'altro portava alla concezione degl'irrazionali, intesi appunto come rapporti di grandezze incommensurabili.
Aristotele riferisce (Analitici) che alla scoperta si giunse con un procedimento per assurdo mediante il quale si dimostrava che se la diagonale di un quadrato fosse commensurabile con un lato, allora uno stesso numero sarebbe insieme pari e dispari. Infatti se la diagonale A C fosse commensurabile con A B = 1 (preso cioè come unità di misura) si avrebbe
e quindi:
Ma poiché, per il teorema di Pitagora, A C2 = 2 A B2, risulta anche α2 = 2β2 quindi a2, e perciò a, è un numero pari. E poiché il rapporto α/β si suppone fin da principio ridotto ai minimi termini, risulta che β deve essere dispari. Supponiamo dunque α = 2γ; si avrà:
ossia:
Dal che risulterebbe che β2, e quindi β, deve essere pari. Ma siccome β non può essere insieme pari e dispari, risulta che non può essere
ove a e β siano numeri razionali. Risulta cioè che la diagonale e il lato di un quadrato sono incommensurabili, e che in particolare √2 è un numero irrazionale. A Pitagora risale anche - in connessione con la musica e con l'astronomia più che con la geometria - l'uso delle proporzioni: le quali venivano però sempre concepite come eguaglianze di rapporti fra grandezze commensurabili. Si deve ad Eudosso l'estensione che rese le proporzioni applicabili anche al caso di rapporti fra grandezze incommensurabili.
Analogamente nella scuola pitagorica troviamo la concezione di progressioni geometriche, aritmetiche ed armoniche.
Timarida è l'unico seguace di Pitagora sul quale ci siano rimaste notizie di qualche rilievo; è noto poi che la tradizione matematica dei pitagorici fu ripresa in parte nella scuola platonica e continuata da Speusippo e da Senocrate. Più tardi essa rifiorì, per opera di varî autori, nei primi secoli dell'era volgare, e noi ci fermeremo in seguito su tale sviluppo, quando avremo accennato all'opera aritmetica di Euclide contenuta nei libri VII-X degli Elementi.
Si tratta - inutile dirlo - del monumento più completo relativo all'antica aritmetica greca che sia pervenuto fino a noi.
Le varie proposizioni aritmetiche tramandateci in questi libri di Euclide sono in gran parte il frutto di ricerche antecedenti raccolte e sviluppate dal grande matematico (vissuto in Alessandria nel 300 a. C.). Assai arduo sarebbe il seguire particolarmente il processo di sviluppo del contenuto di questi libri. Noi ci contenteremo perciò di additare in essi lo stato dell'aritmetica greca nel periodo suaccennato. Il libro VII si apre con una serie di definizioni fra cui figurano quelle di numero (inteso come intero e positivo), di numero primo, di numeri primi fra loro, ecc. Poiché Euclide soleva rappresentare i numeri con segmenti, i prodotti con rettangoli e - occorrendo - con solidi, risultava che i numeri primi erano numeri lineari.
Dopo queste premesse, il libro tratta in sostanza dei criterî di divisibilità, della ricerca del massimo comun divisore e del minimo comune multiplo di due o più numeri, della riduzione di una frazione ai minimi termini, delle proporzioni in genere. Chi conosce la trattazione che si fa comunemente di questi argomenti nei nostri trattati di aritmetica elementare, ha un'idea abbastanza esatta della originaria trattazione euclidea.
Il libro VIII contiene principalmente un'estesa trattazione delle progressioni geometriche, e si apre con la definizione dei numeri superficiali, solidi, quadrati, cubi, simili (".... i numeri solidi o superficiali i cui lati sono proporzionali si dicono simili", es. [3,6], [4,8]....), ecc.
Nel libro IX troviamo dapprima una trattazione intesa a stabilire le condizioni in forza delle quali un prodotto di due o tre numeri è un quadrato o un cubo (".... il prodotto di due numeri superficiali simili è sempre un quadrato perfetto", ecc.).
Particolare interesse presentano anche la proposizione 20, in cui si dimostra che la serie dei numeri primi è illimitata, e la 35, nella quale è data la formula per la somma dei primi n termini di una progressione geometrica.
Il libro X è dedicato principalmente allo studio delle grandezze incommensurabili, e termina appunto con quella dimostrazione dell'incommensurabilità della diagonale con il lato di un quadrato, che noi abbiamo visto risalire alla scuola pitagorica.
L'opera di Euclide esprime già senza dubbio la maturità dell'aritmetica greca. Ma un quadro completo degli aspetti che questa scienza assunse per opera degli Elleni ci sarà fornito solo accennando brevemente anche agli scrittori posteriori ad Euclide, cioè Archimede, Eratostene, Nicomaco da Gerasa, e Giamblico di Calcide.
La logistica greca non conosceva - come abbiamo detto - il valore posizionale delle cifre; i numeri non erano per essa che una somma di monadi (unità), di decadi (diecine), di ecatontadi (centinaia), ecc., fino alle migliaia di miriadi equivalenti alle nostre decine di milioni. Posta perciò nell'impossibilità di rappresentare numeri quanto si vogliano grandi, la fantasia aritmetica greca tendeva a confondere l'enormemente grande con l'innumerevole. Di qui l'Arenario di Archimede, opera in cui il grande matematico siracusano si proponeva di dimostrare che possono essere contati non solo i granellini di sabbia della terra, ma anche quelli contenuti eventualmente in una sfera avente per raggio la distanza dal centro della terra alla sfera stellata. Perciò egli doveva insomma risolvere il problema di esprimere un numero enormemente grande, e fu condotto così al suo sistema di numerazione per ottadi. Per questo egli considerò la progressione geometrica:
e chiamò numeri di prim'ordine o numeri primitivi quelli contenuti in essa.
La successione seguente
conteneva i numeri di secondo ordine. Una terza serie - fino a 1024 − quelli di terzo ordine, e così via fino a quelli di settimo ordine, cioè fino a 1056. L'insienne di questi sette ordini formava un primo periodo, a cui ne succedevano altri fino a giungere al numero dieci elevato alla trilionesima, fino cioè - in sostanza - a mostrare in qual modo la simbolica greca potesse rendersi atta a rappresentare numeri di grandezza qualsiasi.
Eratostene invece è ancor oggi universalmente conosciuto per il suo Crivello, per il suo metodo, cioè, relativo alla ricerca dei numeri primi. Tale metodo consiste nello scrivere tutti i numeri dispari (giacché i pari senza dubbio non sono primi) e nel cancellare come non primi quelli che si trovano 3 n posti dopo il 3,5n posti dopo il 5,7 n posti dopo il 7 ecc. (ove n s'intende possa assumere un valore intero qualsiasi a partire da 1).
Nicomaco da Gerasa (I o II sec. d. C.) merita un particolare cenno per la sua Introduzione Aritmetica, opera che sebbene di carattere popolare tenne viva gran parte della tradizione aritmetica greca e particolarmente pitagorica attraverso l'età antica e il Medioevo, specialmente per mezzo della traduzione latina che dell'Introduzione compì Boezio. La natura del libro mostra come esso sia inteso sostanzialmente a riassumere in modo interessante e dilettevole le conquiste dell'aritmetica. Esso si diffonde moltissimo sui numeri figurati, e vi appaiono perfino dei numeri circolari o sferici. In esso si trova anche un'interessante formula relativa alle progressioni geometriche:
ove 1, r, r2, ..., rn sono termini di una progressione geometrica, e ρn = rn-1 + rn. La formula stabilisce insomma che il rapporto fra la somma di due termini successivi di una progressione e il maggiore di tali termini è eguale al rapporto fra la ragione aumentata di uno e la ragione stessa.
Il progresso dell'aritmetica greca, a differenza di quello di altri rami delle matematiche, fiorisce rigoglioso fino al sec. III d. C., finché cioè l'aritmetica non sbocca, per arricchirsi ancora, nell'opera di Diofanto: cioè in una vera e propria algebra. Quest'opera fornisce in sostanza una trattazione in gran parte nuova di problemi sorti antecedentemente fino dall'epoca pitagorica, e in particolare fino dalla scoperta dei numeri irrazionali. Probabilmente Diofanto riassume, oltreché sviluppare, tutto un movimento scientifico giunto fino a lui. Le ragioni di questo continuo sviluppo dell'aritmetica vanno cercate principalmente in due fatti: 1. nel fatto che un calcolo sempre più progredito era necessario alle esigenze dell'astronomia; 2. nel fatto che, per ragioni di commercio, Alessandria venne in contatto frequente con gl'Indiani, abilissimi calcolatori.
Il periodo di transizione. - Nonostante questi contatti, nessuna traccia appare ancora dello zero o del valore posizionale delle cifre; nessuna traccia, cioè delle più notevoli innovazioni subite dall'aritmetica del Mediterraneo grazie ai suoi contatti con l'aritmetica indiana.
E sia questo fatto, sia quello che anche nella letteratura indiana tali innovazioni si presentano per la prima volta nel Sūrya Siddhānta, inducono a credere che la loro introduzione non possa essere di molto anteriore alla composizione dello scritto citato, cioè al sec. V d. C. circa.
Molto si è discusso sull'invenzione del cosiddetto valore posizionale delle cifre; e si è giunti a concludere che tale uso derivi da quello dell'abaco, in quanto ai gettoni di questo strumento si diano i valori n, 10 n, 102 n, 103 n.... ecc., (dove n è un numero compreso fra 1 e 9) secondoché essi occupino un particolare posto su una linea orizzontale. Un segno atto ad esprimere il valore 010h n (cioè precisamente il segno 0) s'imponeva poi necessariamente come conseguenza del detto sviluppo.
D'altro canto i monumenti giunti fino a noi attestano che in generale gl'Indiani più che l'aspetto teorico dell'aritmetica e di altri rami delle matematiche, coltivarono con successo gli sviluppi di carattere Pratico; e, cosa notevole, conoscevano già verso l'undicesimo secolo la regola del tre semplice e composta, la regola del miscuglio, di società ecc., nonché le formule per il calcolo dell'interesse semplice o composto.
Queste cognizioni indiane e le assai più vaste conoscenze greche furono insieme conservate durante il Medioevo, e trasmesse all'Europa sul finire di tale epoca, per opera degli Arabi. Solo una scintilla del fuoco della scienza fu conservata invece da quei Bizantini che per ragioni di vario carattere - e in primo luogo linguistiche - avrebbero dovuto essere gli eredi legittimi dell'antica scienza ellenica.
Dai preumanisti ai matematici moderni. - Prima del XIII secolo, prima cioè che con Leonardo da Pisa le matematiche rifiorissero decisamente, esisteva in Europa qualche rarissima traduzione dall'arabo, diffusa in pochi esemplari manoscritti: vale a dire qualche trattato di calcolo pratico, un'Algebra, contenente: alcuni ragguagli sulle equazioni di primo e secondo grado, gli Elementi di Euclide, la Sintassi di Tolomeo. E assai rari erano coloro che potevano comprendere una sia pur così piccola parte di scienza; alcuni monaci chiusi nei chiostri solitarî, alcuni fra i numerosi mercanti, specialmente delle città marinare. Per ciò che riguarda il calcolo aritmetico, questi rari possessori della scienza si dividevano in due scuole: gli abacisti e gli algoritmisti (v. algoritmo). Questi ultimi usavano il segno 0 (zero), consideravano come operazioni speciali il raddoppiamento e lo smezzamento, conoscevano metodi per l'estrazione delle radici quadrata e cubica, impiegavano le frazioni sessagesimali ecc.
Gli abacisti invece, non usando il segno zero, dovevano collegare il valore posizionale di una cifra alla speciale colonna in cui la cifra veniva posta, e si distinguevano dagli algoritmisti anche per il fatto di usare frazioni dodicesimali derivanti dal sistema monetario romano.
La tradizione scientifica nel campo dell'aritmetica rifiorì in Europa, come si disse, principalmente per l'influsso esercitato dall'opera di Leonardo Fibonacci (o Leonardo da Pisa), pubblico notaro della Repubblica Pisana, impadronitosi a fondo del sapere tramandato fino al suo secolo, durante i suoi numerosi viaggi in Egitto, in Siria, in GreLia, in Sicilia, in Provenza.
Il suo celeberrimo Liber Abbaci (1202) rappresenta senza dubbio un'elaborazione in gran parte personale delle nozioni e delle teorie raccolte, ma - poiché le fonti ne sono quasi completamente ignote - è impossibile stabilire dove cominci e dove finisca il contributo originale di Leonardo da Pisa.
Il Liber Abbaci è insieme un trattato di aritmetica e d'algebra, e un'enciclopedia ad uso dei commercianti. Il materiale raccoltovi è vastissimo: le operazioni fondamentali vengono trattate con larga dovizia di esempî e con efficaci distinzioni di casi particolari. Le radici cubiche e quadrate, le progressioni aritmetiche, le regole del tre, la formula di interesse e numerose altre formule di uso comune nel commercio vengono spiegate in modo chiaro ed esauriente; mentre le principali dimostrazioni relative a tali soggetti vengono svolte quasi sempre in forma geometrica, in forma cioè euclidea, sebbene spesso diversa da quella propria di Euclide e magari più prossima a taluna già usata dagli Arabi.
Dalla pubblicazione del Liber Abbaci, fino al principio del sec. XVI, le conoscenze aritmetiche si svilupparono e si diffusero ampiamente. Rimasero celebri in Italia i nomi di Campano da Novara, Paolo Dagomari, Prosdocimo Beldomandi, Biagio Pelacani, ed egualmente celebri gli scritti anonimi in latino o in volgare conservati ancora in gran parte nelle biblioteche italiane.
Nel 1494 veniva poi edita in Venezia quella Summa de Aritmetica, Geometria ecc., di Luca Pacioli, che fu giustamente riguardata come fonte di una scuola nella quale vengono accolti nomi illustri come quelli di Cardano e di Tartaglia. Ma la Summa di Luca Pacioli concerne principalmente lo sviluppo dell'algebra, e perciò non è il caso di accennare qui al suo contenuto.
Del Tartaglia hanno grande interesse due trattati di aritmetica, riuniti poi in un volume postumo (1606). Si trova in tale opera il famoso triangolo che noi riproduciamo qui sotto, e che - com'è noto - dà i coefficienti dello sviluppo di (a + b)h ove n è un numero maggiore di uno:
Alla fine del sec. XV e al principio del sec. XVI comparvero altre celebri opere come il Triparty en la science des nombres di Nicolas Chuquet, le opere del Butéon, del Finé, del Riese, dello Stifel, ecc. E infine, sul principio del sec. XVII, tanto fervore di studî veniva coronato dall'invenzione dei logaritmi per opera di John Napier (o Neper).
Nella maturità di quel secolo Biagio Pascal si faceva inventore di una notevole macchina calcolatrice per uso di suo padre nominato intendente generale a Rouen, e sviluppava studî relativi alle probabilità, cioè studî appartenenti, fino ad un certo punto, all'aritmetica; il suo nome del resto è connesso a questo ramo del sapere grazie all'invenzione di un triangolo aritmetico. Egli divise i numeri in numeri di primo ordine o unità; di secondo ordine come:
risultanti dalla somma di unità; di terzo ordine come:
risultanti dalla somma di numeri del secondo ordine, del quarto ordine come:
risultanti dalla somma di quelli di terzo, ecc. È facile quindi ricavare la tabella seguente:
E disponendo i numeri stessi in forma triangolare secondo le diagonali da sinistra in basso a destra in alto:
cioè in sostanza qualche cosa di analogo al già citato triangolo di Tartaglia.
Pascal medesimo, ma più ancora Fermat, ripresero gli studî pitagorici con l'intento di dimostrare teoremi relativi a certe proprietà dei numeri non aventi immediato rapporto con i bisogni del calcolo. Fecero rinascere così la teoria dei numeri. Sulla fine del secolo decimosettimo il Brounker introduceva inoltre la nozione di frazione continua.
In quest'epoca appare anche definitivamente stabilito l'uso degli attuali segni aritmetici, la cui storia è talvolta abbastanza incerta. Così quanto ai segni + e − si voleva che l'uso di essi fosse stato introdotto da Leonardo da Vinci. Ma si è poi visto che si riscontravano anche in opere anteriori all'epoca in cui visse il sommo artista, e non è dubbio che tali segni siano frutto di una evoluzione tendente ad una sempre maggior brevità. Lo stesso si dica per altri segni, ricordando che tale evoluzione non può certo considerarsi come terminata, e che, p. es., il segno × tende a trasformarsi semplicemente in.; esso fu inventato, sembra, da Unghtred, mentre al Wallis si deve il segno di proporzione (: :), e all'Harriot quelli di > (maggiore) e 〈 (minore). L'eguaglianza venne per lungo tempo - come testimoniano gli scritti del Huyghens - indicata con il segno &scr;???. Nel papiro Rhind (1700 a. C.) il segno di eguaglianza è un geroglifico imitante lo scarabeo e avente - nella lingua egiziana - un significato corrispondente a quello della nostra parola "diviene", e il + e il − sono indicati invece con le gambe di un uomo che si dirigono rispettivamente verso destra o verso sinistra: di un uomo insomma che va o torna. Le parentesi furono usate per la prima volta dal Girard (sec. XVII) e si diffusero poi ampiamente a partire dal secolo successivo. Prima erano in uso dei trattini orizzontali sovrastanti o sottostanti a un dato gruppo di numeri. Così p. es. 5 - (3 + 8) si scriveva 5 - 3+ 8. Al Leibniz è dovuto il segno di divisione:.
Nel sec. XVIII il De Moivre studiò largamente le serie, e il Simpson insegnò ad estrarre le radici per mezzo di esse. Contemporaneamente la teoria dei numeri procedeva per opera di Lagrange, Eulero, Legendre. Nel secolo seguente tale parte dell'aritmetica acquistava uno sviluppo così grande, da divenire un ramo di scienza relativamente indipendente.
Bisogna aggiungere che fino alla seconda metà del secolo scorso la conoscenza dell'aritmetica elementare non fu affatto popolare come divenne nel periodo di tempo seguente, fino ad oggi.
Regole dell'aritmetica pratica.
Addizione deriva dal latino addo "aggiungo". Analogamente la parola somma (risultato dell'addizione) deriva da summus "che sta sopra", ma ad indicare la somma furono usati anche i termini aggregato e prodotto; così come per addendi si usarono i vocaboli colligendi, summandi, congregandi, ecc.
L'addizione gode - com'è noto - delle proprietà associativa [(5+ 3) + 7 = 5 + (3+ 7)] e commutativa [5 + 3 = 3 + 5]. Le denominazioni per queste due proprietà furono introdotte rispettivamente dal Hamilton e dal Servois (sec. XIX).
Quanto alla sottrazione è noto come essa venga definita quale operazione inversa dell'addizione, ed è noto altresì quali siano le sue proprietà caratteristiche. Il termine deriva da subtraho "traggo via" Il minuendo venne detto integrum o superior o numerus minuendus. Il sottraendo subducendus, inferior, subtrahendus ecc. La differenza residuum, reliquum, ecc.
La moltiplicazione gode, com'è noto, delle proprietà commutativa, associativa e distributiva rispetto alla somma:
La denominazione di quest'ultima fu introdotta dal Servois. La voce moltiplicazione deriva da multum "molto" e plico "piego"; prodotto deriva invece da productus "condotto innanzi".
Diamo qui alcune regole pratiche per trovare rapidamente il prodotto di due numeri in certi casi particolari meno evidenti.
Prodotto di un numero per 11:
1. Se il numero ha una sola cifra basta ripeterla due volte, così:
2. Se il numero ha due cifre la cui somma sia minore di dieci, il prodotto si ottiene intercalando tale somma fra le due cifre del numero dato. Così il prodotto 34 × 11 è uguale a 374, dove 7 si ricava dalla somma 3 + 4.
3. Qualora la somma delle cifre del numero sia maggiore o eguale a dieci, si pongono in mezzo le unità (o lo zero) di tale somma, e si aggiunge uno alla cifra delle centinaia nel prodotto. Così: 55 × 11 = 605; 67 × 11 = 737.
Prodotto di un numero per 101:
1. Se il numero ha una cifra si pone tale cifra al posto degli uno:
2. Se il numero ha due cifre si pongono le unità di tali cifre al posto degli uno, e le decine davanti ad esse:
Analogamente nel caso della moltiplicazione per 1001 ecc.; così:
Abbiamo già visto come i Greci eseguissero il prodotto di numeri qualsiansi. Da tale metodo è facile ricavare la disposizione attualmente in uso nell'esecuzione del prodotto.
La nota regola generale di moltiplicazione risulta già da quanto osservammo studiando lo svolgimento del pensiero aritmetico presso i Greci. La sua giustificazione teorica deriva poi dalle proprietà associativa e distributiva che si utilizzano anche nel caso algebrico della moltiplicazione dei polinomî. Così p. es. il prodotto 531 × 26, può porsi sotto la forma (5 × 102 + 3 × 10 + 1) × (2 × 10 + 6) da cui deriva il processo operativo greco, al quale il nostro odierno non porta che semplici abbreviazioni grafiche.
Potenza di un numero è il prodotto di più fattori eguali a quel numero, il quale si dice base della potenza; il numero dei fattori si dice esponente. E si scrive per es. 5 × 5 × 5 × 5 = 54. In particolare 51 = 5.
La seconda e la terza potenza di un numero qualsiasi si dicono rispettivamente quadrato e cubo di quel numero.
Il termine potenza deriva dal lat. potentia; ma la denominazione e la simbolica di questa operazione andarono soggette a variazioni notevoli nell'epoca moderna. Molti scrittori, fra cui il Tartaglia, chiamarono dignità la potenza. Voci particolari ebbero poi significati diversi e quindi equivocabili. Così quadratocubus, mentre significava sesta potenza in Pacioli, Stifel, Tartaglia, Cardano, Cartesio, Leibniz, ecc., era presa dal Vieta e da altri nel senso di quinta potenza. Nomi particolari ebbero le potenze delle incognite.
La voce esponente (da expono "pongo fuori") fu usata per la prima volta dallo Stifel (sec. XVI). La simbolica variò moltissimo. Così il Vieta scriveva a cubus per a3 ecc.; il Bombelli 1, 2, 3 ..., per x, x2, x3; lo Stevino (sec. XVI) invece (1), (2), (3)..., ecc.; il Burgi (sec. XVI) a, Ib, IIc, III.. per ax, bx2, cx3, ecc.; notazione questa rimasta celebre perché usata dal Keplero nell'espressione della sua legge.
Sono noti i teoremi fondamentali relativi alle potenze, cioè:
1. Il prodotto di più potenze aventi la stessa base, è una potenza avente quella base e per esponente la somma degli esponenti.
2. Il quoziente di potenze aventi base eguale, è una potenza avente quella base e per esponente la differenza degli esponenti. Perciò ogni numero elevato a zero si pone per convenzione uguale a uno.
3. La potenza di una potenza è eguale alla potenza avente la stessa base e per esponente il prodotto degli esponenti. Considerando lo sviluppo dell'aritmetica greca abbiamo visto in qual modo possa elevarsi a quadrato un numero di due cifre, senza l'uso del calcolo grafico.
Divisione (dal latino divisio) è l'operazione inversa della moltiplicazione, e risulta propria solo nel caso in cui il dividendo sia multiplo del divisore. Il dividendo fu detto anche totum, mensurandus, numerus divisus, ecc. Il divisore fu spesso designato con il termine mensura. La parola quoziente (dal latino quotiens "quante volte" o la parola quoto (dal latino quot) furono precedute dalla espressione summa divisionis usata da Leonardo da Pisa, o dai detti termini latini.
La regola generale di divisione può giustificarsi teoricamente prendendo le mosse dalla divisione dei polinomî algebrici, cioè dal problema: dati due polinomî qualsivogliano, p. es.:
trovare il polinomio che moltiplicato per il secondo riproduce il primo.
Il polinomio cercato, se esiste, è di grado 5 − 3 = 2 (nel caso particolare da noi scelto) (in esso il coefficiente della x2 deve essere tale che moltiplicato per b0 riproduca a0. Con regola ricorrente si trovano poi i coefficienti dei termini successivi.
Si passa evidentemente al caso aritmetico allorché le potenze di x siano sostituite da potenze di 10, come appare dall'esempio seguente in cui si tratta di dividere 45713 per 8692:
Il quoziente e il resto risultano eguali rispettivamente - come tosto si vede - a 5 e 2253.
Quando si scrive la divisione senza abbreviazioni, come nell'esempio seguente, si comprende immediatamente l'analogia del procedimento comune con quello sopra esposto:
Generalmente la trascrizione viene abbreviata con l'omissione del minuendo. Così l'operazione precedente si scrive:
Esistono varî metodi per semplificare la divisione in casi particolari, e noi accenneremo a qualcuno dei meno evidenti.
Per dividere un numero per 5, 25, 125, ecc. basta moltiplicare il dividendo per 2, 4, 8 ecc., e separare con una virgola nel prodotto 1, 2,3 cifre a destra. Il numero a sinistra della virgola è il quoziente, e il resto si ottiene dividendo per 2, 4, 8.... il numero posto a destra della virgola.
Per dividere un numero per 9, 99, 999,.... esiste pure un procedimento abbreviato di cui diamo esempio: volendo dividere 4567 per 9 si ponga:
Si vede che la cifra separata a destra del quoziente deve essere aumentata del numero delle decine riportate nella cifra che si trova alla sua sinistra, per ottenere il resto.
Analogamente si procede nel caso, p. es., di 38645 : 99. Ma come si vede dall'esempio che segue gli addendi successivi differiscono non già di una ma di due cifre. E le cifre separate a destra sono due anziché una.
Se la divisione è fatta per 999 gli addendi successivi differiscono per tre cifre, e tre sono le cifre che debbono separarsi a destra, ecc.
Quanto all'operazione di estrazione di radice in genere, essa è definita come operazione inversa dell'innalzamento a potenza. Si chiama quindi radice ennesima di un dato numero a, quel numero b che elevato all'ennesima potenza riproduce il numero dato e si scrive:
In particolare la radice seconda e terza di un numero vengono dette radice quadrata e cubica. La prima si indica omettendo l'indice del radicale, scrivendo cioè semplicemente √a.
Gl'Indiani indicavano l'operazione di cui ci stiamo occupando con la parola mula che significa, nel loro idioma, radice delle piante in genere. Il termine arabo gidhr (pure significante "radice" in senso botanico" dovette essere una semplice traduzione dell'indiano. Da esso derivò la nostra parola radice che si trova dapprima nel Liber Algo-rismi di Giovanni da Siviglia (sec. XII). Il simbolo relativo deriva com'è noto da una metamorfosi dell'iniziale R, trasformata poi in V come appare già in Rudolff (sec. XVI). La radice quadrata era detta lato (πλευρά), dai greci, e il suo simbolo era fornito dall'espressione
Da quanto abbiamo detto parlando dell'aritmetica greca risulta la regola per estrarre una radice quadrata o cubica, e risulta altresì che solo certi numeri ammettono una radice ennesima (dove n è un numero qualsiasi) esatta. Sono poi noti i teoremi espressi dalle seguenti eguaglianze:
È noto come si eseguano le prove per 9 e per 11 delle varie operazioni, tenendo presente che il resto della divisione per 9 di un dato numero è eguale al resto della divisione per 9 della somma delle sue cifre, e il resto della divisione per 11 di un numero è uguale al resto della divisione per 11 del numero ottenuto sottraendo la somma delle cifre di posto pari dalla somma delle cifre di posto dispari nel dato numero. Ciò posto la prova per 9 della moltiplicazione si esegue così: si trovano i resti della divisione per nove dei fattori, si moltiplicano tali resti fra loro e si trova il resto per 9 del loro prodotto. Quest'ultimo resto dev'essere eguale al resto per 9 del prodotto generale la cui esattezza si doveva controllare.
Per la divisione, si trovano i resti per 9 del divisore e del quoziente, si fa il prodotto di tali resti e se ne trova il resto per 9. Si aggiunge a questo resto il resto della divisione per 9 del resto della divisione da verificare, si prende poi ancora il resto per 9 di tale somma: e quest'ultimo dev'essere eguale al resto per 9 del dividendo. Così p. es. se si considera la divisione
la prova dovrà eseguirsi come segue:
e poiché 1 = 1 la divisione è esatta.
Per la radice quadrata, si prende il resto per 9 della radice trovata, se ne fa il quadrato e si prende il resto per 9 di tale quadrato. Si aggiunge quest'ultimo resto al resto per 9 del resto dell'operazione da verificare, e il resto della divisione per 9 di tale somma dev'essere eguale al resto della divisione per 9 del radicando.
Una regola del tutto analoga potrebbe ripetersi nel caso della radice cubica o della radice ennesima in genere. Bisognerà in tali casi elevare rispettivamente alla terza e all'ennesima potenza il resto che nel caso precedente elevavamo al quadrato.
In modo del tutto analogo si eseguono le prove per 11, basti accennare che al posto dei resti per 9 di cui si è parlato precedentemente, occorre invece sostituire i resti per 11.
E noto che dicesi frazione ogni espressione della forma
dove secondoché a ≶ b la frazione si dice impropria o propria. Se a = n b (dove n è un intero qualsiasi) la frazione si dice apparente.
È noto come si eseguano la somma e la sottrazione di frazioni, il prodotto
la divisione
l'innalzamento a potenza, la radice, ecc.
L'uso di frazioni generiche aventi numeratore diverso da i risale probabilmente agli Indiani, e fu poi introdotto in Europa dagli Arabi. Anche la notazione
è indiana, e diversa - come si vide - dalla greca. La notazione a/b ancora in uso, e quella b)a in uso nel sec. XVII non sono che mutamenti dell'originaria notazione indiana.
Una frazione avente per denominatore 10n (dove n è un numero naturale qualsiasi) si chiama frazione decimale, e può sempre scriversi sotto forma di un numero decimale.
Così:
Una frazione ordinaria può ridursi in decimale se il denominatore della frazione stessa ridotta ai minimi termini ammette per fattori primi solo il 2 e il 5. Basta a tal uopo moltiplicare numeratore e denominatore della frazione per tanti 2 0 tanti 5 quanti ne occorrono a far sì che nel denominatore della nuova frazione decomposto in fattori primi il 2 e il 5 appaiano elevati allo stesso esponente. Se in una frazione non decimale si divide il numeratore per il denominatore, il quoziente sarà un numero periodico semplice o misto. (È noto che si dice periodico misto un numero avente periodo e antiperiodo, come 0,83333.... in cui il periodo è 3 e l'antiperiodo 8. Si dice invece periodico semplice un numero avente il solo periodo; p. es. 0,666... in cui l'antiperiodo non esiste, e il periodo è 6). Così appunto vediamo che dalle frazioni
si ricavano per divisione dei numeri decimali periodici, cioè dei numeri decimali aventi infinite cifre, ma tali che a partire da un certo punto - cioè dalla fine del periodo - si ripetono sempre in gruppi eguali sia per le cifre di cui tali gruppi sono formati, sia per l'ordine di tali cifre:
Viceversa dato un numero periodico semplice o misto si può sempre trovare una frazione (detta generatrice di quel numero periodico) equivalente ad esso; basta valersi della seguente regola: la generatrice di un numero periodico semplice o misto è una frazione avente per numeratore il numero che si ottiene togliendo l'antiperiodo dal numero formato dall'antiperiodo stesso seguito dal periodo, e per denominatore un numero formato da tanti 9 quante sono le cifre del periodo seguiti da tanti zeri quante sono le cifre dell'antiperiodo.
Una proporzione è notoriamente l'eguaglianza di due rapporti
e si scrive a : b = c : d. Com'è noto a e d si dicono estremi 6 b e c medî; ovvero a e c si dicono antecedenti, b e d conseguenti. Notoriamente il prodotto dei medî è eguale al prodotto degli estremi; e di tale eguaglianza ci si giova per trovare un medio o un estremo incognito (un medio incognito è eguale al prodotto degli estremi diviso per il medio noto; un estremo incognito è eguale al prodotto dei medî diviso per l'estremo noto). La proporzione si dice continua se i due medî (o i due estremi) sono eguali. Per es. è continua la proporzione a : b = b : c. Dalle proprietà delle proporzioni si ricavano gran parte delle proposizioni riguardanti l'aritmetica commerciale, di cui accenniamo qui sotto.
Aritmetica commerciale.
Accenneremo in primo luogo alla regola del tre semplice per il calcolo di un valore incognito x di una grandezza della quale si sappia che varia in modo direttamente o inversamente proporzionale ad un'altra, e di cui si conosca già un valore b. Secondo che la proporzionalità accennata è diretta o inversa, la regola si distingue in diretta (1), inversa (2).
1. Per avere la quantità incognita x nel caso della proporzionalità diretta, si moltiplica b per il rapporto tra i valori della seconda grandezza corrispondenti rispettivamente ad x e a b.
2. Nel caso invece della proporzionalità inversa si moltiplica b per il rapporto inverso del precedente.
La regola del tre composta in cui dato un primo valore b di una grandezza si tratta di calcolarne un secondo x, sapendo che la grandezza stessa varia proporzionalmente a più altre, si può enunciare nel modo seguente: si considerano i due valori corrispondenti a b e ad x di tutte le grandezze suaccennate e per ogni grandezza direttamente proporzionale all'incognita si forma il rapporto tra il valore corrispondente a quello di x e il valore corrispondente a quello di b; per ogni grandezza inversamente proporzionale all'incognita si forma al contrario il rapporto tra il valore corrispondente a quello di b e il valore corrispondente a quello di x. Si moltiplica b per tutti i rapporti così ottenuti e in tal modo si ottiene il valore dell'incognita x.
Interesse. - È noto che il valore dell'interesse semplice I di un certo capitale C impiegato per un certo periodo di tempo espresso in anni t a un dato tasso o saggio r, è fornito dalla formula:
da cui si ricavano quelle che dànno rispettivamente il capitale, il tasso o il tempo, noti i valori delle altre quantità:
Se il tempo t anziché in anni è espresso in mesi o in giorni, valgono le stesse formule con l'avvertenza però che in luogo di 100 bisogna porre rispettivamente 1200 ovvero 36000.
Anche lo sconto commerciale, a differenza del razionale, si calcola come un interesse semplice. Esso infatti è l'interesse calcolato sul valore nominale di una qualsiasi somma, per una durata di tempo che decorre dal momento in cui si acquista il credito di quella somma, fino al momento in cui si può effettivamente esigere la somma stessa. Il valore attuale, il valore vero della somma, è dato com'è naturale dalla differenza fra il valore nominale e lo sconto commerciale.
Si potranno quindi dare le formule:
dove s indica lo sconto commerciale, Vn il valore nominale, Va il valore attuale. Queste due formule permettono naturalmente di risolvere una quantità di problemi relativi allo sconto, quali la ricerca del saggio di sconto r o del tempo, note le altre quantità.
Diamo infine qui la formula del montante m di un certo capitale, impiegato per un certo tempo n al tasso di r centesimi per ogni lira:
Si parla anche dello sconto in contanti (fatto cioè a chi compra in contanti) o ribasso. È ovvio che tale sconto è sempre proporzionale al montante dell'acquisto, e nel suo calcolo entra anche il tempo in quanto costituisce un uso il pagare la merce acquistata a un certo numero di mesi dall'acquisto stesso. Il calcolo di tale sconto si esegue come quello dello sconto commerciale.
Ripartizione proporzionale semplice. - Ripartire un numero A proporzionalmente a più altri significa trovare dei numeri proporzionali a numeri dati e la cui somma sia eguale ad A. Si comprende subito che per dividere A in parti proporzionali ad a, b, c,... si divide prima A per a + b + c +...., poi si moltiplica il quoziente così ottenuto per ciascuna delle quantità a, b, c,..... Così dovendo dividere 150 in parti proporzionali a 3,5,7 si esegue la divisione 150: (3 + 5 + 7) − 150 : 15 − 10, e si moltiplica tale quoziente rispettivamente per 3, per 5, per 7. Si avranno così i numeri 30, 50, 70, la cui somma è eguale a 150, e che risultano proporzionali a 3, 5, 7.
La ripartizione proporzionale composta si riassume nella seguente regola: per dividere un numero o una grandezza A in parti proporzionali ai numeri a, b, c,... a′, b′, c′,... si divide A in parti proporzionali ai prodotti a × a′, b × b′, c × c′....
Queste regole relative alla ripartizione proporzionale semplice o composta si applicano senz'altro ai problemi che chiedono di essere risolti secondo la regola di società: regola la quale è semplicemente un caso particolare delle suaccennate, e in cui precisamente la grandezza da ripartire è il beneficio di un affare o di una serie di affari, e le grandezze proporzionalmente a cui si deve eseguire tale divisione sono determinate dal diverso contributo dato dai soci alla riuscita dell'affare stesso. Generalmente tale diversità di contributo consiste nella diversa entità dei capitali impiegati.
Rientrano nelle regole di ripartizione proporzionale anche le cosiddette regole di miscuglio. Premesso che la media aritmetica di più numeri è data dalla somma dei numeri divisi per il numero dei numeri stessi, possiamo enunciare le seguenti due regole.
1. Per calcolare il prezzo medio di un miscuglio, si cerca il prezzo totale, e si deduce il prezzo medio dell'unità dividendo tale prezzo totale per il numero delle unità.
2. Per calcolare quali quantità di certi ingredienti occorre mescolare per ottenere un miscuglio avente un certo prezzo medio, basta tener presente che le quantità cercate sono inversamente proporzionali alle differenze dei loro prezzi con il prezzo medio prestabilito.
Bibl.: Una trattazione abbastanza ampia dell'aritmetica può trovarsi in qualunque buon trattato elementare di uso scolastico. Per notizie di carattere etnografico e per una trattazione pedagogica cfr. G. Ferretti, Il numero e i fanciulli, Roma 1919. Tale saggio contiene anche numerose notizie bibliografiche. Per quanto riguaura la trattazione storica, v.: Gli "Elementi" di Euclide e la critica antica e moderna, a cura di F. Enriques, II, Bologna 1929; H. G. Zeuthen, Histoire des mathématiques dans l'antiquité et le moyen-âge, Parigi 1902; P. Tannery, Mémoires scientifiques, Parigi 1920; G. Loria, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 2ª edizione, Milano 1914; T. Heath, A History of greek mathematics, Oxford 1921.
Aritmetica superiore o teoria dei numeri.
1. Sguardo storico. - L'aritmetica superiore tratta, in primo luogo, dei numeri interi riguardo alla loro composizione per somma (partizione) o per prodotto (divisibilità), e, più generalmente, secondo assegnate combinazioni di queste due operazioni (analisi indeterminata). È questa la branca classica dell'aritmetica superiore: la teoria dei numeri propriamente detta. I suoi primi sviluppi, specialmente riguardo alla teoria della divisibilità, si trovano nei libri VII, VIII e IX degli Elementi di Euclide (circa 300 a. C.); ma i germi dell'analisi indeterminata, secondo il contributo degli antichi matematici greci, e sicuramente anche per influenza degl'Indiani e degli Arabi, si riscontrano nell'Aritmetica ('Αριϑμητικά) di Diofanto d'Alessandria (verso il 250), opera importantissima come l'unica e la più lontana precorritrice della scienza algebrica. Soltanto dopo dieci secoli, quando nei paesi occidentali la cultura greca era offuscata in conseguenza delle invasioni barbariche, un'altra opera riusciva a tener vivo l'interesse pei fatti aritmetici: il Liber Abbaci di Leonardo Pisano (1202). Ma il maggiore impulso allo sviluppo dell'aritmetica fu dato nel secolo XVI dalle traduzioni e dai commenti dell'opera di Diofanto, e specialmente dall'edizione curata da Bachet de Méziriac (Parigi 1621), e più ancora dalla successiva, per le importantissime osservazioni che contiene, dovute a Pierre de Fermat e pubblicate dal figlio Samuele (Diophanti Alexandrini Arithmeticorum libri sex, ecc. cum commentarii G. G. Bacheti et observationibus D. P. Fermat, ecc., Tolosa 1670). Questa pubblicazione, in un tempo in cui tutti i rami della matematica erano in grande sviluppo, promoveva una serie di ricerche sistematiche intorno ad argomenti varî di teoria dei numeri, alle quali attendevano matematici eminenti come L. Eulero, J. L. Lagrange, A. M. Legendre, C. F. Gauss. Il Legendre pubblicava il suo Essai sur la Théorie des Nomobres (1a ed., Parigi 1798), e poi il Gauss le sue celebri Disquisitiones arithmeticae (Lipsia 1801), dove trovavano assetto definitivo la teoria delle congruenze, e in particolare quella delle congruenze quadratiche, l'analisi indeterminata dei primi due gradi, la teoria delle radici dell'unità e le sue applicazioni alla divisione della circonferenza in parti eguali. Con queste due opere la teoria dei numeri si eleva a organismo scientifico, al cui sviluppo contribuiscono poi C. G. J. Jacobi, E.E. Kummer, G. Lejeune-Dirichlet, L. Kronecker, D. Hilbert, H. Minkowski, ecc. Le questioni fondamentali dell'aritmetica sono intanto estese anche ad altri campi numerici, i cosiddetti campi d'integrità, principalmente quelli relativi ai corpi algebrici (n. 15); e così ne sorgono anche speciali teorie dei numeri, aventi fisionomie alquanto diverse in relazione alla diversità di struttura dei rispettivi campi d'integrità. Ma, nel tempo stesso, lo sviluppo dell'analisi infinitesimale fornisce nuovi mezzi alla risoluzione di ardui problemi aritmetici restii ai metodi classici (come la ricerca della legge di distribuzione dei numeri primi nella serie naturale o in una progressione aritmetica); e sorgono problemi nuovi, posti dalla stessa analisi infinitesimale (come la ricerca del comportamento di una funzione numerica al crescere indefinitamente della variabile). S'inizia così col Dirichlet, e si svolge con B. Riemann, J. Hadamard, Ch. De La Vallée-Poussin, E. Cesàro, G. Torelli, Ed. Landau ed altri, l'Aritmetica analitica e, in particolare, l'Aritmetica asintotica (n. 16).
2. La divisibilità. - I primi elementi di teoria dei numeri, intorno alla divisibilità e ai numeri primi, sono esposti, come abbiamo detto, nei libri VII, VIII e IX degli Elementi di Euclide. Le nozioni fondamentali sono quelle di multiplo, divisore o fattore, numero primo e numero composto. Un numero (naturale diverso da zero, cioè intero positivo) è sempre il prodotto di due altri (per es. dell'unità e del numero stesso): esso si dice multiplo di ciascuno dei due (secondo l'altro), e questi due si dicono divisori (complementari tra di loro) del primo, e divisori puri, se sono minori di questo. Un numero ammette un insieme finito di divisori, quindi più numeri ammettono un insieme finito di divisori comuni; il maggiore di questi è detto il loro massimo comun divisore (mass. c. d.). Il procedimento ordinario per determinare il mass. c. d. di due numeri consiste in successive divisioni: esso si trova esposto nel libro VII degli Elementi di Euclide e prende perciò il nome di algoritmo euclideo. In base a questo comunemente si stabilisce la proprietà fondamentale (detta dell'omogeneità) del mass. c. d.:
a) "se si moltiplicano più numeri per un altro, il mass. c. d. dei primi viene a moltiplicarsi per quest'altro", da cui segue che:
b) "il mass. c. d. di più numeri è multiplo di ogni divisore comune ai numeri stessi".
L'importanza della proprietà a) si riconosce particolarmente quando si vuole estendere la teoria della divisibilità ad altri campi, per es., come vedremo (n. 15), ad un corpo algebrico: tale proprietà infatti è condizione necessaria e sufficiente perché un qualsiasi numero del campo ammetta una scomposizione unica in fattori primi del campo.
c) "Il mass. c. d. di più numeri è uguale al prodotto di tutti i fattori primi comuni ai numeri stessi, elevato ciascun fattore al minimo degli esponenti coi quali figura nella scomposizione di ciascun numero in fattori primi". Per ottenere una tale scomposizione si ricorre a particolari regole dipendenti dal sistema di numerazione, che costituiscono i cosiddetti caratteri di divisibilità (n. 6), o a tavole di divisori (v. Bibl.).
Più numeri si dicono primi tra loro, se il loro mass. c. d. è 1. Sono particolarmente notevoli le proprietà seguenti:
d) "Un numero, che sia divisore di un prodotto di due altri e primo con uno di questi, è divisore dell'altro".
e) "Se un numero è primo coi fattori di un prodotto, esso è primo col prodotto".
Esistono infiniti multipli comuni a più numeri, il minore dicesi il loro minimo comune multiplo (min. c. m.).
f) "Dati più numeri a, b,..., c, qualunque sia il loro multiplo comune m che si considera, il quoziente m: δ, ove δ è il mass. c. d. dei quozienti m: a, m: b,..., m: c, ha sempre lo stesso valore: esso è uguale al min. c. m. dei numeri dati". Se ne deduce una regola per il calcolo del min. c. m., potendosi assumere per m, ad es., il prodotto dei numeri dati. In particolare: "il min. c. m. di due numeri è uguale al loro prodotto diviso per il loro mass. c. d.".
Il min. c. m. di più numeri si può calcolare anche in base alla scomposizione di questi numeri in fattori primi, con la seguente regola, analoga alla c):
g) "Il min. c. m. di più numeri è uguale al prodotto dei loro diversi fattori primi, elevato ciascuno al massimo degli esponenti coi quali figura nelle singole scomposizioni dei numeri dati".
3. Numeri primi. - I numeri primi sono stati argomento di numerose ricerche e hanno dato origine a teorie diverse, che si elevano dalle più elementari considerazioni alle più alte concezioni della matematica. L'esistenza d'infiniti numeri primi è stabilita nel libro IX degli Elementi di Euclide, in base a un'osservazione che viene riportata in tutti i trattati di aritmetica razionale: per quanto grande si fissi l'intero n, il numero 2 • 3 ... n + 1 è divisibile per un numero primo maggiore di n. Su considerazioni analoghe si può stabilire l'esistenza d'infiniti numeri primi della forma 4 x − 1 e di quelli della forma 6 x -1. Per diverse vie e con mezzi puramente aritmetici o algebrici, si arriva alla dimostrazione dell'esistenza d'infiniti numeri primi della forma mx + 1, e della forma mx -1; invece, per il teorema generale, enunciato da Eulero, dell'esistenza d'infiniti numeri primi della forma mx + n (m, n primi tra loro) non si conoscono dimostrazioni sostanzialmente diverse da quella del Dirichlet, fondata su considerazioni di alta analisi infinitesimale (n. 16).
La distribuzione dei numeri primi nella serie naturale è molto irregolare: esaminando le tavole, si riscontrano sempre numeri primi aventi per differenza 2, mentre può elementarmente dimostrarsi che, per quanto grande si assuma il numero m, esistono sempre numeri primi consecutivi aventi una differenza maggiore di m. In generale, le 1icerche sulla distribuzione dei numeri primi hanno condotto a studî alquanto complessi e difficili. Così non senza fatica poté essere dimostrata da P. L. Čebyšev (Tschebyscheff) l'affermazione di J. Bertrand che "tra un numero e il suo doppio è sempre compreso un numero primo". Perciò si ottengono sempre nuovi numeri primi mediante il cosiddetto crivello di Eratostene, che è l'antico procedimento per ottenere, noti i numeri primi da 2 a p, tutti quelli che sono minori di p2: si scrivono i numeri da p + 1 a p2, si cancellano quelli che sono multipli dei numeri primi da 2 a p, e restano numeri non cancellati, che sono tutti i numeri primi maggiori di p e minori di p2. La trasformazione analitica di questo procedimento ha condotto a formule, per le quali, noti soltanto i numeri non superiori alla radice quadrata di n, si esprime (secondo E. Meissel e F. Rogel) il numero dei numeri primi non superiori ad n, e anche (secondo M. Cipolla) la somma dei valori che una funzione numerica prende per tutti i numeri primi non superiori ad n.
Una proposizione che sino a oggi ha resistito ad ogni tentativo di dimostrazione, è quella enunciata da Chr. Goldbach in una lettera a L. Eulero (1742): "Ogni numero pari è la somma di due numeri primi".
Antichissima è la questione di determinare qualche proprietà caratteristica dei numeri primi su cui si possa fondare un criterio agevole per riconoscere se un numero sia primo o composto. In un'aritmetica cinese del tempo di Confucio (V-IV sec. a. C.) si legge che "il numero 2p − 2 è divisibile per p, se p è primo, e non lo è, se p è composto". Di queste due affermazioni però è vera soltanto la prima, che è un caso particolare del teorema di Fermat: "Se p è primo ed a è primo con p, allora ap-1 − 1 è divisibile per p". M. Cipolla ha, d'altra parte, risolta la questione di determinare le basi a per le quali un dato numero composto P verifica il teorema di Fermat, mostrando che, se P è dispari e non potenza di 3, esistono sempre basi a, diverse da ± 1, per le quali ap-1 − 1 sia divisibile per P, e dando per P pari i criterî per riconoscere l'esistenza di basi siffatte e, in caso affermativo, il procedimento per ottenerle. Ad es., il minimo numero composto P per cui 2p-1 − 1 sia divisibile per P è 341, uguale a 11 × 31.
La prop. inversa a quella di Fermat è valida per talune forme speciali di numeri primi. E. Lucas dimostrò invero che, "se a è primo con P, e ap-1 − 1 è divisibile per P, ma non lo è ad - 1 per nessun divisore d puro di P − 1, allora P è primo"; e ne dedusse che, "se p è primo, condizione necessaria e sufficiente perché uno qualsiasi dei numeri, P = 2p + 1, 4p + 1, 6p + 1, 10p + 1 sia primo è che 2p-1 − 1 sia divisibile per P".
Un'altra conseguenza del teorema di Lucas riguarda i numeri primi di Gauss, cioè quelli della forma 2m + 1 (m − 2n), che hanno speciale importanza nella teoria della divisione della circonferenza in parti eguali (v. cerchio): "Condizione necessaria e sufficiente perché un numero P della forma 2m + 1 (m = 2) sia primo, è che divida 3a + 1, essendo Q = 2m-1. Si conoscono soltanto cinque numeri primi della forma 2m +1 (m = 2h), corrispondenti ai valori di n da 0 a 4; sono stati invece riconosciuti composti i numeri corrispondenti ad n = 5, 6, 9, 11, 12, 18, 23, 36, 38.
Una proprietà caratteristica dei numeri primi (che però non dà un criterio agevole per riconoscere se un numero sia primo) si trae dalle seguenti due prop.: "Se p è primo, il prodotto 1.2.3... (p − 1) diviso per p dà per resto p − 1" e "se p è composto, diverso da 4, il prodotto stesso è divisibile per p". La prima proposizione va sotto il nome di teorema di Wilson, perché attribuita a J. Wilson da E. Waring, che la enunciò nelle sue Meditationes algebraicae (1770), ma le due proposizioni si trovano enunciate in un manoscritto di G.W. Leibniz; esse furono dimostrate in vario modo da Lagrange, Eulero e Gauss.
Tra i numeri primi di forma speciale sono da menzionarsi quelli della forma 2p − 1 (un tal numero non può essere primo, se non lo è l'esponente p): essi dànno origine ai numeri perfetti pari. Si dice períetto un numero eguale alla somma dei suoi divisori puri. Il più piccolo numero perfetto è 6. "Se 2p − 1 è primo, il prodotto 2p-1 (2p − 1) è un numero perfetto": questa è una prop. di Euclide (la 36a del libro IX degli Elementi); Eulero dimostrò che tutti i numeri perfetti pari sono della forma indicata da Euclide. Si conoscono finora 12 numeri perfetti pari e corrispondono a p = 2, 3, 5, 7, 13, 17, 19, 31, 61, 80, 107, 127; per tutti gli altri valori di p non superiori a 67 i corrispondenti numeri 2p − 1 sono stati riconosciuti composti. Il numero 2127 − 1, che ha 39 cifre, è il maggior numero primo finora conosciuto: esso è stato segnalato da E. Fauquembergue (in Sphinx-Oedipe, febbraio 1920). È stato dimostrato (A. Stern, 1886) che non esistono numeri perfetti della forma 4n + 3; sono invece riusciti vani finora gli sforzi per dimostrare l'inesistenza di numeri perfetti della forma 4n + 1.
4. Funzioni numeriche. - Si dice funzione numerica (o aritmetica) una funzione definita per ogni numero intero positivo n. Nella teoria della divisibilità si presentano funzioni numeriche di particolare importanza, per es.: il numero ν(n) dei divisori di n, la somma σ(n) di questi divisori, la cosiddetta funzione di Gauss Eulero, o indicatore di n, cioè il numero ϕ(n) dei numeri non superiori ad n e primi con n. Queste tre funzioni sono imprimitive, dicendosi così ogni funzione f che ha la proprietà: f(nm) = (n) f(m) per ogni coppia di numeri m, n, primi tra loro. Una funzione imprimitiva è quindi nota, se sono noti i suoi valori corrispondenti alle potenze dei numeri primi; cosicché, se, scomposto n in fattori primi, si ha n = ar bs... ct, risulta:
Sulle funzioni numeriche è stato istituito un calcolo speciale (calcolo numerico-integrale) per opera di N.W. Bugaev (Bugajeff), E. Cesàro, M. Cipolla: esso è fondato sulla nozione di prodotto integrale di due funzioni numeriche f, g, che è la funzione numerica, denotata con f x g, eguale per ogni n alla somma dei prodotti f(d) g(δ) relativi a tutte le coppie d, δ di divisori complementari di n. Il prodotto integrale ha molte analogie col prodotto aritmetico (è, per es., commutativo, associativo, distributivo rispetto alla somma), esso è imprimitivo, se tali sono le funzioni che lo compongono. La funzione numerica a (n), eguale a 1 se n = 1 e nulla per n >.. 1, è quella che non altera il prodotto integrale, ed è perciò detta l'unità integrale. Per ogni funzione f tale che f. (1) ≠ 0, esiste una ed una sola funzione f-1, detta la coniugata o l'inversa integrale di f che soddisfa alla condizione f × f-1 = a; essa è imprimitiva se tale è la f. Da f × g = h, se f(1) ≠ 0, si ricava g = h × f-1.
Si chiama integrale numerico di f (n) e si denota con ʃ f (n), la somma dei valori di f corrispondenti ai divisori di n: esso è il prodotto numerico integrale di f per la funzione υ eguale a 1 per ogni valore di n. L'integrale numerico di una funzione imprimitiva è pure una funzione imprimitiva. La coniugata di υ è la cosiddetta funzione μ di Möbius (o di Mertens), importantissima specialmente in aritmetica analitica; essa ha il valore 1 per n = 1, ed è sempre nulla per n > 1, tranne nel caso in cui n sia composto di fattori primi tutti diversi, perché allora, se k è il numero di questi fattori primi, si ha μ(n) = (- 1)k.
Il prodotto integrale f × μ si dice la derivata numerica di f e si denota con ∂f; essa è imprimitiva, se tale è la f. Si ha ∂ ʃ f = ʃ ∂ f = f, donde segue il principio d' inversione di Dedekind e Liouville: "se F è l'integrale numerico di f, allora f è la derivata numerica di F, e inversamente". Per es., essendo ʃ z (n) = n, si ha ϕ (n) = ∂n; da μ × v = α segue ʃ μ = α, quindi ∂α = μ.
Le proprietà dei prodotti integrali si applicano alla composizione somnatoria, cioè allo studio delle funzioni definite da somme del tipo Σ f (r) g [n/r], estese a tutti i valori interi di r da 1 ad n, e dove col simbolo [x] si denota la parte intera di x. Interessanti applicazioni della moltiplicazione integrale e della composizione sommatoria si fanno in aritmetica asintotica (n. 16).
5. Congruenze in generale. - La teoria della divisibilità trova ulteriore sviluppo nello studio delle congruenze tra numeri. Qui si considerano anche numeri (interi) relativi, ai quali si estendono facilmente le nozion- di multiplo e divisore (n. 2). Due numeri relativi a, b si dicono (con Gauss) congrui tra loro secondo un terzo numero m, naturale non nullo, detto il modulo (della congruenza), e si scrivea ⊄ b (mod. m), se la differenza a − b è divisibile per m; in caso contrario a, b si dicono incongrui, mod. m. Un numero relativo è sempre congruo, mod. m, ad uno, e soltanto ad uno, dei numeri 0, 1, 2, ..., m − 1, che costituiscono il cosiddetto sistema completo dei resti secondo il mod. m. Su di una congruenza si opera in modo analogo che su di un'eguaglianza; così, ad es., vale il principio del trasporto dei termini e anche quello di soppressione di un fattore comune ai due membri, purché questo fattore sia primo col modulo; due o più congruenze, secondo lo stesso modulo, possono sommarsi o moltiplicarsi membro a membro, ottenendosi una congruenza rispetto allo stesso modulo. Nella teoria delle congruenze predomina il teorema di Eulero: "Se a è primo con m, allora αϕ(m) ≡ 1 (mod. m)", dove ϕ (m) denota (n. 4) quanti dei numeri da 1 ad m sono primi con m. Ne è un caso particolare il teorema di Fermat: "Se p è primo ed a non multiplo di p, allora ap-1 ⊄ 1 (mod. p)" (cfr. n. 3).
"Il prodotto di tutti i numeri naturali primi co1i m e non superior; ad m è congruo a − 1 (mod. m), se m è 2040 potenza o il doppio di una potenza di un numero primo; ín ogni altro caso il detto prodotto è congruo a 1 (mod. m)". Questa prop. costituisce umestensione, dovuta a Gauss, del teorema di Wilson (n. 3).
Il minimo intero positivo x che soddisfa alla congruenza ax ⊄ i (mod. m), sempre che a sia primo con m, o è uguale a ϕ(m) o è un suo divisore: esso si dice (con E. Lucas) il gaussmno di m alla base α, o (con Gauss) l'esponente cui appartiene a secondo il mod. m. La successione dei resti (mod. m) delle potenze 1, a, a2,... è periodica, e il numero dei termini del periodo è uguale al gaussiano di m alla base a. La successione predetta è periodica anche se a non è primo con m, però il suo periodo non s'inizia col primo termine, come nel caso precedente, ma vi è un antiperiodo. E precisamente, se m1 è il massimo divisore di m composto di fattori primi tutti divisori di a, il numero dei termini dell'antiperiodo è uguale all'esponente della minima potenza di a divisibile per m1, e il numero dei termini del periodo è uguale al gaussiano di m/m1 alla base a. Queste proprietà si applicano alla determinazione dei caratteri di divisibilità per un dato numero m in un sistema dî numerazione (n. 6) assegnato, e alla rappresentazione, in tale sistema, dei numeri razionali.
6. Applicazioni: Radici primitive di un numero primo. Indici. Caratteri di divisibilità. Il gaussiano di un numero primo dispari p ad una base a è un divisore di p − 1, e, quando è uguale a p − 1, a dicesi "radice primitiua di p". Questa denominazione fu introdotta da Eulero, il quale fece dei tentativi per dimostrare che un numero primo ammette sempre radici primitive, proposizione importantissima, provata da Gauss con un metodo che serve al calcolo stesso di una radice primitiva. Basta la conoscenza di una sola radice primitiva di p per ottenere facilmente tutte le altre; e invero, se g è una di esse, i numeri 1, g, g2, ..., gn-1 costituiscono un sistema completo di numeri incongrui (mod. p), e di questi sono radici primitive di p tutte e soltanto le potenze di g con esponente primo con p − 1; sicché in un sistema completo di numeri incongrui (mod. p) si trovano ϕ (p − 1) radici primitive di p.
Da quanto si è detto risulta pure che fra i numeri 0, 1, 2, ..., p − 2 ve n'è uno, ed uno solo, α, tale che sia ga ⊄ a (mod. p); a dicesi l'indice di a alla base g (mod. p) e si denota con ind a (lasciando sottintesi la base e il modulo). Il calcolo degl'indici (a una data base g e secondo un dato mod. p) presenta qualche analogia col calcolo dei logaritmi; per es.: ind 1 = o, ind (a b) ⊄ ind a + ind b (mod. p − 1), ind an ≡ n ind a (mod. p − 1); quest'ultima proprietà è utile per la risoluzione delle congruenze binomie (n. 8). (Per tavole di radici primitive e di indici v. Bibl.)
La nozione di radice primitiva e di indice si può estendere al caso di un numero m eguale a 4 o potenza o doppio di una potenza di un numero primo dispari, perché solo in questi casi esistono numeri appartenenti all'esponente ϕ (m) secondo il mod. m.
La periodicità dei resti delle potenze di un numero secondo un mod. m, si applica, come s'è detto (n. 5), alla determinazione di un "carattere di divisibilità per m", cioè di una condizione cui devono soddisfare le cifre di un numero n (in un sistema di numerazione, che supponiamo sia il decimale), perché esso risulti divisibile per m. Se n è un numero di k cifre e c. è la cifra di ordine r, si ha:
vale a dire:
Denotando con ρr il resto di 10r (mod. m) - resto che può supporsi minimo in valore assoluto, perché, nel caso sia ρr > m/2 si può considerare il resto negativo ρr - m, che è congruo a ρr, (mod. m) - si ha:
Se m è primo con 10, la successione 1, ρ1, ρ2, ... è periodica semplice (cioè senza antiperiodo, v. n. 5) e il numero dei termini del periodo è uguale al gaussiano di m alla base 10; se invece m non è primo con 10, la successione è periodica mista (e per il numero dei termini dell'antiperiodo e del periodo vale la regola data al n. 5). In ogni caso, i termini della successione si dicono i coefficienti della divisibilità per m (nel sistema decimale), degli ordini 0, 1, 2.... Pertanto "un numero, rappresentato nel sistema decimale, dìviso per m dà lo stesso resto che la somma dei prodotti di ciascuna sua cifra per il coefficiente di divisibilità per m di egual ordine della cifra". Quindi il numero dato è divisibile per m allora e solo quando lo è la somma dei detti prodotti.
Per es., essendo 101 (mod. 9) e quindi anche (mod. 3), si ha n ⊄ C0 + C1 + ... Ck-1 (mod. 9) e (mod. 3); pertanto un numero è divisibile per 9 (per 3) allora e solo quando la somma delle sue cifre è divisibile per 9 (per 3). Essendo 10 ⊄ −1 (mod. 11), 102 ⊄ i (mod. 11), si ha n ⊄ Co − C1 + C2 − ... (mod. 11), e se ne trae il carattere di divisibilità per 11.
I coefficienti della divisibilità per 7 sono 1, 3, 2, −1, −3, −2 e se ne trae un carattere di divisibilità per 7, utile per numeri di molte cifre; esso può mettersi sott'altra forma, osservando che, per essere 103 ⊄ −1 (mod. 7) si ha:
7. Congruenze di primo grado ad un'incognita. - Una congruenza di primo grado ad un'incognita, cioè della forma
con a non multiplo di m, è possibile (cioè ammette soluzioni) allora e solo quando b è divisibile per il mass. c. d. δ di a ed m. Se δ = 1, allora la congruenza ammette, in conseguenza del teorema di Eulero (n. 5), una sola soluzione:
Se δ >; 1 e b è divisibile per δ, la congruenza ammette δ soluzioni, che si ottengono aggiungendo alla soluzione della congruenza
i multipli di m/δ secondo numeri 0, 1, ..., δ − 1.
La risoluzione di una congruenza di 1° grado a un'incognita, equivale alla risoluzione, in numeri interi, di un'equazione di 1° grado a due incognite, a coefficienti interi (n. 12).
La risoluzione di una congruenza secondo un modulo composto si può ricondurre a quella di congruenze secondo potenze di numeri primi (n. 10), a tal fine occorre risolvere la questione di determinare un numero x che sia congruo a più numeri dati secondo moduli assegnati:
Se i moduli m1, m2, ..., mr sono primi tra loro a due a due, il problema è sempre possibile, ed è risolto da ogni numero x che sia congruo a
essendo m = m1, m2 ... mr e μi soluzione della congruenza
Nel caso generale il problema è possibile allora e solo quando ogni differenza ai −aj è divisibile per il mass. c. d. di mi, mj. La risoluzione può in tal caso ottenersi o con un procedimento ricorrente o riducendola, al caso di moduli primi tra loro, secondo una regola data da Gauss, ma rinvenuta nel libro intitolato Tá yen (Grande generalizzazione) del cinese Sun-Tsé (III sec.). (Cfr. Bibl.).
Gauss ha mostrato, come conseguenza dei risultati ottenuti risolvendo il problema anzidetto, che una frazione irriducibile n/n, in corrispondenza ad una scomposizione del denominatore n in fattori a, b,..., c, primi tra loro a due a due, può in un sol modo mettersi sotto la forma:
con k intero relativo, ed α, β, ..., γ numeri naturali minori di a, b,..., c rispettivamente. E se n = pr, con p primo, la frazione irriducibile m/pr si può in un sol modo mettere sotto la forma:
con h intero relativo, ed a0, a1, ... ar-1 numeri naturali, minori dip.
8. Congruenze binomie. - Lo studio delle congruenze binomie della forma
essendo p primo dispari, è fondato, nelle Disquisitiones arithmeticae di Gauss, sulla teoria degl'indici (n. 6); esso è poi esteso al caso di un modulo potenza di un numero primo, riconducendosi a questo caso, in base a considerazioni generali (n. 10), l'ipotesi di un modulo composto di più fattori primi (n. 10). Se δ è il mass. c. d. di n e p − 1, la congruenza (1) è possibile solo se
e in tal caso essa ha δ soluzioni, che sono tutte quelle della congruenza xδ ⊄ aμ (mod. p), essendo μ soluzione della congruenza
Per la risoluzione della (1) si può quindi supporre n divisore di p -1. Si esprime allora la condizione (2) di possibilità (dove ora è δ = n), dicendo che a è "residuo n-ico di p." In un sistema completo di resti (mod. p) vi sono (p − 1)/n residui n-ici. Disponendo di una tavola di indici (mod. p), la risoluzione della (1) si riconduce a quella della congruenza di primo grado (n. 7): n ind ind a(mod. p − 1), da cui segue, essendo n divisore di p -1, che la condizione (1) di possibilità equivale alla condizione che n sia divisore di ind a; in tal caso gl'indici delle n soluzioni della (1) sono i numeri:
e trovati questi, dalla tavola si traggono le corrispondenti soluzioni della (1).
M. Cipolla ha risolto la questione di trovare una soluzione apiristica della (1), cioè un polinomio in a che sia soluzione della (1) tutte le volte che a sia residuo n-ico di p; ed ha pure indicato soluzioni apiristiche di forma semplice, per es., se g è una radice primitiva di p (n. 6), una soluzione apiristica è
essendo ν = (p − 1)/n e λr. soluzione della congruenza
G. Scorza ha mostrato che la ricerca di una soluzione apiristica della (1) si può ricondurre a una questione d'interpolazione e risolversi con la formula d'interpolazione di Lagrange (v. interpolazione). Anche quando il modulo è potenza di un numero primo p, sono state date da M. Cipolla soluzioni apiristiche; il loro fondamento è però diverso quando il grado n è divisibile per p. Già il Legendre aveva trovato una soluzione apiristica della congruenza x2 ⊄ a (mod. 2m); essa è stata riottenuta ed estesa, per vie diverse, al caso della congruenza xpr ⊄ a (mod. pm), p primo qualuuque, da M. Cipolla e G. Mignosi (v. Bibl.).
9. Congruenze quadratiche. - Una congruenza quadratica, cioè della forma x2 + ax × + b ⊄ 0 (mod. p), si riconduce facilmente alla forma binomia x2 ≡ q (mod. p). Quando questa è possibile, q dicesi residuo quadratico di p. Se p è primo dispari, i numeri 1, 2,..., p − 1 si ripartiscono nello stesso numero di residui e non residui quadratici di p: i primi verificano la congruenza xr ⊄ 1 (mod. p), gli altri la congruenza xν ⊄ − 1 (mod. p), essendo ν = (p − 1)/2.
Legendre introdusse il simbolo
per denotare 10 − 1 seccondo che q è residuo o non residuo quadratico di p, supposto q non multiplo di p (in caso contrario il simbolo stesso è stato posteriormente adoperato per indicare lo zero). Si ha:
ossia −1 è residuo quadratico o no di p, secondo che p è della forma 4n + 1 o 4n + 3; cioè tutti i divisori primi dei numeri della forma x2 + i sono della forma 4n + 1 (Fermat, diiuostraz. di Eulero). Il numero 2 è residuo quadratico dei numeri primi della forma 8n ± 1 e non di quelli della forma 8 n 3 (Fermat, dimostraz. di Lagrange). Il 3 è residuo quadratico dei numeri primi della forma 12n 1 soltanto, il 5 di quelli della forma 20n ± 1 e 20n ± 9. Queste prop. sono particolari conseguenze della legge di reciprocità dei residui quadratici, intravista da Eulero, dimostrata da Legendre (incompletamente) e da Gauss (con sette dimostrazioni diverse): "Se p, q sono numeri primi dispari diversi, si ha:
cioè: il carattere quadratico di q rispetto a p è uguale a quello di p rispetto a q allora e solo quando uno almeno dei due numeri p, q è della forma 4n + 1". Fra le dimostrazioni posteriori di questa importantissima proposizione sono notevoli, per la loro semplicità, quelle di A. Genocchi e L. Kronecker (v. Bibl.). Il calcolo del simbolo di Legendre si effettua assai facilmente in base alla legge di reciprocità; il procedimento richiede la scomposizione del numero superiore in fattori primi, ma questa si può evitare, dando, con Jacobi, al simbolo stesso un opportuno significato nel caso in cui il numero p inferiore sia composto ed estendendo al nuovo simbolo (simbolo di Jacobi) le proprietà del simbolo di Legendre.
Una congruenza quadratica secondo un modulo primo dispari, quand'è possibile, ammette due soluzioni, che si trovano o per mezzo di una tavola d'indici o con formule apiristiche (n. 8), e quando il modulo è composto, essa si riconduce a congruenze di 1° o di 2° grado secondo moduli primi (n. 10).
10. Contruenze a un'incognita di grado superiore al primo. - Se f(x) è un polinomio in x (funzione razionale intera della variabile a), ridotto, a coefficienti interi, la congruenza
dicesi di grado n, se n è il grado massimo dei termini di f(x) aventi un coefficiente non multiplo di m. Se m è composto di più fattori primi diversi p, q..., r (m = pα qβ... rc), ogni soluzione della congruenza considerata è pure soluzione di ciascuna delle congruenze: f(x) ⊄ 0 (mod. pa) f(x) ⊄ 0 (mod. qβ), ...,f(x) ⊄ (mod. rγ).
D'altra parte, se ξ, η, ..., ζ, sono rispettive soluzioni di queste, si può determinare (n. 7) un numero x0 congruo a ξ (mod. pa), a η (mod. qβ), ..., a ζ(mod. rγ), e perciò soluzione della (2) e quindi della (1). In questo modo la risoluzione di una congruenza secondo un modulo composto di più fattori primi è ricondotta alla risoluzione di congruenze secondo moduli potenze di numeri primi. Ora le soluzioni di una siffatta congruenza: f(x) ⊄ 0 (mod. pa), se esistono, sono anche soluzioni della congruenza f(x) ⊄ 0 (mod. p); inversamente, se ξ è una soluzione di quest'ultima, lo è pure ξ + py, qualunque sia l'intero y; si cercherà allora di determinare questo in modo che e py sia soluzione di f(x) ⊄ 0 (mod. p2). Poiché, secondo la formula di Taylor per i polinomî, si ha: f(ξ + py) ⊄ f(ξ) + pyf′(ξ) (mod. p2), essendo f′ (x) la derivata di f (x), la congruenza precedente avrà soluzioni allora e solo quando è possibile la congruenza di primo grado in y:
Questa ammette una soluzione sola se f′(ξ) non è divisibile per p, in caso contrario ammette p soluzioni o nessuna secondo che f(ξ) è divisibile o no per p2. Determinate le soluzioni della congruenza f(x) ⊄ 0 (mod. p2), con procedimento analogo si risale a quelle di f(x) ⊄ 0 (mod. p3), e così via.
Se p è un numero primo dispari, poiché (teor. di Fermat, n. 5) x° ⊄ x (mod. p), si può supporre che il grado n della congruenza f(x) ⊄ 0 (mod. p) sia minore di p; questa allora non può ammettere più di n soluzioni. Ridotto poi ad 1 il coefficiente di xf in f(x), se R(x) è il resto della divisione di xp − x per f(x), le soluzioni deha data sono anche soluzioni della congruenza R (x) ⊄ 0 (mod. p). Perché, allora, la data abbia n soluzioni, cioè tante quantiè il grado, occorre e basta che R (x) sia identicamente congruo a zero (mod. p), vale a dire tutti i suoi coefficienti siano multipli di p. In base a ciò, per ottenere una congruenza che abbia tutte le soluzioni della data e grado eguale al loro numero, si segue un procedimento che non differisce da quello per la ricerca del mass. c. d. di xr - x ed f(x) tranne che per l'esclusione, nei resti, dei termini coi coefficienti multipli di p. Un'espressione del numero delle soluzioni per mezzo dei coefficienti di f(x) fu data da A. Hurwitz (v. Bibl.). La teoria delle congruenze ad un'incognita, di grado superiore, fu sviluppata da A. L. Cauchy, E. Galois e Th. Schönemann; essa però era stata già studiata da Gauss (memoria postuma: Werke, II, p. 212).
11. La divisibilità, secondo un modulo primo, nel campo dei polinomî, e gl'immaginarî di Galois. - Con la teoria delle congruenze di grado superiore s'inizia lo studio della divisibilità nel campo dei polinomî, secondo un modulo primo, studio che conduce il Galois all'introduzione dei suoi immaginarî e all'istituzione di un'aritmetica più generale dell'ordinaria. Rispetto poi allo stesso modulo primo, la teoria delle congruenze in questo nuovo campo dà un esempio istruttivo di aritmetica in un corpo finito secondo le recenti vedute di B. Levi, L. E. Dickson, G. Scorza (cfr. G. Scorza, Corpi numerici ed algebre, Messina 1921).
Un polinomio in x (a coefficienti interi) f(x) si dice divisibile, secondo un modulo primo p, per un altro ϕ(x), se esiste un terzo polinomio ψ (x) tale che sia, per ogni x:
Se i gradi dei polinomî si suppongono minori di p, com'è sempre lecito per il teorema di Fermat: xp ⊄ x (mod. p), la (1) esprime che i coefficienti del primo membro sono congrui (mod. p) ai coefficienti di egual grado del secondo membro.
Si dice primario un polinomio f(x), quando il coefficiente del suo termine di grado massimo è congruo ad 1 (mod. p), e un polinomio primario si dice irriducibile o primo (mod. p), se non ammette una scomposizione come la (1), con ϕ(x) e ψ(x) primarî. Un polinomio primario, se non è primo (mod. p), ammette una scomposizione unica in prodotto di polinomi primi (mod. p).
Se f(x) - g (x) è divisibile per F(x) (mod. p), si dice che f(x) è congruo a g (x), secondo il doppio modulo p ed F (x), e ciò si esprime con la notazione
Se F(x) è di grado μ, i polinomi primarî si ripartiscono in più classi, se in una stessa classe si pongono tutti quelli che sono congrui tra loro (modd. p, F(x)). Scegliendo un solo polinomio per ogni classe, si ha un sistema completo di resti, cioè di pμ polinomî incongrui (modd. p, F(x)). Se α, β,..., γ sono i gradi dei polinomî primi che compongono F(x), e si pone:
nel sistema completo vi sono P polinomî primi con F(x), cioè che non hanno in comune con F(x) alcun divisore (mod. p) oltre l'unità, e se f(x) è uno di questi, si ha:
In particolare, se F (x) è primo, si ha:
ed assumendo f(x) = xi
Si ha così un'estensione del teorema di Fermat-Eulero (n. 5); come pure si ha un teorema analogo a quello di Wilson. Si estendono poi ai polinomî, secondo il doppio modulo p, F(x), le nozioni di gaussiano e di radice primitiva, e i relativi teoremi: ad. es., se f(x) è radice primitiva (modd. p, F (x)), le potenze
formano un sistema completo di resti (modd. p, F (x)).
Ogni congruenza irriducibile g(x) ⊄ 0 (modd. p, F(x)), essendo F (x) primo (mod. p) e di grado μ, o ha tante soluzioni quant'è il suo grado o non ammette alcuna soluzione; ha luogo la prima o la seconda alternativa secondo che il grado di g (x) divide o no il grado μ di F(x). Si arriva quindi a stabilire che per ogni polinomio g (x) di grado m (mod. p) si può considerare un polinomio F(x) primo (mod. p) tale che la congruenza g (x) ⊄ 0 (modd. p, F(x)) abbia m soluzioni (v. Bibl.).
Alla teoria delle congruenze di grado superiore il Galois (v. Bibl.) diede un aspetto più semplice mediante l'introduzione di nuovi enti numerici, i cosiddetti immaginarî di Galois. Se F(x) è un polinomio primo (mod. p) e di grado μ, maggiore di 1, la congruenza F (x) ⊄ 0 (mod. p) non ha soluzioni. In tal caso Galois dice che essa ammette una soluzione immaginaria, che denota col simbolo i (nulla vieta, per il calcolo che ne nasce, supporre che i sia radice dell'equazione irriducibile F (x) = o). I polinomî in i, a coefficienti interi sono gl'immaginarî di Galois, e su di essi si opera secondo le ordinarie regole di calcolo aritmetico e algebrico.
La teoria delle congruenze, secondo il dtippio modulo p, F(x), si trasforma nella teoria delle congruenze fra gl'immaginarî di Galois secondo il mod. p. Se nell'espressione o0 + a1 i + a2 i2 + aμ + iμ si fa percorrere a ciascun cuefficiente un sistema completo di resti (mod. p), si ottiene un sistema completo di pμ immaginarî di Galois, incongrui (mod. p).
La congruenza fondamentale F (x) ⊄ o (mod. p) ammette le soluzioni: i, ip, ip2, ..., ipμ-1. Ogni immaginario di Galois appartiene ad un esponente n divisore di pu − 1, cioè: il minimo intero positivo n che soddisfa alla congruenza [g(i)]h ⊄ i (mod. p) è un divisore di pμ − 1; se n = pμ − 1, g (i) dicesi radice primitiva di p. In un sistema completo d'immaginarî di Galois incongrui (mod. p) esistono ϕ(pμ − 1) radici primitive di p (essendo ϕ la funzione di Gauss-Eulero, n. 4).
Il numero m cui conviene g(i), cioè il minimo intero positivo m per cuì si ha [g(i)]pm 1 ⊄ (mod. p), è un divisore di μ, e le potenze:
sono tutte le soluzioni (di una congruenza irriducibile G (x) ⊄ 0 (mod. p), di grado m. Ne risulta che qualsiasi funzione simmetrica di queste potenze è congrua (mod. p) a un numero intero; inversamente, ogni congruenza a un'incognita, a coefficienti interi, soddisfatta da g (i), è pure soddisfatta dalle dette potenze.
Una congruenza irriducibile G(x) ⊄ 0 (mod. p) ha, nel campo degl'immaginarî di Galois, tante soluzioni quant'è il suo grado, o nessuna soluzione secondo che il grado stesso è o no un divisore di μ. Qualunque sia poi la congruenza G (x) ⊄ 0 (mod. p), si può sempre determinare un polinomio F (x) primo (mod. p) tale che, nel campo degl'immaginarî di Galois definiti da p ed F(x), la congruenza abbia tante soluzioni quant'è il suo grado (v. Bibl.).
12. Analisi indeterminata di primo grado. - Il problema fondamentale dell'analisi indeterminata di grado n consiste nella risoluzione, in numeri interi, di un'equazione (o di un sistema di equazioni) della forma f(x, y,..., z) = 0, essendo f(x, y,..., z) un polinomio di grado n, a coefficienti interi, nelle indeterminate x, y,..., z. Il problema, in generale, si riattacca a teorie elevate: alle teorie delle forme algebriche, dei gruppi di trasformazioni, e, in particolare, delle sostituzioni lineari, alla teoria delle funzioni automorfe, ecc., su cui non è possibile qui intrattenerci. Ci limitiarno a dar notizia dei casi più semplici, e cioè dei problemi di analisi indeterminata di 1° e di 2° grado a due incognite, accennando a taluni problemi classici di grado superiore.
La risoluzione di una congruenza a un'incognita f(x) ⊄ 0 (mod. m) non è che un problema particolare di analisi indeterminata a due incognite: la risoluzione in numeri interi dell'equazione f (x) - my = 0. In particolare la risoluzione in numeri interi del'equazione ax + by = c equivale a quella della congruenza ax ⊄ c (mod. b). La condizione di possibilità si esprime quindi (n. 7) dicendo che il mass. c. d. δ di a e b dev'essere un divisore del termine noto c. Supposta verificata questa condizione, l'equazione si riduce ad avere i coefficienti primi tra loro, dividendo ambo i membri di essa per δ; sia dunque δ = 1, e x0, x0 una soluzione, allora ogni altra soluzione è data da x = x0 − bk, y = y0 + ak, essendo k un intero relativo qualunque. Una soluzione x0, y0 si può sempre trovare col metodo delle congruenze (n. 7) o con lo sviluppo in frazione continua di b/a (v. frazioni): i termini della penultima ridotta, moltiplicati per c e presi con segni convenienti, dànno una soluzione dell'equazione. Questo metodo fu esposto, ed esteso anche ad equazioni lineari (cioè di primo grado) a più di due incognite da L. Eulero; ma la risoluzione di equazioni lineari particolari, con procedimenti varî, si trova già nell'Aritmetica di Diofanto (n.1). L'estensione ai sistemi di equazioni lineari fu compiuta da G. Frobenius (v. Bibl.).
Fra i problemi di analisi indeterminata sono da annoverarsi quelli di partizione, che trattano della scomposizione di un numero intero nella somma di due o più altri, soggetti o no a speciali condizioni. Le ricerche fatte in proposito da Eulero sono state estese da J. J. Sylvester, A. Cayley, P. A. MacMahon ed altri, con mezzi non sempre elementari.
13. Analisi indeterminata di secondo grado. - Il problema della risoluzione in numeri interi di un'equazione di 2° grado in due incognite (a coefficienti interi) si riconduce al problema della rappresentazione di un numero mediante una forma binaria quadratica cioè con un'espressione del tipo ax2+ 2bxy + cy2, che suole indicarsi con (a, b, c). Questo problema fu risolto in tutta la sua generalità da Lagrange, e poi ripreso e completato da Legendre, e specialmente da Gauss, che lo perfezionò in varî punti. Riguardo a una forma (a,b, c), ha fondamentale importanza il numero b2 − ac, detto il determinante della forma. Due forme (quadratiche) si dicono equivalenti se l'una si può trasformare nell'altra mediante una sostituzione unimodulare, cioè cambiando le indeterminate x, y in ax + βy, γx + δy, con α, β, γ, δ interi relativi soddisfacenti alla condizione αδ − βγ = ± 1. Forme equivalenti hanno lo stesso determinante; forme equivalenti a una terza sono equivalenti fra loro. Se le infinite forme di dato determinante D si ripartiscono in classi, ponendo in una stessa classe tutte quelle che sono equivalenti fra loro, risulta sempre finito il numero h di queste classi.
I problemi fondamentali della teoria dell'equivalenza delle forme (quadratiche) sono i due seguenti:
A) Date due forme d'eguale determinante, riconoscere se sono equivalenti.
B) Se due forme sono equivalenti, trovare tutte le sostituzioni (unimodulari) che trasformano l'una nell'altra. Questo problema si riconduce al seguente:
C) Data una forma, trovare tutte le sostituzioni che la trasformano in sé stessa. Tali sostituzioni costituiscono il cosiddetto gruppo automorfo della forma.
Il problema della rappresentazione di un numero mediante una forma si risolve completamente con la risoluzione dei problemi A) e C), come vedremo più innanzi.
La risoluzione di C) equivale alla risoluzione in numeri interi dell'equazione di Fermat (detta anche, ma impropriamente, di Pell):
essendo D il determinante della forma (a, b, c), σ il cosiddetto divisore di essa, cioè il mass. c. d. di a, 2b, c. I coefficienti α, β, γ, δ di una sostituzione qualsiasi del gruppo automorfo della forma si esprimono per una soluzione t, u della suddetta equazione con le formule:
Ma la risoluzione della (1) è diversa secondo che D è negativo o positivo. Se D 〈; 0 (forma definita) la (1) ha un numero finito di soluzioni (2 o 4 0 6) ed è finito quindi il gruppo automorfo della forma.
Se D >; 0 (forma indefinita), la (1) si risolve, secondo il metodo di Lagrange, cercando (per tentativi o con lo sviluppo di √D in frazione continua) la minima soluzione positiva, detta soluzione fondamentale; deuotando questa con (t1, u1), la soluzione generale (tu, υn) si ottiene ponendo:
Si possono ottenere anche direttamente le sostituzioni del gruppo automorfo, sviluppando in frazione continua la cosiddetta prima radice dell'equazione a w2 + 2bω + c = 0, vale a dire (− b + √D) : a. Questo metodo, però, non differisce sostanzialmente dal precedente; altri metodi sono fondati sulla teoria della divisione della circonferenza o sulle funzioni ellittiche.
Anche la risoluzione del problema A) si effettua diversamente secondo che D è negativo o positivo. Se D 〈; 0, esiste in ogni classe di forme equivalenti, con determinante D, una, ed una sola forma, detta ridotta, i cui coefficienti A, B, C soddisfino alle condizioni C >; A ≥ 2 ∣ B ∣, 2B ≠ −A, oppure alle altre: C = A >; 2 ∣ B ∣, B >; 0, e si può sempre trovare una sostituzione modulare che muti la forma (a, b, c) in una ridotta; cosicché, per riconoscere se due forme a determinante D negativo sono equivalenti, basta vedere se si trasformano nella stessa ridotta.
Se D >; 0, si sviluppano in frazione continua le prime radici w, ω′ delle equazioni aw2 + 2bω + c = 0, a′ω2 + 2b′ω + c′ = 0, corrispondenti alle forme date (a, b, c), (a′, b′, c′), e se a1, a2,... sono i quozienti parziali della prima frazione, e bi, b2,... quelli della, seconda, perché le due forme siano equivalenti occorre e basta che esistano due indici r,s della stessa parità, tali che si abbia ar+i = b8+l, per ogni i = o, 1, 2, ..
Vediamo ora come il problema della rappresentazione di un dato numero m mediante una forma assegnata (a, b, c) si riconduce ai problemi A) e B) o C). Intanto è necessario, per la rappresentabilità, che il determinante D della forma sia residuo quadratico di m (n. 9). Soddisfatta questa condizione, la congruenza x2 ≡ D (mod. m) avrà un numero finito di soluzioni; se n è una di queste, è determinato un numero p tale che sia n2 = D + mp. Allora la forma (m, n, p) ha lo stesso determinante D della data, e se esse sono equivalenti, ed α, β, γ, δ sono i coefficienti della sostituzione che trasforma (m, n, p) in (a, b, c), poiché la prima rappresenta m (per x = 1,7 = 0), anche la seconda rappresenta m (per x = α, y = γ). Se la forma (m, n, p) non è equivalente alla data, si considera un'altra soluzione n′ della congruenza, e si continua analogamente sino a esaurire le soluzioni di questa. Si riconosce così che m è rappresentabile con la forma (a, b, c) allora e solo quando esiste una forma della stessa classe di (a, b, c) che abbia m per primo coefficiente.
Applicando questa teoria alla rappresentazione di un numero m mediante la forma x2 + y2, si ottiene l'importante risultato: "Un numero dispari m è rappresentabile come somma di due quadrati (primi tra loro) allora e solo quando i suoi fattori primi sono tutti congrui a 1 (mod. 4), e se k è il numero di questi fattori primi diversi, m ammette 2k-1 rappresentazioni distinte come somma di due quadrati". In particolare: "Un numero primo della forma 4n + 1 è rappresentabile sempre, e in un sol modo, come somma di due quadrati". Quest'ultimo teorema fu enunciato da Fermat, e dimostrato ed esteso a casi analoghi da Eulero e Lagrange; ma i risultati delle loro ricerche rientrano, come casi particolarissimi, nel seguente teorema di Dirichlet: "Il numero totale delle rappresentazioni di un numero εn (n dispari, primo con D, ε = 1 o 2) mediante tutte le forme (a, b, c) di determinante D e Primitive (cioè con a, b, c primi tra loro) k uguale a k,
dove k = 1 se D >; 0, k = 4 se D − 1, k = 6 se D= −3 ed ε = 2, e k = 2 in ogni altro caso"; (il simbolo
indica l'integrale numerico, rispetto ad n (n. 4) della funzione
di Legendre-Jacobi; cfr. n. 9).
La teoria aritmetica delle forme binarie quadratiche è stata interpretata geometricamente in vario modo da H. Minkowski, F. Klein e altri; essa è stata estesa alle forme quadratiche ternarie (dopo Gauss e Dirichlet, da H. J. Smith, Ch. Hermite, H. Poincaré, E. Picard) e anche alle forme ad n variabili (C. Jordan, H. Poincaré, H. Minkowski, e altri), ma per l'ampiezza degli sviluppi occorrenti non è possibile qui intrattenerci su queste estensioni. Ci limiteremo a far cenno di alcune particolari questioni classiche.
14. Problemi classici di analisi indeterminata di grado superiore:
a) Il problema di Waring. - Le proposizioni seguenti: "ogni numero congruo a 1, 2, 3, 5, 6 (mod. 8) è rappresentabile come somma di tre quadrati (Legendre, Dirichlet)"; "ogni numero si può scomporre in una somma di quattro quadrati (Lagrange)", sono casi particolari della proposizione enunciata da E. Waring: "ogni numero naturale è somma di un certo numero k di potenze nime (k dipendente soltanto da n)". La determinazione o la limitazione di k, per un esponente n assegnato, ha dato origine a varie ricerche, ma la dimostrazione generale del teorema si deve a D. Hilbert (1909).
b) L'equazione pitagorica; triangoli di Fermat e di Torricelli. - La risoluzione in numeri interi dell'equazione pitagorica: x2 + y2 − z2 (che esprime la nota relazione tra i cateti e l'ipotenusa di un triangolo rettangolo) ha dato origine a numerose ricerche fin dall'antichità. Particolari sistemi di numeri pitagorici (son dette così le soluzioni dell'equazione) furono dati da Pitagora e Platone, ma la soluzione generale trovasi nell'Aritmetica di Diofanto (n.1), ed è: x = m2 − n2, y = 2 mn, z = m2 + n2, essendo m, n numeri naturali (m >; n). La soluzione è primitiva, cioè formata da numeri primi tra loro, quando m, n sono primi tra loro e di parità diversa.
La questione di trovare un triangolo rettangolo i cui lati sono misurati da numeri interi in modo che l'ipotenusa sia un quadrato, e così pure la somma dei cateti, fu proposta da Fermat nella sua 2ª osservazione alla questione 24ª del libro VI di Diofanto. Egli ne ricondusse la risoluzione a quella (in numeri interi) dell'equazione 2 X4 - Y4 - Z2, assegnando anche un procedimento mediante il quale da una soluzione qualunque (per es., da X = Y = Z = 1) se ne ottengono altre due. Eulero mostrò come le soluzioni di quest'ultima siano legate alla risoluzione delle due equazioni X4 − 2Y4 = Z2, X4 + 8 Y4 − Z2, ma un procedimento sistematico per la risoluzione avvicendata di tutte e tre le equazioni fu dato da Lagrange. Formule di ricorrenza per la risoluzione della prima furono indicate da V. A. Lebesgue; esse però hanno l'inconveniente di non dare soluzioni primitive; perfezionandole in questo senso, M. Cipolla ha indicato un procedimento abbastanza semplice per la risoluzione completa ed autonoma di ciascuna equazione, ed ha pure risolto il problema di Torricelli di "trovare fra i triangoli di Fermat quelli in cui la somma dell'ipotenusa e del cateto maggiore è pure un quadrato". Esistono infiniti triangoli torricelliani, la minima delle loro ipotenuse è data da un numero di 165 cifre (v. Bibl.).
c) L'ultimo teoria di Fermat. - A ricerche numerose ha dato anche origine l'equazione xp + yp = zp, che si riduce alla pitagorica per p = 2. Fermat, commentando la questione 8ª del libro II di Diofanto (relativa all'equazione pitagorica), afferma che per p >; 2 non esistono soluzioni intere dell'equazione suddetta, e si rammarica che il margine del testo sia insufficiente per contenerne la dimostrazione. È questo il cosiddetto ultimo teorema di Fermat. Esso è stato finora dimostrato solo per valori particolari di p, per p = 3 (Eulero), 5 (Dirichlet), 7 (Lamé e Lebesgue), per p ≤ 100 (Kummer), per p ≤ 7000 (Dickson). Notevoli sono in proposito le ricerche di Kummer, fondate sulla teoria della divisibilità in un corpo circolare (n. 15), e le più recenti di Furtwängler e di altri, che hanno condotto a risultati notevoli; per es.: se p è primo e i numeri x, y, z soddisfano all'equazione di Fermat senza che nessuno di essi sia divisibile per p, dovrà essere 2p-1 − 1 divisibile per p2 (Wieferich) ed anche 3p-1 − 1 divisibile per p2 (Mirimanov); e se inoltre x, y, z sono numeri primi tra loro e p >; 3, dovrà essere xp ≡ x, yp ⊄ y, zp ≡ p (mod. p3) (Wandiver)". (V. Bibl.).
15. La teoria dei numeri in un corpo algebrico. - Acquisito definitivamente dalla scienza matematica il concetto di numero complesso con le fondamentali ricerche di Gauss e Cauchy, si riconobbe che la teoria della divisibilità numerica, fin allora limitata agl'interi razionali, poteva essere trasportata in altri gruppi di numeri riproducentisi (come gl'interi razionali) mediante le operazioni di addizione, sottrazione e moltiplicazione, gruppi detti oggi campi d'integrità. Un primo studio in questo senso fu fatto da Gauss con la sua Theoria residuorum biquadraticorum, in cui la teoria della divisibilità viene estesa ai numeri complessi della forma a + bi, essendo i l'unità immaginaria e a, b razionali interi. Per questi numeri complessi, detti interi di Gauss, vale un algoritmo delle divisioni successive, analogo a quello euclideo per la determinazione del mass. c. d., e per conseguenza valgono, per la divisibilità, leggi perfettamente analoghe alle ordinarie, come quella principatissima dell'unicità della scomposizione di ogni numero del campo in fattori primi. Chiamando, come si fa per un numero complesso qualunque, norma di a + bi il numero a2 + b2, e denotandola con N(a + bi), si dimostra che, "se α, β sono interi di Gauss ed è N (a) ≥ N (β), si può determinare un altro intero γ tale che sia N (α − βγ) ≥ N (β)/2". Questa è la proposizione fondamentale che conduce all'algoritmo suddetto, col quale si giunge a determinare un numero δ, divisore comune di a, β e multiplo di ogni loro divisore comune, e perciò divisore comune di massima norma: questo δ dicesi il massimo comun divisore di α, β.
Se δ è un'unità del campo di Gauss, cioè uno dei numeri 1, − 1, i, - i, allora α, β si dicono primi tra loro. Un numero α è sempre divisibile per le quattro unità e pei suoi quattro associati: α, − α, i α, − i α; e se α non ammette altri divisori e non è un'unità, a si dice indecomponibile, o anche primo, in quanto ha la proprietà (che non sempre vale in un campo qualunque di integrità) di non poter dividere un prodotto se non divide uno dei fattori; α si dice composto, se non è né primo né unità. Un numero composto è scomponibile in fattori primi, e questa scomposizione è unica (non considerando distinte due scomposizioni differenti soltanto per fattori associati)".
I numeri primi del campo di Gauss sono di due specie: i numeri primi reali della forma 4n +3, e i numeri immaginarî la cui norma è un numero primo razionale; fra questi uno solo (i + i e i suoi associati) ha la norma 2, gli altri hanno per norma un numero primo razionale della forma 4n + 1 (un tal numero è sempre composto nel campo di Gauss, perché [n. 13] un numero della forma 4n + 1 è sempre la somma di due quadrati). Agl'interi di Gauss si estende la teoria delle congruenze (valgono, per es., teoremi analoghi a quelli di Fermat-Eulero e di Wilson [n. 5], si ha pure una legge di reciprocità pei residui quadratici, ecc.), si estende anche l'analisi indeterminata, con sviluppi su cui non è possibile qui intrattenerci.
Analoghe estensioni fecero Jacobi ed Eisenstein al campo d'integrità costituito dai numeri della forma a + bσ, essendo a, b razionali interi qualunque e σ-radice cubica immaginaria dell'unità: σ = (− 1 + i √3)/2. Anche in questo campo vale un algoritmo euclideo, e quindi si hanno per la divisibilità teoremi analoghi a quelli del campo razionale e del campo di Gauss; in particolare l'unicità della scomposizione di un numero in fattori primi. Questi sono di due specie: i numeri primi reali della forma 6 n - 1 e il 2, e quelli immaginarî che son fattori dei numeri primi reali della forma 6 n + 1.
Procedendo però allo studio dei campi d'integrità dei cosiddetti corpi circolari che sono determinati dalle radici nime dell'unità, il Kummer per la prima volta veniva a notare che non tutte le leggi della divisibilità si mantenevano e che i numeri indecomponibili del campo potevano anche mancare delle proprietà essenziali dei numeri primi: p. es., la scomposizione di un numero in fattori indecomponibili poteva effettuarsi in più modi. Tale ostacolo, che pareva dovesse rendere inutili gli sforzi per estendere l'aritmetica ai campi superiori d'integrità, fu superato da Kummer con l'introduzione di numeri ideali, che non sono enti del campo, ma di campi ampliati, e servono a ristabilire completamente le leggi ordinarie della divisibilità. Questo scopo però è stato raggiunto per altra via, valida per qualunque campo algebrico (di grado finito, v. più innanzi), dal Kronecker e dal Dedekind. Ai numeri ideali di Kummer il Dedekind (del quale ci limitiamo qui ad esporre l'indirizzo) ha sostituito delle classi d'infiniti numeri del campo, cui ha dato il nome di ideali. Per intendere questo concetto, premettiamo che dicesi numero algebrico ogni numero ϑ (reale o immaginario) che sia radice di un'equazione F(x) = 0, dove F(x) è una funzione razionale intera, a coefficienti razionali, anzi, com'è sempre lecito supporli, interi e primi tra loro. Fra le infinite equazioni analoghe cui ϑ soddisfa, ve n'è una sola di minimo grado: f(x) = 0 (f(x) è irriducibile, cioè non può spezzarsi nel prodotto di due altre funzioni intere a coefficienti interi), e se n è il grado di f(x), n si dice il grado di ϑ. Le altre radici dell'equazione stessa diconsi i numeri coniugati a ϑ. Se il coefficiente del termine di grado (massimo) n di f(x) è 1, si dice intero (algebrico, di grado n).
I numeri algebrici si riproducono mediante le quattro operaaziomi aritmetiche fondamentali; formano perciò un campo di razionalità o corpo (numerico): il corpo totale dei numeri algebrici. I numeri interi algebrici si riproducono per somma, differenza e prodotto: formano il campo algebrico totale d'integrità. Si dice unità algebrica ogni intero algebrico ε il cui inverso ε-1 è pure intero. Vi sono infinite unità algebriche. Ogni intero algebrico a, non unità, ammette infiniti divisori non unità (come, ad es., la radice quadrata, cubica, ecc. di a) vengono quindi a mancare al campo totale le leggi fondamentali dell'aritmetica razionale, e si manifesta la necessità di considerare corpi più ristretti.
Un corpo K di numeri algebrici si dice di grado n quando in esso n, ma non più di n, numeri distinti e non nulli sono linearmente indipendenti, cioè quando una relazione come k1 ω1 + k2 ω2 + ... + km ωm = 0, con k1, k2,..., km razionali interi non tutti nulli, ed ω1, ω2, ..., ωm numeri non nulli in K, non può aver luogo per m >; n, e ha luogo per m = n per una opportuna scelta della ω. Esiste allora in K un numero ϑ di grado n, tale che ogni numero α di K è rappresentabile sotto la forma a0 + a1ϑ + a2 ϑ2 + ... + αn-1 ϑn-1, con a0, a1,... razionali.
Poiché ogni numero di questa forma è in K, K è determinato da ϑ, e percib si usa denotarlo con K(ϑ). Il grado di un numero α di K (ϑ) è un divisore del grado n di K (ϑ). Il prodotto di α pei suoi coniugati è un numero intero razionale, che si dice la norma di α e si denota con N(α). Se anche β è in K (ϑ) si ha N(α β) = N(α) N(β). Se α, β sono interi di K (ϑ), si dice α divisibile per β se il quoto α : β è intero (algebrico); per questo è necessario (ma non sufficiente, in generale) che N(α) sia divisibile per N(β). La ricerca delle unità del corpo K (ϑ) si riduce ad un problema di analisi indeterminata di grado n, e si deve a Dirichlet il risultato fondamentale che un corpo qualunque di grado n ammette sempre infinite unità, eccettuato il corpo razionale (n = 1) e i corpi quadratici immaginarî, cioè generati dalla radice quadrata di un numero razionale intero negativo. Moltiplicando un numero α del corpo per una qualsiasi unità di esso, si ottiene un associato di α. Se α è intero e non è divisibile che soltanto pei suoi associati e per le unità, allora α si dice indecomponibile in K (ϑ). Un intero del corpo ammette un numero finito di decomposizioni in fattori indecomponibili (non considerando, al solito, come distinte due decomposizioni differenti soltanto per fattori associati), ma la decomposizione, in generale, non è unica. Per ristabilire le leggi fondamentali della divisibilità, s'introduce allora la nozione di ideale.
Si dice ideale una classe A d'infiniti numeri (interi, come da ora innanzi supporremo sempre) del corpo, soddisfacenti alle due condizioni:1. la somma e la differenza di due numeri qualunque in A sono in A; 2. il prodotto di un numero qualunque in A per qualsiasi intero del corpo è in A.
Per conseguenza, l'insieme di tutti i numeri di K (ϑ) che sono multipli di un dato numero α di K(ϑ), costituiscono un ideale; esso denotasi con (α) e dicesi l'ideale principale generato da α. Evidentemente l'ideale (1) è l'intero campo I d'integrità di K (ϑ): esso dicesi l'ideale unità. Ogni ideale A, se non è principale, è somma di un certo numero r d'ideali principali, nel senso che in A esistono r numeri a1, a2,..., ar (generatori di A) tali che ogni numero in A è della forma λ1 α1, + λ2 α2 + ... λr αr, dove le λ sono interi arbitrarî del corpo; anzi in A si possono scegliere n numeri linearmente indipendenti β1, β2, ... βn, tali che ogni numero di A abbia la forma h1 β1 + h2 β2 + ... hn βn, dove le h sono razionali interi qualunque: si dice allora che β1, β2, ... βn costituiscono una base di A. Esistono quante si vogliano basi di A: esse hanno tutte lo stesso discriminante (quadrato del prodotto di tutte le differenze βr − β8; r, s = 1, 2, ..., n; r ≠ s). Il discriminante di una base di I è il cosiddetto numero fondamentale del corpo K (ϑ); σε ςυεστο νυμερο σι δενοτα γον D, e il discriminante di una base di A con Δ, il quoto Δ: D è il quadrato di un numero razionale intero positivo che si dice la norma dell'ideale A e si denota con N(A).
Se ai numeri del corpo K (ϑ) si sostituiscono i corrispondenti ideali principali, e si aggregano a questi le loro somme, che sono pure ideali, si potrà fare su tali enti un'aritmetica in cui valgano le leggi fondamentali della divisibilità. In primo luogo è da definirsi il prodotto di due ideali. Si dice prodotto di due ideali principali (α), (β), l'ideale principale (αβ). In generale, se A = (α1) + (α2) + ... + (αr), β = (β1) + (β2) + ... + (β) si dice prodotto di A per B, e si denota con AB, l'ideale somma degl'ideali principali (αi βi) prodotti di ogni termine di A per ogni termine di B. La definizione di prodotto si estende al caso di più fattori e si riconosce immediatamente che il prodotto di più ideali è commutativo e associativo. Un ideale qualunque A si può moltiplicare per un ideale B tale che AB sia un ideale principale generato da un numero razionale intero; questa proposizione può servire, p. es., per dedurre la legge di semplificazione del prodotto: se A C = A C1, allora C = C1.
La definizione di potenza, ad esponente intero positivo, di un ideale si dà nel modo stesso che pei numeri, e se ne traggono le ordinarie regole di calcolo per le potenze.
Si dice che l'ideale A è divisibile per l'ideale B, o è multiplo di B, se esiste un ideale C tale che sia A = B C; si dice allora che B è divisore di A. E condizione necessaria e sufficiente perché A sia divisibile per B è che A sia contenuto in B. Se A è divisibile per B, la norma di A è divisibile per la norma di B; vi è un numero finito d'ideali di data norma, quindi un ideale ammette un numero finito di divisori. Un ideale, diverso dall'ideale unità; o è divisibile solo per sé stesso e per l'ideale unità, e allora si dice primo, altrimenti si dice composto.
Un ideale composto si scompone in un prodotto d'ideali primi, e tale scomposizione è unica. Se P è un ideale primo, il minimo numero naturale p contenuto in P è un numero primo, e N(P) = pr; con r intero positivo non maggiore del grado n del corpo: r si dice il grado di P.
L'ideale D, che ha per numeri generatori quelli di A e di B, è divisore di A e B, ed è divisibile per ogni divisore comune di A e B, esso si dice pertanto il massimo comun divisore di A e B. Se D si riduce all'ideale unità, allora A e B si dicono primi tra loro.
L'insieme di tutti i numeri comuni ad A e B è un ideale M, multiplo comune di A e B, e divisore di ogni loro multiplo comune; esso si dice pertanto il minimo comune multiplo di A e B.
Dopo ciò si estendono agl'ideali del corpo K(ϑ) le leggi e le proposizioni fondamentali della divisibilità ordinaria, in particolare, la teoria delle congruenze. In questa teoria si suol dire, per brevità, che un numero α del corpo K (ϑ) è divisibile per un ideale A quando lo è l'ideale (α); cioè quando α è in A. Come pure si usa dire che α è primo con A, a è scomposto in fattori ideali, ecc., quando ciò avviene per l'ideale (α).
Si dice che α è congruo a β, secondo il modulo A, e si scrive α ⊄ β (mod. A), quando α − β è divisibile per A (ossia α − β è in A).
Ogni sistema completo di numeri incongrui (mod. A) è costituito da N (A) elementi, e fra questi ve ne sono ϕ(A) primi con A, essendo
e P1, P2, ..., Pr. gl'ideali primi diversi che dividono A. Se α è primo con A, si ha un teorema analogo a quello di Fermat-Eulero (n. 5):
L'aritmetica degl'ideali di un corpo algebrico ha raggiunto, dopo Dedekind, un alto grado di sviluppo con Hilbert, Hensel, Furtwängler, ecc.
Particolari sviluppi hanno avuto la teoria dei corpi quadratici, specialmente importante pei suoi stretti legami con la teoria aritmetica delle forme binarie quadratiche (n. 13), e la teoria, già iniziata da Kummer, dei corpi circolari, che ha varie applicazioni, come per es. nelle ricerche relative all'ultimo teorema di Fermat (n. 14, c).
16. Aritmetica analitica e asintotica. - Allo sviluppo delle teorie esposte valgono, in generale, i mezzi aritmetici o algebrici; ma per varie questioni di teoria dei numeri si è dovuto far ricorso all'analisi infinitesimale e alla teoria delle funzioni. Si è così sviluppato un altro ramo della teoria dei numeri, cui si dà il nome di Aritmetica analitica. Il primo contributo in questo senso si deve ad Eulero (Introductio in analysin infinitorum, Losanna 1748), che indicò, ad es., una trasformazione, in prodotto infinito esteso ai numeri primi, delle serie della forma f(1) + f(2) + ..., essendo f una funzione numerica imprimitiva (n. 4), trasformazione che, in particolare, dà origine alla formula
essendo il prodotto esteso a tutti i numeri primi p, e supposto s >; 1 (o anche, per s complesso, che la parte reale di s sia maggiore di 1). Ma il contributo decisivo allo sviluppo dell'aritmetica analitica fu dato dal Dirichlet con le sue ricerche sulle serie della forma
che hanno preso il nome di serie di Dirichlet. Particolarmente notevoli sono le sue ricerche sul numero h delle classi di forme quadratiche binarie di dato determinante, sull'esistenza d'infiniti numeri primi che possono essere rappresentati da una forma quadratica, e d'infiniti numeri primi della progressione Mx + N (M, N primi tra loro; x = 0, 1, 2, ...). Tali ricerche furono estese da Dedekind, Kronecker e Landau agl'ideali di un corpo algebrico
La funzione somma della serie a primo membro di (1) (che si può prolungare in tutto il piano complesso) fu particolarmente studiata da Riemann e da lui indicata col simbolo ζ (s): la sua importanza è dovuta allo stretto legame che vi è fra la situazione, nel piano, dei suoi punti di zero e la legge di distribuzione dei numeri primi. Il Riemann infatti riuscì a dare, sebbene con poco rigore, una rappresentazione analitica del numero π (n) dei numeri primi non superiori ad n mediante gli zeri di ζ (s), promovendo così una serie di elevate ricerche, i cui risultati più notevoli sono dovuti a von Mangoldt, Hadamard, De la Vallée-Poussin, G. Torelli, Landau. Sebbene ancora non sia stata raggiunta la prova che, conforme alle congetture del Riemann, tutti gli zeri immaginarî di ζ (s) abbiano per parte reale 1/2 (il che sarebbe assai importante per la teoria dei numeri primi), si sono ottenuti risultati di grande rilievo. Così, ad es., si è potuto stabilire (Hadamard e De la Vallée-Poussin, 1896) che la funzione π(n) è asintotica a n / log n (cioè il rapporto tra queste due funzioni tende a 1, al crescere di n indefinitamente), dando così ragione di un risultato empirico di Legendre; meglio ancora, si è stabilito che π(n) è asintotica a
come aveva opinato Gauss e tentato di dimostrare il Čebyšev. Da questi risultati sono state tratte delle espressioni asintotiche per l'nima numero primo della serie naturale (Cesàro, Cipolla), e analoghe ricerche sono state eseguite circa i numeri primi di una progressione aritmetica (De la Vallée-Poussin, G. Torelli, Cipolla, Landau), circa i numeri composti di un assegnato numero di fattori primi diversi (Lehmer, Landau) e per gl'ideali primi (Poincaré, Landau).
Altre ricerche di aritmetica asintotica si riferiscono alla valutazione del valor medio Mf (n) di una funzione numerica f(n), cioè della media aritmetica dei suoi primi n valori: f(1), f(2),..., f(n); esse sono state iniziate da Gauss, continuate da Dirichlet, Kronecker, Cesàro, Landau ed altri, e si fondano, in generale, sulle trasformazioni relative alle funzioni sommatorie (n. 4) e sulle proprietà delle serie di Dirichlet. Ecco, ad es., i risultati dovuti a Dirichlet, circa la valutazione asintotica del valor medio della funzione ν(n), numero dei divisori di n, o(n) somma dei divisori di n, e della funzione ϕ(n) di Gauss-Eulero (n. 4):
essendo C (costante di Eulero) = 0,57721..., π (rapporto tra la circonferenza e il diametro) = 3,14159..., e αn, βn, γn quantità ciascuna di ordine inferiore al termine che immediatamente la precede, cioè avente con questo un rapporto che tende a zero al crescere di n indefinitamente; la valutazione asintotica di queste quantità e, in generale, di quelle che figurano in formule analoghe, costituisce uno degli argomenti più ardui di aritmetica asintotica.
Bibl.: 1. Delle opere moderne di teoria dei numeri ci limitiamo a citare: P. Lejeune-Dirichlet, Vorlesungen über Zahlentheorie, herausgegeben von R. Dedekind, 4ª ed., Brunswick 1894; traduzione italiana di A. Faifofer, Venezia 1881; P. Bachmann, Die Elemente der Zahlentheorie, Lipsia 1892; P. Gazzaniga, Gli elementi della teoria dei numeri, Padova 1903; E. Cahen, Élements de la Théorie des nombres, Parigi I, 1914, II, 1924; E. Landau, Vorlesungen über Zahlentheorie, Lipsia 1927, tre voll. Per la storia e la bibliografia della teoria dei numeri v. il vol. III del tomo I dell'Encyclopédie des Sciences mathématiques (o dell'ediz. tedesca), e L. E. Dickson, history of Numbers, Washington, I, 1919, Ii, 1920, III, 1923.
2. Sono state pubblicate varie tavole di divisori: quelle di I. C. Bruckhardt (Parigi 1814-17) arrivano al numero 3.036.000, quelle di Dase e Rosenberger (Amburgo 1862-65), dal 6° al 9° milione, di J. Glaisher (Londra 1879-83) dal 4° al 6° milione, quele più recenti di D. N. Lehemer (Washington 1914, Carnegie Institution), che arrivano a 10.000.000, e di L. Poletti (Milano 1920) entro limiti diversi, per es.: entro i 100.000 numeri oltre 10.000.000 e oltre un miliardo.
3. Circa le formule di Meissel e Rogel, v. M. Cipolla, Estensione delle formole di Meissel-Rogel e di Torelli sulla totalità dei numeri primi che no superano un numero assegnato, in Annali di Mat. pura ed applicata, serie 3ª, XI (1905), p. 253. Sui numeri composti che verificano il teorema di Fermat, v. il lavoro, con questo titolo, dello stesso autore, ivi, IX (1903), p. 139.
4. Per il calcolo aritmetico-integrale e per la composizione sommatoria v. M. Cipolla, Sui principii del Calcolo aritmetico-integrale, in Atti Accademia Gioenia in Catania, s. 5ª, VIII (1915), Mem. XI.
5. Sulla teoria del gaussiano, v. M. Cipolla, Sui numeri composti, ecc. (v. n. 3).
6. Tavole di radici primitive e di indici per tutti i numeri primi minori di 1000 si trovano nel Canon arithmeticus di C. G. J. Jacobi, Königsberg 1839. Tavole più estese sono state pubblicate da G. Wertheim, in Acta mathematica, XVII (1893), p. 315; XX (1896), p. 353; XXII (1898), p. 200.
7. La questione di determinare un numero congruo a più altri secondo moduli assegnati fu trattata ampiamente da T. I. Stieltjes, Sur la Théorie des Nombres, in Annales de Toulouse, IV (1890), Parigi 1895; essa è stata illustrata storicamente da G. Erneström, in Bibliotheca mathematica, s. 3ª, I (1900), p. 274.
8. A riguardo della risoluzione apiristica delle congruenze binomie v.: M. Cipolla, in Mathematische Annalen, LXIII (1906), p. 54; in Rend. Accademia dei Lincei, s. 5ª, XVI (1907), p. 603, 732; G. Scorza, ivi, s. 6ª, III (1926), p. 245.
9. Per la dimostrazione di A. Gnocchi della legge di reciprocità dei residui quadratici, v. Mém. de l'Ac. de Bruxelles, XXV (1854), p. 49; e per quella di L. Kronecker: Sitzungsberichte der kön. Akad. der Wissenschaften, Berlino 1884, pp. 519, 645; id., Werke, II, pp. 499, 529.
10. Circa la formula di A. Hurwitz per il numero delle soluzioni di una congruenza ad un'incognita secondo un modulo primo, e per varie applicazioni di essa v. M. Cipolla, Sulle funzioni simmetriche delle soluzioni comuni a più congruenze secondo un modulo primo, in periodico di Mat., s. 3ª, Iv (1907), p. 36. Per un'esposizione della teoria delle congruenze di grado superiore v. J. A. Serret, Algèbre supérieure, II, 5ª ed., Parigi 1885, p. 122.
11. Per la teoria degl'immaginarî di Galois v. le opere di quest'autore, Parigi 1897, p. 15; J. A. Serret, l. c. (v. n. 10).
12. Per la risoluzione in numeri interi dei sistemi di equazioni lineari a coefficienti interi v. l'esposizione che ne fa L. Bianchi nelle sue Lezioni sulla teoria dei numeri algebrici, Bologna 1923.
13. Circa la teoria aritmetica delle forme binarie quadratiche v. p. es.: P. Bachmann, Die Arithmetik der quadratischen Formen, Lipsia 1898; E. Cahen, op. cit. (v. n. 1), II.
14. Per le moderne ricerche intorno al problema di Waring e l'ultimo teorema di Fermat, v. E. Landau: Vorlesungen, cit. (v. n. 1), I e III. Sui triangoli di Fermat e di Torricelli v. M. Cipolla, I triangoli di Fermat e un problema di Torricelli, in Atti Accademia Gioenia di Catania, s. 5ª, XI (1918), mem. XI; id., Sulla risoluzione in numeri interi dell'equazione x2 = 8y4 + z4, ivi, XII (1919), mem. I.
15. Per la teoria dei corpi algebrici e l'aritmetica degl'ideali v. D. Hilbert, Die Theorie der algebraischen Zahlenkörper, in Jahresbericht der deutschen Mathematiker - Vereinigung, IV (1897), pp. 175-546; P. Bachmann, Die allgemeine Arithmetik der Zahlenkörper, Lipsia 1905; J. Sommer, Vorlesungen über Zahlentheorie. Einfürung in die Theorie der algebraischen Zahlenkörper, Lipsia 1907; traduzione francese di A. Levy, Parigi 1911; E. Landau, Elementare analytische Theorie der algebraischen Zahlen und der Ideale, Lipsia 1918; L. Bianchi, Lezioni, cit. (v. n. 12).
16. Riguardo all'Aritmetica analitica e asintotica v.: P. Bachmann, Die analytische Zahlentheorie,Lipsia 1894; L. Bianchi, Lezioni, cit. (v. n. 12); Ed. Landau, Vorlesungen, cit. (v. n. 1). Per la teoria analitica dei numeri primi v. le seguenti opere, contenenti anche una ricca bibliografia: G. Torelli, Sulla totalità dei numeri primi fino ad un limite assegnato, in Atti R. Acc. scienze fisiche e matematiche di Napoli, s. 2ª, XI (1901), n. 1; E. Landau, Handbuch der Lehre von der Verteilung der Primzahlen, 2 voll., Lipsia 1909.