ARISTIDE Retore, cioè Publio Elio Aristide Teodoro Eudemone (117-185 o 129-189 d. C.)
Nacque ad Adriani nella Misia: ebbe a maestri Alessandro di Cotieo, Aristocle ed Erode Attico; non però, sembra, Polemone. Agli studî di grammatica e di retorica unì forse, durante la dimora in Atene, lo studio, non certo profondo, della filosofia. Ben presto, già in Atene, e non senza gelosia di Erode Attico, intraprese la carriera di retore, che esplicò in altre parti della Grecia, p. es. ai giuochi istmici, in città dell'Asia in Egitto e a Roma stessa. In Egitto anzi dimorò parecchi anni (149-154), facendovi la conoscenza personale del prefetto Eliodoro, compiendo quattro viaggi nella regione, giungendo fino ai confini dell'Etiopia e progettando perfino di giungere dal Nilo all'oceano. Se in Egitto si era procurata tale rinomanza, che gli furono tributati grandi onori ed eretta una statua, fama anche maggiore conseguì a Smirne, che fu la sua residenza prediletta, a beneficio della quale intervenne presso gl'imperatori dopo il terribile terremoto del 178, che aveva distrutto la città: sicché fu decisa la ricostruzione di Smirne, e questa innalzò ad Aristide una statua di bronzo. Fu anche a Cos e a Cnido; a Pergamo si trattenne presso il santuario di Asclepio (donde gli venne il nome di Teodoro) allo scopo di curare la sua malattia - epilessia oppure ϕρικεη νευρῶν, a meno che fosse una serie di malattie: nel 168 ebbe anche la peste. A Roma si trattenne dal dicembre del 155 al luglio almeno del 156; alla fine del 156 era di nuovo a Smirne, dove professò ed insegnò retorica con grande fama. Non sembra però che la sua scuola avesse grande successo, né che fosse molto frequentata: anzi nell'aula, dice un epigramma, gli uditori sarebbero stati in tutto sette, cioè le quattro pareti e tre banchi. La fama gli venne dai discorsi, ammirati dai contemporanei e dai Bizantini e giunti fino a noi, che possiamo studiarli e comprenderne l'importanza, più che ammirarli. Aristide infatti, propostosi l'ideale dell'eloquenza attica e il modello supremo di Demostene, non partecipò, come l'oratore attico, alla vita politica; ma, rifiutando onori ed uffici, e limitandosi al sacerdozio (anche suo padre Eudemone era sacerdote di Zeus), condusse una vita contemplativa di studioso e di scrittore; il che gli era permesso dalle sue condizioni di famiglia (egli possedeva fondi in Misia) e in parte gli era imposto dalla sua lunga malattia. A essere veramente oratore, quali furono i famosi attici, non erano favorevoli i tempi (neppure a Roma; e basta pensare al famoso dialogo sulle cause della decadenza dell'eloquenza attribuito a Tacito); né vi si prestava l'indole di Aristide, che sotto parecchi aspetti rassomiglia ad Isocrate, il quale fu non oratore, bensì maestro di eloquenza e scrittore di discorsi a lungo meditati. E Aristide scrisse molti discorsi trattando sia argomenti del passato, sia fatti e persone del tempo suo. Si può dire che la Grecia antica per lui finisse a Cheronea; sicché doveva essere naturale per lui tanto rimaneggiare l'ambasciata omerica ad Achille (Il., IX) quanto comporre una serie di discorsi "storici", quali aveva composto Isocrate, quali avevano inseriti nelle loro storie Eforo e Teopompo. scolari d'Isocrate. Colse così e volle sfruttare qualche occasione oratoria, che Tucidide aveva lasciato cadere. Tucidide infatti, esposte (lib. VI) nei discorsi di Nicia e di Alcibiade le ragioni degli opposti partiti circa la grande spedizione di Siracusa, non ci fa assistere ad un secondo dibattito parlamentare sul medesimo argomento: ed A. scrive i due discorsi sull'invio di rinforzi in Sicilia, sostenendo le due opposte tesi. "Storici" possono anche dirsi i cinque discorsi Leuttrici, in senso spartano e in senso tebano, e gli altri per la pace in senso spartano e in senso ateniese. Il più comprensivo dei discorsi di questa serie è il Panatenaico, che l'oratore lesse al pubblico in testo diverso da quello comunicato ad Erode Attico, la cui posizione letteraria ed ufficiale in Atene, assecondata dal favore imperiale, gli conferiva quasi un diritto di censura preventiva. Erode, dal discorso a lui presentato, non poteva presentire il successo di quello realmente letto, il quale contiene la storia e l'esaltazione di Atene dai tempi mitici alle guerre mediche: il che spiega come il discorso fosse letto e commentato nelle scuole bizantine. Di carattere non unicamente storico è la Difesa dei Quattro (‛Υπέρ τῶν τεττάρων). I Quattro sono Pericle, Cimone, Milziade e Temistocle, i quali nel Gorgia di Platone vengono censurati, negandosi che fossero grandi uomini politici, in quanto, se fecero materialmente grande e potente Atene, non però resero moralmente migliori gli Ateniesi, mentre fine della politica è il perfezionamento etico degl'individui e dello stato. La Difesa dei Quattro si collega a quella della Retorica, di nuovo contro Platone e il Gorgia platonico: e qui Aristide, non limitandosi alla difesa, passa al contrattacco, accusa Platone di volere screditare le figure più eminenti del suo tempo, quali Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Agatone, e riprende anche il motivo della maldicenza antiplatonica a proposito dei famosi viaggi in Sicilia. Sicché la sua non è trattazione filosofica, ma polemica, dalla quale il nostro profitto maggiore è l'ampia citazione del testo platonico, utile per il riscontro della tradizione manoscritta. Certamente la difesa della retorica assunta da Aristide non ha lo spirito né di Isocrate né di Aristotele.
L'altra serie dei discorsi di Aristide tratta argomenti contemporanei al retore o si riferisce ad avvenimenti personali. I ‛Ιεροί λόγοι (Discorsi sacri) fanno la storia della malattia di A. e della cura, e ci rappresentano la psicologia d'un infermo, il quale ricorre ai sogni e ad essi si attiene per la cura, ritenendoli inviati da Asclepio. Altri cenni autobiografici si trovano in parecchie orazioni, fra le quali è opportuno rammentare l'Epitafio, cioè l'encomio funebre del suo maestro Alessandro di Cotieo. Un'idealità politica, quasi isocratea, di unione e di concordia anima le orazioni Alle città per la concordia e Ai Rodî per la concordia, che si riferiscono ai dissensi e ai contrasti sorti tra le città dell'Asia greca e delle vicine isole, nel fervore di vita e nel benessere cui tornarono sotto l'impero romano; benessere così manifesto, che non fa meraviglia che anche Aristide (come Dione Crisostomo di Prusa) accetti e comprenda ed esalti il dominio di Roma. Questa esaltazione e comprensione noi troviamo nell'Encomio di Roma, che per molti rispetti è l'orazione più significativa di Aristide, sia, cioè, per l'animo e il giudizio dello scrittore, sia per il riflesso dei sentimenti di larga parte del mondo greco nei primi secoli dopo Cristo. Per quanto Aristide debba essere ricondotto a Polibio, e per quanto si debba tener presente l'analogo atteggiamento verso la romanità che troviamo in Plutarco, nell'orazione di Aristide si procede oltre Polibio e Plutarco nella comprensione della grandezza di Roma e della pax romana, giacché in lui si sente la grandezza di Roma imperiale, e in particolare si considera la pace come il bene massimo dovuto a Roma. Il che è vero, pur se A. partecipa al pacifismo diffuso allora anche tra gli spiriti più elevati, e, riguardando onere grave la difesa dell'impero, approva che sia affidata, quasi ultimo aggravio, a coloro i quali, non prima appartenendo all'impero, di recente vi sono stati annessi: sicché la pace sia come il privilegio e il diritto dei cives romani di antica data, e i nuovi sostengano per essa la loro ultima milizia. Aristide non vide e non misurò le conseguenze della desuetudine dalle armi, che fu il pericolo massimo dell'impero. Certamente non era il solo a pensare e sentire così, anzi era all'unisono con molti. E ciò spiega il favore dei contemporanei e la benevolenza imperiale verso di lui e la possibilità del suo intervento a favore di Smirne, dopo il terremoto.
Oltre agli otto discorsi che si potrebbero chiamare Smirnei è importante il Rodiaco, che però il Keil nega ad Aristide. Di qualche altro discorso, giuntoci nel corpus aristideum, si dubita; e quello All'imperatore è senz'altro attribuito ad un anonimo. È discorso notevole per la trattazione delle forme di governo e perché riconosce la superiorità del governo monarchico, che allora voleva dire governo imperiale: e ciò concorda con idee di Dione Crisostomo.
Altri discorsi sono molto o troppo letterarî e retorici, p. es. l'orazione per l'Egeo, che è un encomio, fra i tanti che furono scritti. Altre orazioni esaltano divinità (Zeus, Atena, Asclepio, Dioniso, Eracle, Posidone, Serapide), ma non mostrano ardore e profondità di sentimento religioso, bensì tranquillo razionalismo conciliabile con il culto di un animo retto, capace di sentire la grandezza del passato, non la rinnovata importanza del problema religioso.
Alla sua attività di maestro si collega un trattato di retorica, che precede le idee di Ermogene.
Lontano dalla sofistica contemporanea ed alieno dall'asianismo, ma non da esso interamente immune, A. segna un anello della catena, la quale dagli antichi oratori giunge fino a Libanio ed oltre. La sua importanza sta nel non essersi, come altri, soverchiamente allontanato dalla realtà e dal suo tempo. Sicché egli è figura rappresentativa della sua età; e, per quanto troppo inferiore agli oratori antichi, è notevole come scrittore onesto e sincero ed apprezzabile per aspirazioni artistiche, nonostante lo stile difficile e spesso involuto, che lo rende di non facile comprensione, non per altezza tucididea di pensieri, ma per complessità di idee raccolte e condensate e meditate, senza che per questo costituiscano il fondo stesso del suo animo e del suo essere. Nessuno dei suoi discorsi ci può commuovere quanto una pagina di Tucidide o di Demostene. Ma egli non è senza meriti e senza importanza, giacché riflette un'età.
Edizioni: Dopo l'edizione del Dindorf in 3 volumi (Lipsia 1829), con scolî e con le antiche fonti biografiche, il Keil pubblicò il solo volume II dell'edizione Weidmanniana (Berlino 1898): sono in preparazione gli altri volumi. Importante è la versione latina del Canter (Basilea 1566), che ha grande valore per l'interpretazione e per la critica del difficile testo. Dell'Encomio di Roma fu pubblicata una traduzione di C.O. Zuretti, Milano 1917.
Bibl.: Molte notizie e indicazioni bibliografiche in A. Boulanger, Aelius Aristide, Parigi 1923.