ARIBERTO
Nacque tra il 970 e il 980 da famiglia professante legge longobarda, la quale aveva beni fondiari in territorio bergamasco (Codex Dipl. Langob., n. 991, a. 1000) e possedeva all'estremo limite della Martesana la corte di Antimiano (Intimiano) presso Cantù, donde prendeva nome.
Padre di A. fu un certo Gariardo figlio di Wipaldo "de loco Antegnano"; la madre ebbe nome Berlinda; ambedue morirono prima del 1034. A. ebbe tre fratelli: Adecherio, Gariardo, Alberico, l'ultimo dei quali sposò Ermengarda, figlia del fu Bovone giudice della città di Pavia (Codex Dipl. Langob., n. 969). Da uno dei tre fratelli di A. nacque il noto Gariardo "nepos Ariberti" che, intorno al 1030, strappò la terra di Arsago al vescovate di Cremona, prevenendo, o forse assecondando, le mire espansionistiche dello zio arcivescovo.
A. nel 998 era suddiacono della Chiesa milanese e come tale, il 2 luglio 1007, consacrava col vicino battistero la chiesa plebana di S. Vincenzo in Galliano (Cantù), di cui era custode e che egli stesso aveva fatta restaurare e affrescare (Ansaldi, pp. 25 ss.).
Il fatto è ricordato nella basilica di Galliano, sia dall'affresco absidale, ove, a sinistra, è effigiato A. in atto di offrire la basilica stessa a Cristo (la parte superiore della figura è attualmente nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano), sia dall'iscrizione che corre lungo l'abside in lettere capitali purpuree su fondo bianco. Una lapide, attualmente appoggiata alla parete destra della navata, ricorda che insieme con la consacrazione si celebrò la traslazione, forse da un luogo all'altro della stessa chiesa, del corpo di s. Adeodato.
Alcuni graffiti incisi negli affreschi dell'abside della basilica di Galliano ricordano la morte del padre, del nipote e del fratello di Ariberto. Si può dunque pensare che le sorti della sua famiglia siano state per un certo tempo legate a quelle della Pieve di Galliano, ma è difficile dire se questa prerogativa avesse un fondamento giuridico, o fosse solo il riflesso di una situazione di fatto.
Galvano Flamma (Manipulus Florum, capp. 137-138), quando parla di A., non lo chiama di Intimiano, ma lo dice dei Capitani di Arsago, sia confondendolo con il suo predecessore Amolfo, di cui gli attribuisce alcune imprese, sia alludendo alla già menzionata usurpazione di quella terra, compiuta dal nipote Gariardo intorno al 1030, durante la malattia del vescovo di Cremona Landolfo. Il cronista aggiunge che, nello stesso periodo, essendo in lotta i cittadini cremonesi e il loro vescovo, il metropolita ambrosiano, alleato di quest'ultimo, occupò tre porte della città di Cremona e ne assegnò una, detta Porta Ariberti, ai propri parenti di Arsago e Dovara.
Il 28 marzo 1018, a distanza di un mese e 4 giorni dalla morte dell'arcivescovo Arnolfo, fu consacrato A., che era stato designato "consultu maiorum civitatis et dono imperatoriae maiestatis" (Amolfo, II, 1).
Uomo ambizioso e di forte carattere, il nuovo arcivescovo si propose una missione non meno politica che religiosa, difendendo con ogni mezzo le prerogative tradizionali della cattedra ambrosiana e cercando di restaurare il patrimonio territoriale della Chiesa milanese: a tal fine vincolava a sé quegli enti monastici e religiosi la cui autonomia avrebbe costituito un limite per la sua autorità di metropolita, e si opponeva anche a qualunque forza che, dall'esterno, potesse contrastamele tendenze espansionistiche.
Se dai primi anni dell'episcopato di A. i suoi messi partecipavano alla stesura dei più importan-i atti notarili riguardanti le Chiese ambr03iane in Milano e nel territorio milanese, nel novembre dell'anno 1018 l'arcivescovo stesso interveniva di persona, accanto ad Alberico vescovo di Cmo, al placito tenuto a Bellagio per dirimere la contesa tra l'abate del monastero santambrosiano Goffredo e Andrea abate del monastero di S. Pietro in Civate.
Nel più vasto campo dell'azione politica, poiché esisteva ancora nell'Italia settentrionale un partito arduinico, cui il conte di Milano pare non fosse estraneo, A. cercò appoggio nel rivale dell'ormai tramontato re italico e, per parecchi anni, svolse la sua attività politico-religiosa in accordo con le direttive di Enrico II.
Nell'autunno dell'anno ioiq A. fu, coi suffraganei di Acqui e di Vercelli, alla dieta che i feudatari itafiani tennero a Strasblirgo afia presenza del sovrano germanico e nella quale costui fu invitato a scendere in Italia. Ben poco sappiamo di ciò che fece A. al ritorno dalla Germania. Secondo Landolfò Seniore (II, pp. 20 s.), egli presiedé a Roncaglia un'assemblea di vescovi e di signori italiani in favore di Enrico II, nella quale, tra l'altro, impedì a Eusebio vescovo di Pavia di farsi precedere in processìone dalla croce alzata, poiché tale privilegio spettava solo all'arcivescovo di Milano. Eusebio comprese e, pentito dell'atto di presunzione, donò ad A. la croce della discordia, che fu depositata presso il tesoro della chiesa di Santa Maria, a perpetuo ricordo del fatto. Per quanto questa notizia sia poco attendibile, tuttavia essa ci può confermare quale importanza avesse per il cronista contemporaneo la funzione di restauratore delle prerogative ambrosiane attribuita ad Ariberto.
Nel dicembre dell'anno 1021 Enrico II giunse in Italia attraverso il Brennero e A. fu tra i primi che lo accolsero a Verona. Accanto a lui era un marchese Ugo, in cui è forse da vedere il conte di Milano. Costui, simpatizzante di Arduino, nel novembre del 1021 doveva essere entrato nell'orbita dell'arcivescovo, poiché teneva giudizio nel broletto del palazzo arcivescovile (Manaresi, Placiti, II, n. 308). Il 6 dic. 1021 A. e Ugo, con altri feudatari italici, presenziarono al placito tenuto da Enrico Il a Verona e ne sottoscrissero gli atti (n. 309). Forse in questa occasione l'arcivescovo milanese ottenne dall'imperatore il monastero aronese dedicato al Salvatore e ai santi Gratiniano e Feliciano. A. partecipava anche al conclio di vescovi italiani tenuto nell'agosto 1022 a Pavia dal pontefice Benedetto VIII, in presenza dell'imperatore, per combattere il concubinato. La sottoscrizione del metropolita ambrosiano agli atti del sinodo segue immediatamente quella del pontefice e precede quelle dei vescovi Rainaldo di Pavia, Alberico di Como, Landolfo di Torino, Pietro di Tortona e Leone di Vercelli.
Come in tutta l'attività di A., anche per questa presa di posizione accanto alla corrente riformatrice contro il concubinato i motivi politici furono non meno determinanti degli interessi semplicemente religiosi: vietare il matrimonio dei servi chierici con donne libere significava innanzi tutto tutelare il patrimonio servile della Chiesa. Nella lotta contro il concubinato A. non prese mai posizione decisa, e, anche per questo, il tempo del suo episcopatoparve al nicolaita Landolfo Seniore l'età più felice della Chiesa ambrosiana. Infatti A., anche se non fu personalmente favorevole al matrimonio e tanto meno al concubinato ecclesiastico, non si oppose alla consuetudine, limitandosi a contenerla; ed è ormai dei tutto inaccettabile la tradizione ripresa da Galvano Flamma (Chronicon, p. 106) di un suo presunto matrimonio con la nobile Usseria. È certo, invece, che A. tentò di restaurare la vita canonicale, riconoscendone l'importanza ai fini di un risanamento morale e insieme economico della vita ecclesiastica (Violante, La Società, pp. 234 ss.).
Negli anni 1023-1024 A. prese posizione anche verso i monasteri della sua diocesi, di antica e recente fondazione, legandoli strettamente alla cattedra episcopale, con il consenso dello stesso pontefice. Benedetto VIII, nel 1023, mise a sua completa disposizione il monastero di S. Vincenzo, che si pretendeva esente; nello stesso anno l'arcivescovo fondò presso la chiesa di S. Dionigi e S. Aurelio a Porta Orientale un nuovo monastero, per arricchire il quale, afferma arbitrariamente Galvano, Flamma, avrebbe sottratto beni al patrimonio di S. Vincenzo.
Come risulta dall'atto di fondazione (Puricelli, De ss . Martyribus Arialdo Alciato et Herlembaldo, Mediolani 1657, pp. 485 s.), A. trasmise molti dei suoi possessi personali al nuovo ente ecclesiastico e diede anche disposizione per il suo ordinamento interno, regolarido il numero dei monaci che avrebbero dovuto occuparsi anche dell'annesso ospedale per i poveri. Non molto tempo dopo, A. consacrò a Ternate (Varese) una chiesa dedicata al S. Sepolcro, concedendola prüna in patronato al costruttore, un certo Ansegiso di Orléans, che fu autorizzato a costituirvi una canonica esente da ingerenze arcivescovih, assorbendola in seguito (1025)nell'ambito della mensa arcivescovile.
Nel disorientamento dei feudatari italiani seguito alla morte di Enrico II (12 luglio 1024) e alla designazione di Corrado II il Salico, A., rompendo ogni indugio, si recò a Costanza, non tanto per eleggere, il sovrano, come vorrebbe Amolfò (11, 2), quanto per manifestare al sovrano designato le simpatie dei feudatari italiani, di cui egli si presentava automaticamente quale portavoce, e per garantire la corona a Corrado, se fosse venuto in Italia. Corrado compensò l'arcivescovo milanese, conferendogli il diritto di investire il vescovo di Lodi, che egli già consacrava, e assegnandogli in questa occasione, o poco più tardi, piena potestà sulla abbazia di Nonantola, concessioni oltremodo utili a rafforzare l'autorità esercitata in Lombardia da Ariberto.
I rapporti tra il presule ambrosiano e Corrado II si fecero più stretti, quando questi scese in Italia: A. non si recò a Verona per i ncontrarlo, ma lo accolse trionfalmente a Milano e quindi lo incoronò solennemente re d'Italia, secondo la promessa. Il 23 marzo 1026 il sovrano ricambiò il favore, ratificando con un diploma le concessioni dell'arcivescovo al monastero di San Dionigi (Diplomata Chonradi II, n. 58); insieme, poi, Corrado e A. si mossero contro i Pavesi, rei di aver chiuso le porte della città alla suprema autorità politica. Nell'anno successivo A. accompagnò Corrado a Roma per la coronazione imperiale che avvenne il 26 marzo per mano di Giovanni XIX.
Sorse in questa occasione una disputa per questioni di precedenza tra A. e l'arcivescovo di Ravenna. Narra Amolfo (11, 3) che costui, mentre il corteo pontificio passava dalla basilica Lateranense a quella V~aticána, si pose, alla destra dell'imperatore, occupando il posto che era proprio dell'arcivescovo milanese. A., offeso si ritirò. E non riprese poi il suo postci, facendosi sostituire da Arderico vescovo di Vercelli, neppure quando Corrado II dichiarò apertamente che l'arcivescovo milanese, cui spettava il privilegio della coronazione regia, aveva anche il diritto di presentare il re al vicario di Pietro per la coronazione imperiale. Sempre secondo Arnolfo, un concilio, tenuto qualche giorno dopo, avrebbe riconosciuto definitivamente il diritto del metropolita ambrosiano relativamente alla questione della precedenza.
Si hanno molti dubbi sulla reale portata di questa decisione: sappiamo che il 6 apr. 1027fu tenuto un sinodo a Roma "in ecclesia Salvatoris Costantiniana" (cfr. Rescriptum Clementis Papae II ad omnes ecclesiae filios, del gennaio 1046, inMigne, Patr. Lat., CXLII, coll. 582), ma in esso il posto alla destra del pontefice toccò probabilmente al patriarca di Aquileia che se lo vide definitivamefite assegnato per il futuro, grazie all'intervento di Corrado II, qualche mese dopo (Jaffé I, 4085;Violante, La Pataria, pp. 81 s.). La inesattezza di Arnolfo può essere giustificata, se si pensa che egli con questa precisazione mirava a consacrare la supremazia di A. non tanto nell'ambito della gerarchia ecclesiastica, quanto nel gioco delle forze politiche: poiché con A. veniva definitivamente riconosciuto il diritto dell'arcivescovo milanese alla coronazione del re d'Italia, il cronista attribuì probabilmente al pontefice o al concilio una determinazione di precedenza, che piuttosto doveva trovare il suo fondamento nel precetto regio.
Durante l'assenza del metropolita era morto il vescovo di Lodi; A., al suo ritorno, forte dei privilegio avuto dall'imperatore, consacrò e investì Ambrogio prete cardinale della metropolitana, ma i Lodigiani si ribellarono e presero le armi.
A. combatté di persona sotto le mura di Lodi, finché gli abitanti, per timore di mali più gravi, cedettero e elessero essi stessi Ambrogio, pur di non accettame la nomina come proveniente da Ariberto. In questo periodo, secondo quanto narra Arnolfo (II, 20 ), furono trovate e portate nella chiesa di S. Michele subtus Domum le reliquie di s. Giovanni Bono, ritenuto per tradizione l'ultimo arcivescovo milanese rimasto a Genova durante il periodo longobardo. La notizia non è sicura: forse si trattò piuttosto di una traslazione (cfr. Storia di Milano, III, pp. 61 s.). In un ritmo latino, probabilmente composto nello stesso periodo, si narra la vita di Giovanni Bono dalla nascita, avvenuta a Recco da genitori nobiles, alla morte e al testamento con cui egli costituì la Chiesa milanese erede perpetua dei suoi beni (cfr. Bognetti, S. Maria foris Portas, pp. 446, 573). In questo modo A. voleva dare titolo e fondamento giuridico ai possessi della Chiesa ambrosiana in Liguria, che erano minacciati dalle tendenze autonomistiche della Chiesa genovese e dalla pressione dei marchesi Obertenghi di antica tradizione arduinica.
Prima del 1028 A., cui Landolfo Seniore attribuisce tra gli altri meriti anche quello di avere stabilito l'ordinamento della Chiesa ambrosiana (cfr. Storia di Milano, III, p. 45), convocò gli abati della città e il clero ordinario della cattedrale per comporre contese e estirpare abusi.
In realtà A. provvide al solo monastero di Sant'Ambrogio, riconoscendone i diritti sulla corte di S. Siro, ove già anticamente esisteva una cella, e permettendo all'abate Goffredo di prendere decime a Caviate e Origgio, ove esistevano celle soppresse. In tal modo egli sanciva la soppressione delle celle indipendenti, cercando di evitarne dannose ripercussioni e, al tempo stesso, faceva sentire il suo controllo sulle organizzazioni monastiche milanesi. Poco dopo, probabilmente nel 1028, intraprese una visita pastorale per rinsaldare i legami religiosi e disciplinari coi suffraganei. Mentre si trovava a Torino, A. venne a sapere che nel castello di Monforte in diocesi di Asti erano asserragliati alcuni eretici e che Olrico vescovo di Asti non era riuscito a domarli. Recatosi sul posto, A., prima di usare la forza, invitò a colloquio uno degli eretici.
Si presentò un certo Girardo ed egli lo interrogò abilmente, così da verificare di persona la gravità di quella eresia, una delle molte che, sostenute da uomini elevati socialmente e dottrinalmente, si diffondevano negli ambienti sociali più modesti, fra i ceti più insofferenti del dominio econornico e politico della feudalità ecclesiastica (Violante, La Società, pp. 176 ss.). Vista l'impossibilità di una conciliazione con Girardo e coi suoi compagni, A. diede ordine di conquistare il castello e imprigionarne gli abitanti. I prigionieri, custoditi a Milano per qualche tempo, pare creassero disordini, facendo proseliti in città, sì che quasi tutti furono dannati al rogo, essendosi rifiutati di abiurare.
Non è ben chiara la parte avuta dall'arcivescovo nel determinare questa pena: Landolfa Seniore (II, 27) lo dice contrario a tali disposizioni, di cui fa cadere sui maiores laici, cioè sui capitanei, tutta la responsabilità; ma la sua affermazione sembra inaccettabile, perché è difficile pensare a un disaccordo tra A. e i capitanei, né tanto meno si può ammettere una imposizione dei milites proprio nel momento in cui la potenza dell'arcivescovo era in ascesa.
Il nome di A. e dei suoi messi compare in atti privati degli anni 1028-1033 riguardanti beni della Chiesa milanese: nel marzo dell'anno 1029 A. acquistò dai coniugi Rebaldo e Cesaria di Comazzo una corte e beni fondiari a Talamona (Valtellina), estendendo al nord i suoi i nteressi, proprio mentre il suo nipote Girardo penetrava, come sappiamo, nel territorio, cremonese.
Nel 1034 un nuovo campo di azione si presentò ad A.: Corrado II chiedeva ai feudatari italiani aiuto per riconquistare la Borgogna contesagli da Oddone conte di Champagne. A. rispose all'appello, radunò un esercito e, unite le sue forze a quelle di Bonifacio di Toscana e di Umberto Biancamano, attraverso il S. Bernardo giunse in Francia. Prima di partire egli aveva steso il suo testamento con cui distribuiva i suoi beni posti nel contado di Lodi, a Abbiategrasso e a "Ogialo" (forse Oggiona, prov. di Varese) alle principali Chiese milanesi entro e fuori le mura e a sette monasteri femminili della città. Però stabiliva che l'amministrazione e il conseguente usufrutto di questi beni appartenessero al clero della cattedrale, che doveva servirsene per distribuzioni al popolo in giorni stabiliti.
A. tornò incolume e glorioso dalla spedizione militare; tuttavia nella città egli trovò qualcosa di mutato, in quanto si era rotto l'equilibrio che gli aveva permesso una tanto rapida ascesa. Di lui aveva un buon ricordo fl popolo, memore delle sue elargizioni e del suo intervento in occasione della grave carestia seguita al tramonto del regno arduinico e durante un lungo periodo di siccità; forse gli erano riconoscenti i mercatores, cui soprattutto aveva giovato l'introduzione della tregua di Dio, mentre erano insoddisfatti i capitanei e i valvassori: gli uni a causa della sua prepotenza poiché, come afferma Arnolfo (II, 10), "paululum dominabatur omnium suum considerans non aliorum animum"; gli altri, che avevano sopportato il peso maggiore della spedizione transalpina, per desiderio di un miglioramento delle loro condizioni.
Dai valvassori partì la scintilla di quella contesa che li oppose al fronte della nobiltà, legata per ora all'arcivescovo.
A. cercò di interporsi, ma il tentativo di pacificazione fallì e i valvassori uscirono dalla città, trovando appoggio presso i signori del contado di Seprio e della Martesana. La battaglia di Campomalo, cui anche A. partecipò, non ebbe né vincitori né vinti; pare, infatti, che ambedue le parti abbiano chiesto aiuto a Corrado II.
Nel febbraio del 1035 A. investì il diacono Liutprando di beni posti a Casbeno; nel marzo del 1036 elargì alla chiesa plebana di S. Vittore Superiore di Varese beni a Casbeno e a Biumio Superiore (Manaresi-Santoro, n. 248) e nell'ottobre consacrò a Milano la chiesa di S. Satiro, che era stata eretta dallo arcivescovo Ansperto nel giardino della sua abitazione.
Corrado II, trascorso a Verona il natale dell'anno 1036, venne a Milano ai primi di gennaio defi'anno successivo. A. lo accolse con gran fasto, ma, il giorno dopo il suo arrivo, nella città scoppiò un tumulto che i cronisti attribuiscono a cause diverse: secondo Wipone (cap. 35) il Popolo temette che Corrado Il sostenesse i valvassori; secondo Arnolfa (II, 12), i Milanesi si risentirono perché correva voce che l'imperatore volesse togliere ad A. la facoltà di investire il vescovo di Lodi. Corrado abbandonò Milano e si stabilì a Pavia, ove indisse una dieta per regolare le contese del regno. Il metropolita ambrosiano, sulla cui fedeltà forse l'imperatore nutriva dubbi, vi fu invitato per rispondere alle accuse mosse contro di lui da coloro che si ritenevano vittime di soprusi e usurpazioni. Landolfo Seniore (II, 22) menziona "quidam trasmontanus" che rivendicò il possesso della corte di Lecco, Wipone un certo Ugo conte e "alii quamplures Italici" (cap. 35). Dovette trovarsi tra costoro anche Ubaldo vescovo di Cremona (Dipl. Heinrici III, n. 251). A. sdegnò ogni giustificazione, suscitando la collera dell'imperatore, il quale era ormai certo che l'arcivescovo milanese fosse il responsabile indiretto non solo dei disordini, ma anche della situazione che aveva indotto i valvassori a ribellarsi, e ne ordinò l'arresto. Landolfo narra indignato che i militi italiani si rifiutarono di eseguire il comando, ma i "canes palatini et saevissimi Teutonici qui nesciunt quid sit inter dexteram et sinistram" arrestarono l'arcivescovo (II, 22). Questo fatto suscitò un'enorme impressione: ed è ricordato infatti nelle cronache e in molte fonti germaniche. A. fu affidato alla custodia di Poppone patriarca di Aquileia e di Corrado duca di Carinzia e rinchiuso in un castello piacentino poco lontano dalla, Trebbia. La sua prigionia durò soltanto due mesi: mentre i Milanesi, che avevano accolto la notizia della sua cattura come una sventura cittadina, cercavano alleati per reagire, A. riuscì ad evadere con l'aiuto della badessa del monastero piacentmo di S. Sisto.
Narra Landolfo Seniore (II, 22), e crediamo non siano estranee al racconto reminiscenze letterarie, che costei, per mezzo di un servo fedele, mandò ad A. cibi e bevande per soddisfare l'ingordi gia dei custodi germanici e ottundere le loro facoltà. Secondo Wipone, invece (cap. 35), A., per ritardare la conoscenza della sua fuga, avrebbe lasciato nel suo letto il servo chiamato Albizzone, che accettò di affrontare questo rischio per amore e fedeltà verso il suo metropolita. Il Barni (Storia di Milano, III, p.85) ritiene di non poter accettare la versione di Landolfo perché, tra i diplorni dati da Corrado negli anni successivi, uno, favorendo il monastero pi acentino di S. Sisto (Monumenta Germ. Hist., Diplomata Chonradi, n. 264, 20 marzo 1038), ne proverebbe la fedeltà all'imperatore. Sembra più vicino a verità il racconto di Wipone, perché i servigi resi da Albizzone ad A. sono ricordati nel diploma concesso, nel 1040, dal metropolita ambrosiano al monastero di Tolla, di cui lo stesso Albizzone era stato nominato abate (Ughelli, Italia sacra, IV, coll.103 s.). Tolla fu probabilmente la prima tappa del viaggio di A. verso Milano; di là egli passò a Bobbio, Tortona, Voghera, finché giunse alla metropoli trionfalmente accolto dai Milanesi che, feriti per l'offesa recata al successore di Ambrogio, avevano ormai compreso come il destino di A. non potesse essere diviso da quello della loro città. Come atto di riconoscimento verso Dio, l'arcivescovo fece restaurare e adomare la basilica di S. Dionigi, nella quale fu posta una croce di legno rivestita di rame; nella parte inferiore di essa era raffigurato A., in atto di offrire a Cristo la basilica e con le catene spezzate ai piedi. Intanto cittadini di parti diverse, attratti dal fascino dell'uomo non meno che dall'idea che egli rappresentava, risposero generosamente alle sue iniziative: fu intrapresa la fortificazione della città, rinforzando le difese già esistenti, come quelle di porta Romana, e innalzando nuove torri.
Impossessatosi del castello di Landriano, Corrado II si accampò lungo il fiume Vettabbia (Olona) e in tre giorni preparò l'offensiva. Il 19 maggio la città fu assalita da ogni parte, ma resisté. Anche l'arcivescovo probabilmente combatté sulle mura coi suoi concittadini, finché l'imperatore, disperando della vittoria, abbandonò i mezzi militari per quelli politici e, per dividere la coalizione dei cittadini intorno all'arcivescovo e attirare a sé i valvassori, promulgò, senza consultare la dieta dei grandi dell'impero, la Constitutio de feudis che sanciva l'ereditarietà e l'irrevocabilità dei feudi minori. Tuttavia il provvedimento regio non ebbe effetto; il 29 maggio Corrado tolse l'assedio e poco dopo abbandonò le armi. Incontratosi a Cremona con papa Benedetto IX, egli decretò A. decaduto dalla dignità episcopale e designò come nuovo arcivescovo un canonico ordinario del duomo, di nome Ambrogio; ma i Milanesi dimostrarono subito la loro opposizione al vescovo imperiale eliminandone violentemente i suoi seguaci e A. mandò ambasciatori a Oddone di Champagne, il suo nemico di tre anni prima, per offrirgli la corona del regno italico.
I messi non ricevettero risposta perché Oddone era morto combattendo contro il duca di Lorena; anzi, sulla via del ritomo, si imbatterono nelle milizie di Berta, vedova del marchese Olderico Manfredi di Torino, e furono arrestati e inviati all'imperatore. Corrado interrogandoli venne a sapere che i vescovi Arderico di Vercelli, Ubaldo di Cremona, Pietro di Piacenza avevano accondisceso al piano di Ariberto. Punì costoro mandandoli come ostaggi in Germania, non toccò A. che sapeva forte dell'appoggio di tutti i cittadini, ma indusse papa Benedetto IX a scomunicare il presule milanese. Neppure l'anatema pronunciato a Spello il 24 marzo 1038 (Jaffè, I, post 4110) distaccò i cittadini dall'arcivescovo: poiché l'azione del pontefice completava quella dell'imperatore, era implicita nella posizione antimperiale di Milano la ribellione al papato (Violante, La società, p. 203).
Nell'estate del 1038 Corrado II tornò in Germania, lasciando ai signori italiani il compito di combattere contro A. e i Milanesi. Poiché quelli preparavano un nuovo terribile assedio, l'arcivescovo fece appello a tutte le classi sociali per difendere i comuni interessi chiamando alle armi tutti i cittadini "a rustico usque ad militem, ab inope usque ad divitem" (Arnolfo, II, 16) e, a sostegno dei combattenti, creò il famoso "Carroccio". Tutto era pronto quando improvvisamente giunse la notizia della morte di Corrado (4 giugno 1039) e ogni operazione fu sospesa. Pur cessando il pericolo immediato, la situazione rimase grave per Milano ove l'arcivescovo non poteva più dominare i capitanei ormai uniti ai valvassori che la Constitutio aveva loro equiparato. A. non fu ad Augusta il 2 febbr. 1040 con gli altri feudatari italiani che si erano riuniti intorno a Enrico III, ma è probabile che, proprio in sua assenza, si fossero ripetute a suo carico le lamentele di coloro che si ritenevano offesi dalle sue usurpazioni; il vescovo di Cremona dovette presentare al sovrano un abbozzo di diploma che contemplava la restituzione alla Chiesa cremonese dei beni sottratti da A. e da Gariardo (Violante, Aspetti della politica..., pp.163 ss.). Il diploma non fu completato poiché A., dopo la Pasqua, si recò in gran fretta a Ingelheim.
Discordano i cronisti nel riferire l'incontro dell'arcivescovo con Enrico III; Landolfo parla di difficoltà (II, 26); Arnolfo attribuisce al sovrano una simpatia personale per A. (II, 17); Galvano Flanima (Manipulus Florum, cap. 144) afferma persino che A. si sarebbe recato in Germania per offrire la corona al sovrano; le fonti germaniche dicono che A. rese soddisfazione a Enrico III (Ann. Saxo, p. 684; Ann. Magdeburgenses, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XVI, Hannoverae 1859, p. 171) e che fu da lui restituito nella dignità episcopale (Ann. Altahenses, in Monumenta Gerin. Hist., Scriptores, II, Hannoverae 1829, p. 23). Probabilmente l'accordo tra il sovrano e A. fu sollecitato dalla pressione dei feudatari tedeschi che volevano risolta, sia pur attraverso un compromesso, la situazione italiana prima della spedizione contro i Boemi, e deve essere inquadrato nella politica di "riforma imperiale" perseguita da Enrico III attraverso un rigido controllo della gerarchia ecclesiastica (Violante, Aspetti della politica..., pp. 172 ss.). A., giustificato, scortò Enrico III fino a Colonia e poi riprese la via dell'Italia. A Milano trovò la situazione peggiorata; il popolo, che vedeva aumentati dopo la Constitutio isuoi padroni, si ribellò, prendendo occa-sione da un atto di violenza compiuto da un valvassore verso un popolano.
Dopo un breve scontro i nobili abbandonarono la città; anche A., ormai settantenne abbattuto e ammalato, usci in lettiga qualche giorno dopo e confessò così la sua impotenza a dominare la situazione. I milites del Seprio e della Martesana ancora una volta si allearono ai fuorusciti, accampandosi con loro intorno alla città.
Nel 1043venne in Lombardia il messo regio Adalgerio; di A. sappiamo solo che presenziò il 19 aprile al placi to tenuto da costui a Pavia (Manaresi, Placiti, III, n. 356).Sembra dunque strano che il rappresentante dei cives, Lanzone, nel suo colloquio con Enrico III, parlasse di A. come di un nemico. È più probabile che, come un sorpassato, l'arcivescovo si lasciasse trasportare dai fatti. Già nell'aprile del 1042, tanto debole da non poter neppure scrivere, con una disposizione testamentaria aveva donato beni alla Chiesa metropolitana e alla canonica da lui istituita per 12 preti dell'ordine dei decumani detti pellegrini; un nuovo testamento stese a Monza nel 1044, gli ultimi giorni di dicembre, in favore dei tre figli di suo nipote Gariardo: Gariardo, Lanfranco e Ariberto chierico.
Contemporaneamente donò alla chiesa di S. Giovanni di Monza la corte di Casate e altri beni, riservando all'arcivescovo l'usufrutto di alcuni di essi e il diritto di nominare i preti della éhiesa, non esigendo che sei. denari, secondo quanto stabilito da Arderico fonda, tore della canonica.
Quando ormai i cittadini pacificati erano tornati in città, A. si fece ricondurre a Milano, ormai soltanto per morirvi. Si spense infatti il 16 genn. 1045 e fu sepolto in S. Dionigi.
Landolfo Seni ore, il cui racconto ha spesso intonazioni miracolistiche (cfr. II, 28, 31), attribuisce ad A. azioni miracolose anche dopo la morte. Narra infatti che i monaci di S. Dionigi, vedendo usurpato il patrimonio lasciato loro dall'arcivescovo e confermato da Enrico III (22 febbr. 1045: Dipl. Heinrici III, n. 131), il 30 settembre scoperchiarono la tomba per porgere ad A. le loro suppliche e ne ritrovarono il corpo intatto. La tomba fu richiusa il giorno dopo tra la venerazione del popolo e la soddisfazione dei monaci che, più tardi, si videro restituire le terre usurpate. li Castiglioni (pp. 136s.) ricorda anche una glossa del codice di Landolfo la quale avverte che, il 23 ag. 1403, un fulmine aprì la tomba; allora i monaci raccolsero le reliquie di A. e le posero nell'altare maggiore della chiesa, ma l'arcivescovo Pietro Filargo le fece ricollocare nel primitivo sepolcro. Questo, che era ormai vuoto, accolse nel maggio del 1440le ossa dell'abate Luigi De Carcano. Nel 1783, quando S. Dionigi fu distrutto, l'uma di A. fu trasportata in duomo, ove tuttora si trova, appoggiata alla parete destra.
Fonti e Bibl.: Diplomata Heinrici II, Chonradi II, Heinrici III, in Monumenta Germ. Hist., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III, IV, V, Hannoverae 1900-1909, Berolini 1931; I placiti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, II, Roma 1957-58, docc. 302, 308; III, ibid. 1960, doc. 356, in Fonti per la Storia d'Italia, XCVI-XCVIII; Atti privati milanesi e comaschi del sec. XI, I, a cura di G. Vittani-C. Manaresi, Milano 1933, docc. 93, 99, 103, 115, 118, 129; II, a cura di C. Manaresi - C. Santoro, ibid., 1960, docc. 164, 165, 175, 209, 218, 228, 248, 294, 310, 311; Landulphi Senioris Historia Mediolanensis libri quattuor, in Rer. Italic. Script.,2 ediz., a cura di A. Cutolo, I. II, cc. 20-21, 22, 27, 28, 30, 33; Arnulphi Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, VIII, Hannoverae 1848, l. II, cc. 1, 2, 3, 10, 12, 14, 18; Wiponis Vita Chuonradi II imperatoris, ibid., XI, Hannoverae 1878, pp. 254-275; Flammae Galvani Manipulus Florum sive Historia Mediolanensis, in L. A. Muratori, Rer. Italic. Script.,XI, Mediolani 1727, coll. 531-740; Id., Chronicon Maius, a cura di A. Ceruti, in Miscell. di storia ital., VII, Torino 1869, pp. 445-505. Oltre alle storie generali di G. Giulini, Memorie spettanti alla storia della città e diocesi di Milano nei secoli bassi, 2 voll., Milano 1854-57, specialmente vol. II, pp. 102 ss.; S. Hirsch, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich II, III, Leipzig 1875, pp. 123, 137 ss., 195, 213 n. 1, 214, 217;H. Bresslau, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Konrad II, I, Leipzig 1879, pp. 71, 79 ss., 108, 122, 124, 133, 138 n. 3, 139, 144, 148 n. 4, 149, 318, 417, 453s.; II, ibid. 1884, passim;E.Steindorff, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich III, I, Leipzig 1874, passim;II, ibid. 1881, pp. 261 n. 4, 304, 359;G. L. Barni, Dal governo del vescovo a quello dei cittadini, in Storia di Milano, III, Milano 1954, pp. 22, 33 ss., 39 ss., 65, 85 n. 3, 91; A. Bosisio, Storia di Milano, Milano 1958, pp. 87 ss.; si vedano P. Rotondi, Ariberto d'Intimiano arcivescovo di Milano, in Arch. stor. lombardo, n. s., XVIII (1863), pp. 54-89;A. Amati, A. e Lanzone, ossia il risorgimento del Comune di Milano, Milano 1865;H. Pabst, De Ariberto II Mediolanensi Primisque Medii Aevi motibus popularibus, Berlin 1868;P. Lombardini, Arsago oltre l'Adda (schizzo storico), Milano 1872, pp. 11-16;F. Schupfer, La società milanese all'epoca del risorgimento del Comune, Milano 1876, passim;V. Pfenniger, Kaiser Konrads Beziehungen zu Aribo von Mainz, Pilgrim von Köln, und Aribert von Mailand, Breslau 1891;C. Cipolla, Di un luogo controverso dello storico Wipone, in Arch. stor. lombardo, XVIII (1891), pp. 157-167;G. Pagani, Che fiume sia l'Atis e di che paese i "loca, montana" di. Wipone, ibid., XIX(1892), pp. 5-28; A. Ratti, Il probabile itinerario della fuga di A. arcivescovo diMilano da un suo autografo inedito, ibid., XXIX(1902), pp. 5-25; Id., Ancora il probabile itinerario della fuga di A., ibid., XXIX(1902), pp. 476-81; E. Wunderlich' A. von Antimiano Erzbischof von Mailand, Halle 1914; C. Manaresi, Notizie sulla.famiglia di A., in Arch. stor. lombardo, XLIX (1922), pp. 394-396; A. Colombo, Milano feudale e comunale, Milano 1928, passim;G. P. Bognetti, L'abbazia regia di, S. Salvatore di Tolla, in Bollett. stor. Piacentino, XXIV (1929), pp. 111 ss.; A. Bosisio, Origini del Comune di Milano, Messina-Milano, 1933, passim;G. Zanetti, Il comune di Milano dalla genesi del consolato fino all'inizio del periodo podestarile, Milano 1935, passim;.A. Colombo, Milano sotto l'egida del Carroccio, Milano 1935, pp. 48, 73, 74 s., 80, 81, 87, 88, 89, 90, 91, 94, 96, 102 n. 10, 106-107 n. 37, 108 nn. 47, 50, 109 n: 56, 111 n. 75, 114, 115, 159, 186 n. 45; C. Castiglioni, A., Brescia 1947; G. P. Bognetti, S. Maria di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in S. Maria foris portas di Castelseprio, Milano 1948, pp. 218 s., 236, 348 ss.; P. Zerbi, Monasteri e Riforma a Milano (dalla fine del secolo X all'inizio del XII), in Aevum (1950), pp. 44-53, 160 -176; C. Violante, Aspetti della politica italiana di Enrico III prima della sua discesa in Italia (1039-1046), in Riv. stor. ital., LXIV (1952), pp. 157-176, 293-314; Id., La società milanese nell'età precomunale, Bari 1953, pp. 171 ss., 186 n. 49, 194, 204, 236; Id., La Pataria milanese e la riforma ecclesiastica, I:(Le premesse: 1045-1057), Roma 1955, passim;A. Bosisio, Prospettive storiche sull'età precomunale e comunale in Milano negli studi più recenti, in Arch. stor. ital., XCIV(1956), pp. 201-216; E. Nasalli Rocca di Cornegliano, Un'antica dipendenza dell'arcivescovo milanese, l'abbazia di S. Salvatore e S. Gallo di Tolla, in Studi in onore di C. Castiglioni, Milano 1957, pp. 591-612; A. Paredi, Il sacramentario di A.(edizione completa), in Miscellanea A. Bernareggi, Bergamo 1958, pp. 329-488. Per i monumenti e le testimonianze artistiche dell'età di Ariberto cfr., oltre alle opere generali di P. Toesca, , Storia della pittura e miniatura in Lombardia (dai più antichi monumenti alla metà del 1400), Milano 1912; E. Arslan, L'architettura dal 568 al 1000, in Storia di Milano, II, Milano 1954, pp. 600 ss.; R. Salvini, La pittura dal secolo XI al XIII, ibid., III, pp.603 ss., anche le monografie di C. Annoni - G. Labus, Monumenti efatti politici e religiosi del borgo di Canturio e sua Pieve, Milano 1835, passim;G. Allegranza, Relazione dell'antica Chiesa e Battistero di Galliano, in Opuscoli eruditi latini ed italiani... raccolti e pubbl. dal p. I. Bianchi, Cremona 1781, pp. 196 n., 200, 201, 202; C. Annoni, Monumenti della prima metà del secolo XI spettanti all'arcivescovo di Milano A. d'Intimiano ora collocati nel nostro Duomo, Milano 1872; A. Garavoglio, Il Battistero di Galliano, in Arch. stor. lomb., XIII(1886), pp. 447-450, 947-967; A. Repossi, La Basilica di S. Vincenzo in Galliano Presso Cantù, in Ambrosius (1927), pp. 258 ss.; G. R. Ansaldi, Gli affreschi della Basilica di S. Vincenzo in Galliano, Milano 1949, pp. 25 ss., A. De Capitani D'Arzago, Graffiti nella Basilica di S. Vincenzo di Galliano, in Rib. Archeolog. della diocesi e provincia di Como, CXXXIII(1952), pp. 23-27; A. Pica, Galliano, Cantù 1956, pp. 7, 30; A. Paredi, Le miniature del sacramento di Ariberto, in Studi in, onore di C. Castiglioni, Milano 1957. pp. 699-717.