MERLONI, Aristide
– Nacque il 24 ott. 1897 ad Albacina, presso Fabriano, in una famiglia della «piccolissima» borghesia rurale da Antonio, di fede socialista, ed Ester Stopponi, donna di forti sentimenti religiosi.
Frequentò la scuola industriale di Fabriano e quindi l’istituto industriale Montani di Fermo, diplomandosi, nel 1916, perito industriale. Fante del genio durante la prima guerra mondiale, nel 1919 rientrò ad Albacina, dove sposò, nel 1921, Maria Mattioli, figlia del proprietario di una piccola fornace da calce.
Fin dall’adolescenza il M. aveva partecipato attivamente all’associazionismo cattolico frequentando l’oratorio-ricreatorio di S. Giuseppe, a Fabriano, e inaugurando ad Albacina nel 1911 il circolo Religione e patria, appendice del circolo fabrianese Nova Juventus, di cui aveva continuato a occuparsi anche a Fermo. Da studente si formò politicamente amalgamando il socialismo paterno, la religiosità materna e gli echi ancora non sopiti del cattolicesimo progressista propugnato dal sacerdote fermano R. Murri: si interessò di sindacati «bianchi» e del Partito popolare italiano (PPI) e più tardi, come lavoratore emigrato, avrebbe avvicinato gli evoluti ambienti del popolarismo cattolico piemontese. Da questo sincretismo etico e politico il M. trasse un evidente senso di responsabilità verso la collettività, in particolare verso quella locale, e la propensione a un pragmatismo capace di superare le rigidezze ideologiche.
Nel primo dopoguerra il M. emigrò in Piemonte, approdando alla fabbrica Buroni di Pinerolo, produttrice di bascule, stadere e altri strumenti per pesare, prestandosi anche, per arrotondare lo stipendio, a lavori straordinari esterni, a favore di un tessuto di piccole officine subappaltatrici e assemblatrici. A Pinerolo il M. compì una rapida ascesa professionale e, nel 1925, divenne direttore dello stabilimento.
Nel 1924, per conto della Buroni, ma con probabili propositi d’emancipazione, aveva elaborato un «Progetto di fabbrica strumenti per pesare e costruzioni meccaniche», dove è illustrata, in nuce, una filosofia imprenditoriale secondo la quale, nello specifico settore degli strumenti per pesare, una piccola impresa avrebbe potuto affermarsi rapidamente in quanto il capitale necessario era ridotto, ben remunerato ed era possibile difendersi efficacemente dalla grande industria contando sulle «malizie» di un mestiere appreso nella pratica esecuzione, sull’abilità artigianale e sulle restrizioni all’ingresso che le necessarie autorizzazioni statali accordavano a chi si occupava di pesi e misure.
Nel 1930 il M. tornò ad Albacina con la moglie e tre figli (Ester, 1922; Francesco, 1925 e Antonio, 1926; il quarto, Vittorio, nacque nel 1933) e con circa 12.000 lire di risparmi, con cui – unitamente allo sconto di alcune cambiali sottoscritte dal parroco del paese – poté iniziare l’attività di produzione di bilance in una sorta di piccola rimessa, con cinque-sei dipendenti mal pagati e privi di tutele assicurative e sindacali. Nel 1933 nacque la Società anonima Merloni Aristide (SAMA), a struttura familiare: il padre del M. si occupava delle paghe, del magazzino e dell’economato, il cognato fu impiegato come capo operaio e in azienda, per qualche lavoretto, presto circolarono anche i figli maggiori. Nel 1936, nella prospettiva di un allargamento dell’attività, il M. decise di trasferirsi a Fabriano, dove i dipendenti, pagati meglio che ad Albacina, divennero una quarantina; nel 1938 il fatturato annuo – di appena 80.000 lire nel 1931 – aveva raggiunto il mezzo milione. In questa fase il M. aveva conservato amichevoli rapporti produttivi con la Buroni di Pinerolo, presso la quale acquistava componenti e alcuni prodotti finiti che rivendeva con il proprio marchio. Gli strumenti per pesare usciti dalle officine Merloni cominciarono ad affermarsi sul mercato, tuttavia, allo scoppio della seconda guerra mondiale, la fabbrica del M. dovette affrontare forti difficoltà: carenza di materie prime, economia regredita allo stadio del baratto, perdita di operai richiamati alle armi; anche un tentativo di convertire la produzione a fini bellici non ebbe esiti significativi. Tra 1943 e 1944 lo stabilimento conobbe le devastazioni causate dai bombardamenti, da un incendio e dalle asportazioni da parte delle truppe tedesche; la documentazione amministrativa fu spostata nei vecchi locali di Albacina e la produzione cessò. Dopo la Liberazione, la fabbrica venne requisita dal Comando alleato e adibita a vari usi successivi: stazione radio, autorimessa, deposito di grano.
Anche nell’intensa fase di avvio dell’azione imprenditoriale, fra le due guerre, era comunque proseguito l’impegno religioso e civile del M.: presidente dell’Azione cattolica italiana per la diocesi fabrianese dal 1930 al 1938, dopo il 1936 ebbe incontri con elementi di spicco dell’antifascismo cattolico cittadino; quindi, il 10 luglio 1943, in un momento di transizione difficile e incerto, fu nominato presidente della locale Cassa di risparmio, dimostrandosi in seguito, nei primi anni della ricostruzione, oculato gestore nel finanziare la ripresa dell’attività economica e i programmi per le case popolari, che dovevano rimpiazzare i 7000 vani distrutti a Fabriano.
Nell’immediato dopoguerra, ripresa l’attività industriale, la preoccupazione principale del M. fu quella di trovare un mercato per i suoi prodotti, la cui fabbricazione poté essere riavviata con relativa facilità; la SAMA, ritornata ditta individuale, ottenne, nel 1949, una nuova, ampia commessa delle Ferrovie dello Stato per 60 pese a ponte che rilanciò il ritmo di attività dell’impianto. Contestualmente, nel 1951, il M. riprese l’impegno politico come capolista della Democrazia cristiana (DC) alle elezioni amministrative e, ottenute 8448 preferenze su 17.627 votanti, venne eletto sindaco di Fabriano, lasciando, quindi, la carica di presidente della Cassa di risparmio per incompatibilità con il ruolo di amministratore comunale.
Alle elezioni comunali del 1946, Fabriano –con un passato anticlericale, tradizionalmente «rossa» per la presenza di realtà industriali consolidate, e rinvigorita dall’esperienza partigiana che aveva coinvolto quasi tutte le aree montane della regione – aveva visto il successo della sinistra con il 66,7% dei voti cittadini e il 69,2% di quelli rurali, mentre la DC si era attestata, rispettivamente, sul 33,3% e 30,8%. Cinque anni dopo, al momento della sua elezione – in un quadro politico nazionale profondamente mutato a favore della DC, che aveva ottenuto a Fabriano il 39,5% in città e il 42,5% nei dintorni –, il M. divenne il campione delle vaste e depresse aree rurali del Comune, di cui aveva saputo comprendere il peso demografico (13.940 abitanti contro i 14.077 della città) e la spinta verso una soggettività politica mai espressa in precedenza. A fine mandato, grazie anche a generosi contributi straordinari dello Stato, egli poté ostentare un bilancio in pareggio, disponibilità finanziarie per investimenti, 2400 esenzioni tributarie in favore degli strati sociali più disagiati, l’eliminazione, unico Comune della Provincia, delle addizionali su imposte erariali e reddito agrario.
Contestualmente il M., imprenditore affermato – la Merloni era la principale ditta italiana produttrice di strumenti per pesare a uso industriale, con un’occupazione di circa 60 operai, e una copertura del 60% del mercato nazionale delle bascule – e inoltre proprietario, tra il 1947 e il 1949, di sei poderi, fino a formare una patrimonio terriero di 120 ettari, operò la prima diversificazione produttiva della sua ditta.
L’impulso iniziale venne da E. Mattei, dal 1953 presidente dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), il quale, originario di Matelica, comune al confine con il territorio fabrianese, era interessato a creare in situ posti di lavoro per la popolazione economicamente depressa delle aree montane delle province di Ancona e Macerata. Parallelamente il M., appunto nell’ipotesi di diversificare la sua attività industriale, si era andato orientando verso la produzione di bombole per il gas, la cui tecnica costruttiva aveva punti di contatto con quella usata per realizzare bilance. Nel 1953 Mattei e il M. si incontrarono a Fabriano e il presidente dell’ENI suggerì al M. di aprire una nuova fabbrica in territorio marchigiano: una sua prima proposta – confortata dalla promessa di un’importante commessa da parte dell’Azienda generale italiana petroli (AGIP) – riguardava la costruzione di serbatoi per distributori di benzina, ma il M. preferì puntare sul progetto già accarezzato delle bombole per il gas liquido a uso domestico.
Nel 1954 a Matelica il M. costruì, in aperta campagna, una fabbrica destinata a questo scopo e, anche se la commessa prospettata dall’AGIP gas (70.000 bombole) non si concretò mai – per il coevo coinvolgimento nelle vicende del Pignone di Firenze dell’ENI, che dovette concentrare in quella direzione le risorse disponibili –, il M. ottenne comunque una positiva risposta dal mercato «aperto». A regime la fabbrica di Matelica arrivò a produrre 10.000 pezzi al giorno, un livello che consentì di ridurre i costi unitari, di procurare larghi profitti e di conquistare, in breve tempo, il 25% del mercato nazionale; nel 1970, con una quota del 60% del mercato, la Merloni poteva essere considerata impresa leader nazionale nella fabbricazione di bombole. Profitti e know how realizzati in questi comparti meccanici costituirono una «accumulazione originaria» utile agli ulteriori sviluppi dell’impresa.
Di fatto, la diversificazione orientata alla produzione di bombole dette la direzione di marcia anche agli ulteriori e successivi processi di diversificazione produttiva a filiera: partendo da una specifica conoscenza tecnica di processo – la carpenteria metallica e la piegatura delle lamiere – si passò successivamente dalla bombola allo scaldabagno; ugualmente il procedimento di smaltatura, appreso con gli apparecchi di cottura, poté essere applicato alle produzioni di mobili da cucina e di vasche da bagno. Per altro verso, furono le condizioni d’uso del prodotto e, in ultima analisi, il mercato e le opportunità offerte dai punti vendita a guidare altri tipi di filogenesi evolutiva: gas, fornello, cucina a gas, mobile da cucina; scaldabagno e, come appendice funzionale, la vasca da bagno.
Proseguiva contestualmente la carriera politica del M.: confermato sindaco ed eletto consigliere provinciale nel 1956, l’anno seguente si dimise dalla prima carica per incompatibilità. Nel 1958 si presentò al Senato per la DC nel suo collegio di origine riuscendo eletto, con una larga maggioranza (mantenne la carica fino al 1970). Nel 1963, anno del secondo mandato parlamentare, creò la Fondazione Aristide Merloni.
Indirizzata allo sviluppo economico e sociale delle Marche, con l’ambizioso compito statutario di promuovere l’industrializzazione delle zone interne della regione, l’area di competenza della Fondazione, diretta dal figlio Francesco, era composta da 26 Comuni, con una dotazione iniziale di 20.000.000 di lire. Il tentativo era quello di innescare un moltiplicatore degli investimenti industriali nelle aree interne della provincia ma le iniziative intraprese ebbero spesso un esito poco soddisfacente o addirittura fallimentare.
Sul piano industriale il M., in sincronia con gli anni del «miracolo economico» italiano, mise l’azienda sulla strada di una progressiva e continuata diversificazione. Tra il 1957 e il 1965 la ditta entrò – con prudenza e iniziando dai prodotti tecnicamente più semplici, destinati a un mercato «povero», o comunque sottodotato, che allora si andava affacciando al benessere – nel settore in forte espansione degli elettrodomestici «bianchi», con il nuovo marchio Ariston.
Inizialmente si trattò di fornelli e cucine a gas ed elettriche (1957-59); scaldabagni (1957-59: dapprima a Matelica, poi, dal 1965, nel nuovo stabilimento di Pianello di Genga); mobili da cucina in ferro smaltato (1957-59, a Cerreto d’Esi). Nel 1962 fu stretto un accordo, in effetti di scarso risultato, con la SIGEA di Genova, per vendere frigoriferi da questa prodotti.
Il processo di assestamento nel nuovo settore subì un’accelerazione tra il 1965 e il 1970, quando la Merloni-Ariston fece, in rapida successione, scelte decisionali significative.
Si dette corso: alla distribuzione con marchio proprio di lavabiancheria fornite dalla San Giorgio di La Spezia (1965; dal 1973 autoprodotte nel nuovo stabilimento di Comunanza); alla produzione di lavastoviglie su licenza Kenwood (1966; dal 1969-70 interamente autoprodotte nel nuovo stabilimento di Santa Maria di Fabriano); all’acquisto della ALIA di Milano, produttrice di frigoriferi in conto terzi (1965-66; dal 1970 interamente autoprodotti nel nuovo stabilimento di Melano-Marischio, frazione di Fabriano); alla produzione di vasche da bagno (1967).
Il M. partecipò in prima persona a questi sviluppi, anche se negli anni Sessanta l’apporto decisionale e gestionale dei figli si fece particolarmente sensibile; finché egli visse, infatti, ruoli, funzioni e relazioni interpersonali mantennero sempre in mutua e stretta corrispondenza l’impresa e la famiglia.
Dei quattro figli, tre proseguirono l’attività industriale, mentre la moglie e la figlia Ester si occuparono del patrimonio immobiliare e della proprietà agricola. Francesco, laureato in ingegneria industriale meccanica a Pisa, iniziò a lavorare in azienda nel 1954, dirigendo lo stabilimento di Matelica, dove venivano fabbricate le bombole per il gas liquefatto e, nel 1970, assunse la responsabilità della divisione sanitari. Antonio, laureato in economia e commercio a Perugia, come il fratello minore Vittorio, entrò in azienda molto giovane, occupandosi del settore meccanico; ma nel 1968, successivamente all’ingresso della ditta nel settore degli elettrodomestici veri e propri, preferì avviare un’iniziativa industriale autonoma nella produzione di lavabiancheria. Vittorio, in azienda dal 1960, inizialmente occupato alle vendite, ebbe un ruolo rilevante nell’avviare e potenziare la produzione di elettrodomestici e assunse, quindi, nel 1970, alla morte del padre, la responsabilità del nuovo fondamentale settore.
Gli ultimi atti imprenditoriali cui il M. concorse furono le trattative con la Centrofinanziaria per l’apertura, nel 1971, dei nuovi stabilimenti, a Melano-Marischio e nel Reatino, destinati alle cucine componibili, dove la ditta era stata attratta dalle provvidenze della Cassa per il Mezzogiorno. Con questo passo la Merloni usciva, di fatto, dall’involucro finanziario del reinvestimento dei propri profitti e delle aperture di credito concesse dal sistema bancario locale, per praticare formule, interlocutori e partners finanziari inediti.
Il M. morì a Fabriano, in seguito a un incidente stradale, il 19 dic. 1970.
Al momento della scomparsa, il M. era annoverato fra i 300 maggiori imprenditori italiani, con 30 miliardi di fatturato, dieci stabilimenti e 2000 dipendenti. La sua vicenda imprenditoriale ha assunto, nella storia della relazioni industriali, valenze interpretative più ampie di quelle proprie delle imprese metalmeccaniche di successo, in quanto assunta a «modello», sia macroeconomico (il «modello marchigiano»: cfr. Industrializzazione senza fratture, a cura di C. Fuà- C. Zacchia, Bologna 1983) sia microeconomico (lo specifico «modello Merloni»). Tale modello aziendale avrebbe reso possibile un decollo industriale senza fratture, basato su insediamenti medio-piccoli ma attestati sulla minima dimensione efficiente, monoprodotto, vicini ai luoghi di residenza dei lavoratori, fondati inizialmente sulla figura dell’operaio-contadino, il lavoratore di provenienza rurale che non tronca i rapporti con il suo ambiente sociale e con la terra, continuando a lavorarla, pur se saltuariamente. Di fatto, nella sua condotta imprenditoriale il M., confortato principalmente dal buon senso, sembrerebbe aver soprattutto seguito quanto l’ambiente stesso in cui si trovò a operare gli suggeriva: la struttura dell’insediamento del Fabrianese, diffusa su un vasto territorio disseminato di piccoli e piccolissimi nuclei di popolazione accentrata, in qualche modo suggeriva di non optare per unità locali di grandi dimensioni. Anche le difficili comunicazioni che affliggevano il territorio consigliavano, volendo tenere bassi i salari, di non costringere la forza lavoro a lunghi spostamenti. Il medesimo obiettivo di contenimento del costo del lavoro invitava, inoltre, ad approfittare delle economie che il consumo delle famiglie ricavava dall’ambiente rural-paesano e dall’uso della casa di famiglia. Sul piano politico – anche negli anni tra 1955 e 1965, che presentarono a Fabriano una forte conflittualità nel comparto industriale, determinata dalle difficoltà delle cartiere Miliani e dalla crisi di importanti imprese meccaniche cittadine (Maglio-Fiorentini) – le elezioni comunali del 1951 e del 1956 dimostrarono che soprattutto le frazioni del contado di Fabriano erano disponibili ad accogliere nuove modalità di sviluppo economico e sociale, cioè una politica di nuovi insediamenti industriali sparsi sul territorio, che favorirono anche il successo politico del M. e della DC marchigiana.
Tipico del modello Merloni fu soprattutto l’aver ricercato, su scala territoriale, quelle economie che altri settori caratteristici dell’industrializzazione marchigiana avevano trovato nel distretto industriale monoproduttivo, coniugando piccola dimensione d’impresa ed economie di scala attraverso la suddivisione dell’azienda in vari stabilimenti monoprodotto, con un sapiente dosaggio tra le esigenze imposte dalle indivisibilità tecniche, dalle diseconomie «sociali» di scala e dalla necessaria unità di comando aziendale.
Fonti e Bibl.: V. Notarnicola, Il miracolo di Fabriano, Milano 1967, ad ind.; V. Balloni, Origini, sviluppo e maturità dell’industria degli elettrodomestici, Bologna 1978, ad ind.; C. Barberis, A. M. Storia di un uomo e di un’industria in montagna, Bologna 1987; G. Crinella - D. Pilati - E. Sparisci, A. M. L’uomo, il cattolico, l’amministratore, Fabriano 1991; E. Sparisci, Cristiani laici a Fabriano, 1887-1931, Fabriano 1992, ad ind.; S. Gatti, Società, politica e impresa a Fabriano, 1943-1957, Ancona 1995, ad ind.; A. M. Cento anni, 1897-1997, a cura di M.P. Merloni, Fabriano 1997; B. Bravetti - S. Gatti - T. Baldoni, Otello Biondi, 1922-1987, Fabriano 1997, ad ind.; A. Olivieri, A. M. Un pioniere dell’industria marchigiana, tesi di laurea, Università degli studi di Camerino, facoltà di giurisprudenza, a.a. 2001-02.
E. Sori