Eresia, arianesimo e dottrina trinitaria
In quanto capo della Chiesa, Costantino ebbe a occuparsi di due eresie in ambito cristiano, il donatismo e l’arianesimo. Mentre la crisi donatista fu occasionata da motivazioni d’ordine disciplinare, interessò soltanto l’Africa, e i provvedimenti conciliari approvati dall’imperatore sul momento sembrarono averne infrenato i contrasti, la crisi ariana, motivata da contrasti di carattere dottrinale che si trascinavano da circa un secolo e mezzo e coinvolgevano tutto l’Oriente, impose all’imperatore un impegno molto maggiore, di cui il concilio ecumenico di Nicea (325) fu il provvedimento più appariscente, ma, di fatto, molto poco conclusivo. In effetti la condanna di Ario e della sua dottrina fu espressa in termini così ambigui, e largamente impopolari in Oriente, che l’autorità dell’imperatore non riuscì a imporre più che una tregua provvisoria1.
Quando Costantino, a seguito della nuova politica religiosa inaugurata dall’editto del 313, diventa immediatamente supremo reggitore anche della Chiesa cattolica, si trova subito alle prese con un’emergenza del tutto nuova per chi proveniva dalle file del paganesimo. In effetti il complesso di religioni che per comodità definiamo con questo nome, fondato su miti e riti, non aveva dato vita a una riflessione teorica raffinata, e la dimensione religiosa caratteristica di varie correnti filosofiche si era articolata in concezioni diverse della divinità, ma i contrasti di qui derivati erano rimasti circoscritti all’ambito scolastico e di alto livello culturale. Anche in ambito giudaico vi erano varie correnti diversificate sul piano sia del pensiero sia della prassi – si pensi alle forti differenze tra farisei e sadducei in materia di Sacra Scrittura –, ma i diversi orientamenti riuscivano a convivere uno accanto all’altro e l’inevitabile ostilità rimaneva circoscritta in limiti di accettabile convivenza. In ambiente cristiano le cose vanno diversamente, e alla constatazione del fatto si accompagna l’incertezza circa il perché. Si può ipotizzare che, già nella prima generazione dei discepoli di Cristo, il contrasto tra fedeli di provenienza giudaica (giudeocristiani) e di provenienza pagana (etnocristiani), riguardante l’osservanza delle norme legali e cultuali giudaiche, in quanto radicato in una differenza di carattere etnico, presenti un potenziale di forte conflittualità, tanto più che gli inevitabili influssi di concezioni religiose di provenienza esterna al mondo giudaico estendono i contrasti dall’ambito puramente etnico a quello della riflessione dottrinale. Questa viene innescata dalla pluralità di opinioni riguardanti la figura storica che è il fondamento dell’autocoscienza della nuova corrente religiosa nell’ambito del giudaismo, cioè Gesù di Nazareth. C’è chi lo considera soltanto un uomo dotato di carismi di singolare importanza e chi lo fa assurgere al livello della divinità, con una gamma di opinioni intermedie. Dato che proprio e solo la fede in Gesù il Cristo specifica i suoi discepoli nell’ambito del mondo giudaico, queste differenze sono potenzialmente foriere di divisione. È forse possibile aggiungere che l’organizzazione molto debole che inizialmente si danno i discepoli di Gesù, un complesso di comunità autonome luna dall’altra e connesse tra loro in un corpo considerato unitario soltanto sulla base della specificazione religiosa della fede in Gesù, fa sentire l’esigenza che questa fede abbia un fondamento sicuro quanto all’identità di colui che gradualmente viene considerato fondatore di una nuova religione.
I contrasti riguardanti l’osservanza delle norme giudaiche e la figura di Gesù emergono per tempo nella comunità dei discepoli di Gesù, ma in un primo momento, almeno nei limiti della documentazione tutt’altro che esaustiva di cui si dispone, nonostante casi di forte conflittualità (la concezione paolina a confronto con quella dei missionari giudaizzanti, la proposta di Paolo contro quella di Pietro), non sembra che essi abbiano provocato vere e proprie scissioni. Per essere esatti, un caso di scissione sembra prodursi nell’ambito della comunità che si richiama all’autorità dell’apostolo Giovanni, a causa di divergenze circa l’apprezzamento della figura di Gesù, ma il testo che ne dà notizia2 non fa capire in che termini, con quali provvedimenti, con quali conseguenze questa scissione si sia prodotta. D’altra parte, sempre sul supporto di un’informazione insufficiente, non pare che radicali differenze in ambito cristologico, come rileviamo tra Paolo e Giovanni da una parte e la Didachè dall’altra3, abbiano provocato scissioni e conflitti. A questo proposito, comunque, si ipotizza ragionevolmente che, se la struttura debole della comunità cristiana favoriva il proliferare di opinioni contrastanti sui medesimi argomenti, d’altro canto il reciproco isolamento delle piccole comunità permetteva che queste opinioni contrastanti potessero convivere senza troppi conflitti. Il fatto nuovo è rappresentato, negli anni Trenta e Quaranta del II secolo, dall’insorgere delle crisi gnostica e marcionita. Marcione radicalizza la contrapposizione paolina tra la Legge giudaica e il messaggio di Gesù fino a farli derivare da due diverse divinità: il Dio dei giudei e della loro Scrittura, creatore del mondo, giusto e vendicativo, e il Dio sommo e buono, sconosciuto finché Gesù non lo ha fatto conoscere. A questa separazione gli gnostici aggiungono dottrine che, in una cornice mitizzante, predicano nature diverse degli uomini, spirituali e materiali, e di fatto mettono in forse la libertà dell’uomo in ambito morale (cioè di scelta tra il bene e il male). La distinzione tra il Dio dei giudei e il Dio fatto conoscere da Gesù distrugge il fondamentale theologoumenon dell’unicità di Dio, che quelli che ormai si possono definire cristiani avevano ereditato dai giudei e considerano patrimonio irrinunciabile, in polemica col politeismo dei pagani; la messa in forse del libero arbitrio, avvalorando credenze relative al fatalismo astrale largamente diffuse in ambito pagano, vanificano l’impegno di carattere morale che è alla base della vita religiosa cristianamente vissuta, ancora una volta in polemica con i miti e i riti della religione pagana. Il pericolo rappresentato dalla diffusione di queste dottrine viene avvertito dalla comunità, e in particolare dalla gerarchia che la presiede, come tale da sovvertire e disgregare l’unità dei cristiani, che si è detto fondarsi soprattutto sull’unità di fede e che ora viene concepita come complesso di alcuni concetti teologici di base, fondamentalmente la fede in un unico sommo Dio e nel signore Gesù Cristo, e la libertà moralmente decisionale dell’uomo. L’accettazione di questo complesso di credenze viene considerato dirimente riguardo all’appartenenza alla Chiesa cattolica di colui che, in quanto battezzato, è cristiano, dove la specificazione ‘cattolica’ (καθολική) dal significato originario di ‘universale’ viene a significare ‘cattolica’ nel senso attuale del termine, cioè Chiesa che pratica retta fede e dottrina, in contrasto con fede e dottrina eretiche.
La parola αἵρεσις nel greco comune significa ‘scelta, preferenza’, da cui deriva il significato specifico di ‘scuola filosofica’ e, in accezione negativa, di ‘divisione’. In ambito cristiano il termine ha già in Paolo questo significato negativo4, allusivo alle surriferite divisioni nell’ambito della primitiva comunità ecclesiale. In Ignazio di Antiochia, agli inizi del II secolo, insieme con questo significato generico, il termine è attestato anche nel significato più specifico di dottrina erronea: «fate uso soltanto di nutrimento cristiano, evitate erba estranea, che è dire l’eresia» (Trall. 6,1), e questo significato diventa termine tecnico nell’accezione che tuttora gli è propria. D’altra parte, al tempo di Ignazio non è ancora operante una distinzione netta tra dottrina veritiera e dottrina erronea: quella che egli definisce eresia in sostanza è tale per suo personale giudizio, non si sa quanto partecipato a livello comunitario. La prima notizia certa che informa di una vera e propria scissione, cioè di una scissione sanzionata a livello gerarchico, riguarda Marcione, un cristiano di alta condizione venuto a Roma dal Ponto (Asia Minore), il quale nel 1445, avendo la gerarchia romana rifiutato di accogliere la sua dottrina, si separa dalla comunità dando inizio a una sua propria Chiesa. Si sa che, ancora a Roma, verso la fine del II secolo papa Vittore estromette dalla comunione della comunità Teodoto di Bisanzio, a causa di una dottrina cristologica che viene considerata erronea6. Sono vari i motivi per cui si impartiscono condanne e si verificano scissioni, inizialmente in questa o quella Chiesa locale, ma con graduale allargamento e coinvolgimento a volte dell’intera cristianità del tempo. Quella che allora fu definita eresia dei Frigi7, in quanto iniziata in questa regione dell’Asia Minore intorno agli anni Sessanta del II secolo, ma che si era diffusa rapidamente sia in Oriente sia in Occidente (Africa), è motivata da contrasti di natura disciplinare, in quanto i seguaci del presbitero Montano, in nome di una personale ispirazione diretta dello Spirito Santo (il Paracleto), entrano in contrasto con la gerarchia ufficiale e, condannati, si organizzano in comunità separata. In questa difficile congiuntura i vescovi della Chiesa cattolica avvertono più volte l’esigenza di riunirsi collegialmente per affrontare la crisi con provvedimenti unitari, dando origine all’istituto del concilio8. Difficoltà e contrasti d’ordine disciplinare si hanno soprattutto a metà del III secolo, a causa della persecuzione di Decio, che provoca massicce apostasie in tutte le comunità cristiane, con strascico di disordini di ogni genere e conseguenti provvedimenti disciplinari a carico degli apostati (lapsi), desiderosi di essere riammessi nella comunità appena cessato il pericolo. Siamo bene informati, grazie all’epistolario di Cipriano e alla historia ecclesiastica di Eusebio, riguardo alle tumultuose vicende che sconvolsero la vita delle comunità di Roma, Cartagine e Alessandria.
Sono comunque più frequenti i casi di contrasti e condanna per motivazioni di ordine dottrinale, in quanto negli ultimi decenni del II secolo s’intensifica la riflessione su Cristo, con varietà di esiti e conseguenti provvedimenti disciplinari. Si è sopra accennato alla condanna inflitta a Teodoto da papa Vittore; solo qualche anno dopo a Smirne (Asia Minore) il collegio dei presbiteri condanna Noeto, anch’egli auctor di una dottrina cristologica, diversa da quella di Teodoto ma anch’essa giudicata erronea. Qualche anno dopo a Roma, imperversando forti contrasti provocati da dissensi sempre in ambito cristologico, papa Callisto estromette dalla comunità Sabellio e l’autore dell’Elenchos9. Il procedimento mediante il quale si arriva all’approvazione o alla condanna di una novità dottrinale diffusa in questa o quella comunità non è ancora regolato da una normativa ufficiale, sì che la scarsa documentazione disponibile ci presenta modalità diverse: Noeto viene interrogato dai presbiteri, che valutano negativamente la sua dottrina e la condannano, senza aver avvertito – a quanto si conosce – l’opportunità di pubblicare una formulazione positiva di fede10. A Cartagine Prassea, un seguace di Noeto, viene affrontato in pubblico dibattito da Tertulliano, viene convinto di errore e, per evitare la condanna che lo estrometterebbe dalla comunità (excommunicatio, scomunica), sottoscrive un documento dottrinale, non pervenuto, formulato in modo da escludere le proposizioni dottrinali incriminate. A Roma si sa di animate discussioni comunitarie con lancio di reciproche accuse, ma non consta che le condanne inflitte da Callisto siano state precedute da una procedura analoga a quelle di Smirne e di Cartagine11. Va ancora rilevato che la condanna inflitta dalla gerarchia comunitaria comporta l’esclusione dalla comunità di colui che è risultato autore o propagatore di dottrine erronee, che è dire eretiche; ma questa condanna resta un fatto interno alla comunità stessa, sì che il condannato può continuare indisturbato a diffondere la sua dottrina: la condanna di Noeto non impedisce la diffusione della sua dottrina, che trova spazio a Roma, dove, pur infine condannata, influenza profondamente l’impostazione di fede ufficiale della Chiesa romana.
Per introdurre lo specifico argomento dell’arianesimo, è bene prendere le mosse da quelle controversie cristologiche ai cui conseguenti provvedimenti disciplinari si è accennato qui sopra. Nel corso del II secolo, prima in ambito gnostico e poi anche nella Chiesa cattolica, si fa progressivamente strada quella che si definisce dottrina del Logos, in quanto fondata sulla definizione di Cristo come Logos di Dio, che si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni. Il Logos, cioè la Ragione, la Parola di Dio, viene da lui profferito, emanato, generato che dir si voglia, come entità divina da lui distinta e a lui subordinata, da subito definita anche Figlio di Dio, per provvedere alla creazione e al governo del mondo e dell’uomo. Unico mediatore tra Dio e la sua creazione, per il recupero dell’uomo decaduto a causa del peccato, opera pedagogicamente con varie apparizioni ai patriarchi e a Mosè (teofanie) nell’economia veterotestamentaria e corona quest’opera con la sua incarnazione nell’uomo Gesù. Dopo la risurrezione e l’ascensione, continua la sua azione di governo tramite la Chiesa ispirata dallo Spirito Santo, in attesa di tornare alla fine dei tempi in persona di giudice universale. Questa dottrina, che risente di influenze, oltre che gnostiche, anche della filosofia greca coeva, soprattutto platonica e stoica, si presenta come culturalmente raffinata ed è quella che è meglio attestata (Giustino, Ireneo, etc.), perché lo scrivere era attività ristretta a questo livello. In un ambito culturalmente meno elaborato si ipotizza genericamente la coesistenza di concezioni diverse: Cristo uomo divinamente ispirato, ovvero in forma di angelo, e altro ancora, come attesta il Pastore di Erma. Dato fondamentale per tutti è la rigorosa affermazione dell’unicità di Dio12, e da questo punto di vista la dottrina del Logos, in quanto affiancante a Dio Padre, sia pure in posizione di subordine, Cristo Logos, appare diteista13. Per quanto si conosce, due sono le dottrine nelle quali si concreta, in opposizione alla dottrina del Logos, la riaffermazione di un rigoroso monoteismo, cioè della monarchia divina14, come si diceva allora. Teodoto di Bisanzio diffonde una dottrina, definita con termine moderno adozionismo, che considera Cristo soltanto uomo, dotato di particolari carismi15. Questa dottrina, che nella sostanza risaliva fino alle origini della Chiesa, alla fine del II secolo urta contro la diffusa credenza nella divinità di Cristo, sì che, come si è già detto sopra, Teodoto è condannato a Roma da papa Vittore. Continua per altro a essere professata non solo a Roma, ma anche in Oriente. La dottrina monarchiana di Noeto di Smirne è d’indirizzo del tutto diverso: Dio è uno – ragiona Noeto –, Cristo è Dio, quindi Cristo è l’unico Dio, identificandosi perciò con Dio Padre come un suo modo di presentarsi agli uomini quando si incarna nell’uomo Gesù, sì che sulla croce, sotto l’aspetto di Gesù, aveva patito proprio il Padre16. Di qui il nome di patripassianismo con cui questa dottrina è etichettata a Roma, mentre gli studiosi di ora la definiscono modalismo, in quanto Cristo vi viene considerato come un modo di manifestarsi dell’unico Dio. Questa dottrina salvaguarda la divinità di Cristo, pur assorbendola in quella del Padre, e perciò nella comunità cristiana di Roma ebbe notevole diffusione. Qui viene contrastata da quello che si definisce Autore dell’Elenchos, rappresentante della dottrina del Logos, come Ippolito, attivo contro Noeto in Oriente, e Tertulliano, attivo contro il noetiano Prassea a Cartagine. A Roma papa Callisto, per mettere pace nella comunità, ne estromette sia l’Autore dell’Elenchos sia il noetiano Sabellio, proponendo una sua formula di compromesso che, nel nome di uno spirito divino nel quale si identificano il Padre e il Figlio, appare molto sbilanciata in senso monarchiano17. La formula callistiana non sembra aver avuto fortuna neppure a Roma, ma qui l’impostazione ufficiale della Chiesa locale, fino al IV secolo inoltrato, si assesta su posizioni monarchiane genericamente moderate (fatta eccezione per Novaziano e per il persistere della sua dottrina del Logos).
La dottrina del Logos ha grande diffusione nella dotta Alessandria, dove era stata anticipata dalla riflessione del giudeoellenista Filone, prima per opera di Clemente e poi di Origene. Soprattutto quest’ultimo la sviluppa organicamente in senso trinitario nell’affermazione di tre ipostasi (ὑποστάσεις), cioè persone, divine, Padre, Figlio e Spirito Santo, disposte in ordine digradante ma partecipi tutte e tre di ogni carattere distintivo della divinità18. Questa dottrina rileva la distinzione delle ipostasi l’una rispetto all’altra, ma non definisce altrettanto chiaramente la loro unità per cui, pur tre, costituiscono un solo Dio: Origene la concepisce dinamicamente, in quanto unità di volontà e operazione, una concezione non sufficiente a rimuovere l’opposizione dei monarchiani. Si vede perciò il vescovo Dionigi impegnato, negli anni Cinquanta del III secolo, a difenderla contro i sabelliani, che continuano il monarchianismo radicale del maestro, dilatandolo trinitariamente: l’unico Dio si rivela nella creazione come Padre, nella redenzione come Figlio, nella santificazione come Spirito Santo. In area siropalestinese appare diffusa una versione aggiornata del monarchianismo adozionista che valorizza anch’essa, riprendendolo dagli avversari, il concetto di Logos divino, ma, a differenza di Origene e Dionigi, non lo considera ipostasi personalmente distinta ab aeterno da Dio Padre, bensì come una sua facoltà operativa che si ipostatizza, cioè diventa entità personale, soltanto quando prende dimora nell’uomo Gesù, il quale perciò diventa il Figlio di Dio. Questa dottrina è professata da Paolo, originario di Samosata e vescovo di Antiochia negli anni Sessanta del III secolo; ma in questa regione è in espansione la versione origeniana della dottrina del Logos, sì che Paolo viene messo in stato d’accusa, proprio in Antiochia, da un concilio che si tiene nel 268 e al quale partecipano, tra gli altri, alcuni vescovi di impostazione dottrinale origeniana. Momento centrale del concilio è la discussione tra Paolo e il presbitero locale Malchione, professore di filosofia. Paolo viene condannato, ma il suo monarchianismo evoluto conserva notevole vitalità nella regione. Dei contrasti, che continuano anche dopo la condanna, fa le spese il presbitero antiocheno Luciano, professante una versione radicale della dottrina del Logos, al cui insegnamento si forma dottrinalmente Ario. Luciano viene condannato ed estromesso dalla comunità, per esservi riammesso soltanto all’inizio della Grande Persecuzione di Diocleziano e Galerio, e muore martire nel 311. La sua vicenda, connessa con quella di poco precedente di Paolo di Samosata, sta a significare che tra la fine del III secolo e l’inizio del IV nella regione siropalestinese continuano i contrasti tra monarchiani e sostenitori della dottrina del Logos. Anche in Asia Minore ci sono attestati contrasti analoghi, ma le notizie in proposito sono molto scarse. In Egitto invece appare ormai consolidata la prevalenza della dottrina del Logos, che all’opposto non incontra successo a Roma. Il poeta Commodiano, abitualmente collocato in Africa, vi testimonia una presenza monarchiana nella seconda metà del III secolo. Va per altro rilevato che agli inizi del IV secolo la riflessione dottrinale in ambito trinitario e cristologico appare molto più avanzata in Oriente che non in Occidente. In questo ambiente dottrinale tanto variegato ha inizio la controversia ariana.
Ad Antiochia Ario, discepolo di Luciano, entra in amicizia con altri condiscepoli, definiti collucianisti (Συλλυκιανισταί), che, condividendone le idee, evidentemente apprese alla scuola di Luciano, in seguito gli sarebbero stati a fianco nei momenti di crisi: si ricordano i vescovi Eusebio di Nicomedia, Teognide di Nicea, Maride di Calcedonia, e tra i non vescovi Asterio, detto il Sofista, che si sarebbe distinto come efficace teorico della dottrina professata da Ario. Questi, diventato presbitero ad Alessandria, in età avanzata comincia a diffondere una dottrina trinitaria che suscita subito, oltre a qualche adesione, molti contrasti. Il locale vescovo Alessandro interviene: Ario chiarisce pubblicamente il suo pensiero, con esito negativo, si rifiuta di ritrattare e viene condannato ed estromesso dalla comunità, sì che preferisce abbandonare Alessandria trovando ospitalità presso Eusebio, vescovo di Cesarea di Palestina. Seguono le vicende che portano al concilio di Nicea del 32519, ma in questa sede si intende presentare più in dettaglio la dottrina di Ario.
Ci si trova nell’ambito della dottrina del Logos, che si è detto dominante in Egitto, la cui diffusione in area siropalestinese suscita reazione in ambienti d’impostazione monarchiana. In base alla documentazione disponibile si possono individuare nella condanna di Paolo di Samosata nel concilio d’Antiochia del 268 e nella condanna di Luciano, alcuni anni dopo, i momenti cruciali del contrasto. Paolo era monarchiano, Luciano professava la dottrina del Logos d’impostazione origeniana. La condanna di due esponenti di dottrine opposte nello stesso ambiente a breve distanza di tempo rileva eloquentemente l’asprezza della lotta e l’alternarsi dei suoi esiti. In tale situazione di conflittualità, per forza di cose le opposte posizioni dottrinali tendono a radicalizzarsi: la constatazione che la dottrina di Ario viene subito condivisa dagli altri collucianisti autorizza a ipotizzare che essa continui, almeno nelle linee generali, quella appresa alla scuola di Luciano. In effetti la dottrina di Ario si presenta come versione radicalizzata della dottrina del Logos. Si è sopra rilevato che questa dottrina, in quanto collocava il Logos divino personalizzato in posizione di mediatore tra il Dio sommo e il mondo, era intrinsecamente subordinante, ma lo spessore di tale subordinazione poteva essere diverso: quello di Giustino e Novaziano era certamente più rilevato di quello di Ireneo e Tertulliano. In proposito Origene aveva oscillato, ma in complesso il suo subordinazionismo, e così quello di Dionigi, non aveva avuto dubbi nell’affermare la divinità di Cristo, coeterna con quella di Dio Padre, e la sua generazione reale da lui, e perciò la qualità di Figlio di Dio nel senso pieno della parola.
Invece Ario, in polemica con i monarchiani, accentua l’inferiorità di Cristo Logos rispetto a Dio Padre fino al punto di considerarlo creatura di lui e non coeterno con lui: le due proposizioni in cui fu subito compendiata dagli avversari la dottrina di Ario erano che il Figlio era stato creato dal nulla (ἐξ οὐκ ὄντων) e che c’era stato un tempo in cui non esisteva20. La prima delle due proposizioni va spiegata nel senso che, secondo Ario, Dio aveva creato direttamente il Logos e poi, per tramite di questo, tutte le altre cose. In tal senso il Logos era insieme l’Unigenito (Gv 1,18) e il Primogenito di tutte le creature (Col 1,15). Quanto alla non coeternità del Logos con Dio Padre, va premesso che i primi rappresentanti della dottrina del Logos avevano articolato in due momenti il rapporto tra Dio e il suo Logos: quest’ultimo è immanente nel Padre ab aeterno; in un secondo momento Dio lo aveva esteriorizzato e distinto personalmente da sé in funzione della creazione e del governo del mondo (Atenagora Taziano Teofilo, e successivamente Ippolito e Tertulliano). In implicita ma evidente polemica con questa concezione, Origene aveva chiarito che in Dio, che è fuori del tempo, non ci può essere un prima e un poi; aveva perciò affermato che Dio genera il Logos suo Figlio con generazione che è insieme eterna e continua: ne consegue che egli è il principio (ἀρχή) del Logos in senso ontologico, mentre cronologicamente i due sono coeterni. Non era affermazione che potesse essere assimilata facilmente, in quanto sembrava naturale far coincidere l’archè cronologica con quella ontologica, sì che affermare che il Logos era coeterno con Dio Padre sembrava implicare che fosse ingenerato come lui.
È questa in effetti la critica che Ario oppone ad Alessandro, il quale su questo, come su altri punti decisivi, era rimasto fedele al pensiero di Origene, e mantiene il suo punto di vista in polemica con lui a proposito dell’anteriorità di Dio Padre rispetto al Figlio. Invece, forse su consiglio di Eusebio di Nicomedia, si ritratta leggermente quanto all’affermazione che il Logos era stato creato dal nulla, quale si legge nella lettera inviata da lui all’amico, e nella professione di fede indirizzata ad Alessandro elimina questa precisazione e parla di quello come creatura ma non come le altre creature, genitura (γέννημα) non come le altre geniture21. Restano invariate anche le altre conseguenze che Ario ricavava dalle sue rivoluzionarie affermazioni: il Logos Figlio non partecipa della ousia (essenza, sostanza) del Padre ma vi è estraneo, è Dio ma di una divinità non comparabile con quella di Dio Padre, è Figlio ma soltanto in senso accomodato, in quanto creato direttamente dal Padre, donde l’ovvia obiezione: se il Figlio non è stato creato dal nulla come tutte le altre creature e non è stato generato dalla sostanza del Padre, da dove proviene? Un’obiezione che avrebbe intrigato gli ariani fino alla terza generazione (Eunomio). Fin dal primo momento della polemica fu rimproverato ad Ario di affermare che il Figlio è mutabile e alterabile (τρεπὸς καὶ ἀλλοιωτός), ma già nella lettera a Eusebio di Nicomedia Ario definisce il Figlio non alterabile (ἀναλλοίωτος). La contraddizione si sana ipotizzando che questa affermazione quanto mai radicale Ario l’abbia fatta in un primissimo momento, quando la sua predicazione e le conseguenti polemiche si svolgevano a livello soltanto orale, e che su questo punto si sia ritrattato fin dal documento più antico che di lui conosciamo, la lettera indirizzata a Eusebio di Nicomedia.
Nella Chiesa antica ogni nuova proposta dottrinale, per poter aspirare a essere accolta nel deposito di fede, doveva essere adeguatamente supportata dall’autorità della Scrittura. Ario fonda la sua dottrina innanzitutto su Pr 8,22, un passo in cui la Sapienza veterotestamentaria, tradizionalmente identificata con Cristo Logos divino, dice di sé, secondo il testo dei Settanta: «Il Signore mi ha creato (ἔκτισεν) inizio delle sue vie per le sue opere». Questo passo, da Giustino in poi, era stato addotto a supportare la dottrina del Logos, ma senza dedurre da «mi ha creato» la sua condizione creaturale, tanto più che, nella continuazione del passo, al versetto 25, la Sapienza dice ancora, in riferimento al Signore: «prima di tutti i colli mi genera (γεννᾷῤ), donde l’interpretazione di creare del versetto 22 come generico equivalente del generare del versetto 25. Ario invece inverte il rapporto tra i due verbi e interpreta creare alla lettera e generare come suo generico equivalente, indicante la condizione di creatura privilegiata da lui assegnata al Logos, in quanto creato direttamente da Dio Padre. Altri passi addotti dagli ariani sono caratterizzati dalla ricorrenza di termini come fare, creare, creatura in riferimento a Cristo: At 2,36 «Signore e Cristo ha fatto Dio questo Gesù che voi avete crocifisso»; Eb 1,4 «Fatto (γενόμενος) tanto migliore degli angeli»; Col 1,5 «Primogenito di tutta la creazione». Altri presentano il Cristo incarnato soggetto a passione e alterazione: Gv 12,27 «Ora la mia anima è turbata»; Lc 2,32 «Gesù cresceva in sapienza età e grazia», donde si ricava che la natura divina del Logos è di dignità inferiore a quella di Dio Padre. In complesso la dottrina fatta conoscere da Ario prima ad Alessandria e poi anche fuori è una versione radicalizzata della dottrina del Logos quale era stata elaborata da Origene e da Dionigi. La sua forza sta appunto nell’inserirsi nella trama di una corrente dottrinale ormai tradizionale e molto diffusa, caratterizzata da un’impostazione strutturalmente subordinante del rapporto di Dio Padre con Cristo, suo Logos e Figlio; la sua debolezza deriva dall’eccesso di subordinazione, tale da deprimere la dignità divina di Cristo che, seppur in subordine a quella di Dio Padre, l’opinio communis dei fedeli ormai da tempo vuole integra e di piena eccellenza, in quanto immagine perfetta della perfezione paterna, e perciò ben lontana dalla condizione creaturale nella quale Ario la relegava.
Costantino entra in contatto con Ario allorché, sconfitto Licinio, si impadronisce anche dell’Oriente, dove già da tempo era in pieno svolgimento la controversia innescata dalla diffusione della dottrina ariana. Il primo contatto è epistolare, in quanto l’imperatore, che sa ben poco del contenuto dottrinale del contrasto, spera che una sua equanime presa di posizione valga a riportare la calma. In effetti la sua lettera22, recapitata sia ad Ario sia ad Alessandro, rimprovera i due per aver diviso il popolo a causa di un’inutile questione riguardante un passo dell’Antico Testamento (cioè Pr 8,22). Anche nelle scuole di filosofia ci sono discussioni e polemiche, ma contenute in modo da non incrinare l’unità della scuola. Così anche i due contendenti possono divergere su una questione di poco conto senza nuocere al più generale accordo, che s’incentra sul tema fondamentale della provvidenza divina. L’evidente sottovalutazione dei termini reali del contrasto in corso impedisce alla lettera di avere effetto, e così passo dopo passo si arriva al concilio di Nicea, senza che si abbia notizia di altro contatto epistolare tra Costantino e Ario. Il contatto riprende qualche anno dopo, nel 328, e si sviluppa fino al 33423. Vari documenti, tra cui alcune lettere di Costantino ad Ario e viceversa, informano sullo svolgimento del rapporto tra i due, ma i fatti appaiono piuttosto problematici. Se ne propone una breve sintesi.
Verso il 327-328 Costantino ritiene opportuno richiamare Ario dall’esilio, al quale era stato condannato subito dopo la conclusione del concilio di Nicea, per farlo riabilitare a opera di un concilio di vescovi riunito forse di nuovo a Nicea o a Nicomedia presso di lui. Si ipotizzi la presentazione al concilio, da parte di Ario, di una generica professione di fede, del tipo di quella di cui diremo tra breve, con conseguente riabilitazione della persona, ferma restando la condanna inflitta dal concilio niceno alla dottrina. Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, che erano stati anch’essi deposti ed esiliati, si rivolgono ai vescovi che avevano riabilitato Ario, chiedendo analogo trattamento; anch’essi sono riabilitati, e vengono ripristinati nella precedente dignità episcopale (328). Costantino scrive ad Alessandro, pregandolo di riammettere Ario nella Chiesa di Alessandria, dopo essersi accertato della sua retta fede (328)24; ma Alessandro muore e così sfugge al difficile dilemma che l’invito dell’imperatore gli proponeva: forzare la sua coscienza e riammettere Ario o disubbidire all’imperatore? Gli subentra Atanasio, ma per il momento l’imperatore desiste dal rinnovare la richiesta, non è noto per quale motivo: forse in considerazione della difficile situazione nella quale il neoeletto si trova, alle prese con gli scismatici meliziani. Demanda per altro a Eusebio di Nicomedia l’incarico di far pressione su Atanasio, ma senza successo. Passa qualche anno e Ario si lamenta con l’imperatore di essere costretto in una situazione ibrida, perché alla riabilitazione voluta da Costantino non ha fatto seguito la riammissione ad Alessandria, e questo rifiuto si riverbera negativamente sul suo rapporto con altre chiese. Costantino da una parte reagisce violentemente con una lettera ad Ario piena di insolenze di ogni genere, mentre riconferma la condanna della sua dottrina; ma nella stessa lettera apre uno spiraglio, invitando nuovamente alla riconciliazione. Nel contempo (333) sollecita energicamente Atanasio per la riammissione di Ario25.
Insistendo in questo senso, l’imperatore non intendeva modificare la situazione dottrinale determinata dalla condanna della dottrina di Ario e dalla pubblicazione del Simbolo niceno. Da una parte, infatti, Costantino emana un editto che conferma la condanna della dottrina ariana, dall’altra rinnova l’invito ad Ario a venire presso di lui. Ario fa recapitare all’imperatore una professione di fede che coniuga il massimo di brevità col massimo di genericità26, compendiando così il contenzioso trinitario della controversia: «Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente. E nel signore Gesù Cristo suo Figlio unigenito, da lui generato prima di tutti i secoli, Dio Logos, per mezzo del quale sono state create tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, che è disceso, si è incarnato, ha patito, è risorto, è risalito in cielo e verrà di nuovo a giudicare i vivi e i morti». Una volta precisato che Ario intendeva «generato prima di tutti i secoli» nel senso di creato dal Padre direttamente prima della creazione del mondo, è evidente che Ario poteva sottoscrivere questa professione di fede senza sconfessare nessuna delle proposizioni significative della sua dottrina. Al tempo del concilio di Nicea la professione sarebbe stata valutata del tutto insufficiente a scagionare Ario, ma ormai l’ago della bilancia del favore imperiale si è spostato nettamente dalla sua parte, mentre Atanasio, a causa della politica di violenze messa in opera a danno dei meliziani e del rifiuto di riammettere Ario nella Chiesa di Alessandria, è ormai caduto in disgrazia. Subito dopo la conclusione del concilio di Tiro (335)27 con la condanna del presule alessandrino, i vescovi che vi avevano partecipato si recano, Eusebio di Nicomedia in testa, a Gerusalemme, dove il 17 settembre, nel contesto della solenne celebrazione del trentesimo anno del regno di Costantino, viene inaugurata la basilica del Santo Sepolcro, la prima grande costruzione cristiana nei Luoghi Santi. L’imperatore coglie l’occasione per portare a termine, a suo modo, l’opera di pacificazione della Chiesa con la riabilitazione di Ario. Viene letta una sua lettera nella quale egli afferma di aver personalmente interrogato gli ariani (οἱ περὶ ῎Αρειον) e di aver constatato la loro retta fede, supportata dalla recente professione di Ario; invita pertanto i vescovi là riuniti in concilio a riammetterli nella Chiesa. Il concilio ubbidisce prontamente e ne dà annuncio per lettera alle chiese d’Egitto e Libia: allontanato il responsabile della discordia – cioè Atanasio –, è tempo di riammettere nella Chiesa Ario e i suoi fedeli, mettendo così fine alla discordia28. Ario non può godere del trionfo, perché muore improvvisamente prima del rientro ad Alessandria29.
Termina così la prima fase della controversia, completamente condizionata da Costantino, il quale prima, a Nicea, impone a una maggioranza riottosa di vescovi una professione di fede che non ne rispecchiava le convinzioni, e in seguito, per ristabilire l’equilibrio, favorisce la reazione antinicena, realizzata per altro in modo tale da interessare soltanto le persone, senza permettere che la condanna della dottrina di Ario e il Simbolo niceno fossero rimessi in discussione. Solo il prepotere dell’imperatore poteva tenere in piedi un compromesso tanto precario. Appena egli viene a mancare, tutto ritorna in gioco, e la controversia si riapre anche sotto l’aspetto dottrinale, con conseguenze che nessuno dei partecipanti al concilio di Nicea avrebbe potuto neppure lontanamente immaginare.
1 W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Tübingen 1934; A. Grillmeier, Jesus der Christus im Glauben der Kirche, I, London-Oxford 1975 (trad. it. Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, Bologna 1982); M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975; R. Lorenz, ‘Arius judaizans’. Untersuchungen zur dogmengeschichtlichen Einordnung des Arius, Göttingen 1978; A. Le Bolluec, La notion d’hérésie dans la litterature grecque, II-IIIe siècles, 2 voll., Paris 1985; R. Williams, Arius. Heresy and Tradition, London 1987; R.P.C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God: the Arian Controversy, 318-381, Edinburgh 1988; H.C. Brennecke, Die letzten Jahren des Arius, in Von Arius zum Athanasium. Studien zur Edition der ‘Athanasius Werke’, hrsg. von A. von Stockhausen, H.C. Brennecke, Berlin-New York 2010, pp. 63-83.
2 Cioè la prima delle tre lettere tramandate sotto il nome dell’apostolo Giovanni.
3 I primi due sono rappresentanti della cosiddetta cristologia alta, che considera Cristo entità di natura divina, mentre la cristologia bassa della Didachè presenta Gesù soltanto come servo di Dio, senza alcun tratto di condizione superumana.
4 Cfr. 1 Cor. 11,19; Gal. 5,20.
5 Cfr. Tert., adv. Marc. I 19,2.
6 Cfr. Eus., h.e. V 28,6.
7 Questa eresia è comunemente conosciuta con la più tarda denominazione di montanismo, da Montano, l’iniziatore del movimento.
8 Cfr. Eus., h.e. V 16,10. Per dettagli si rinvia al saggio Il concilio, in questa stessa opera.
9 Cfr. Hipp., Noet. 1,6-7; Ps.Hipp., elench. IX 12,15,21.
10 Per essere più precisi, in Hipp. Noet. 1,7 si legge: «Gli [cioè, a Noeto] rispondono i presbiteri: Anche noi conosciamo veramente un solo Dio, conosciamo Cristo, conosciamo il Figlio che ha patito come ha patito, è morto come è morto, ed è risuscitato il terzo giorno, sta alla destra del Padre e viene a giudicare i vivi e i morti». Si tratta di un’embrionale formula di fede, che per altro non si sa se effettivamente rappresentasse un testo ufficiale della Chiesa di Smirne.
11 Tert., Prax. 1,6; Ps.Hipp., elench. IX 11,3; 12,16.
12 Cfr., per esempio, Herm., past. mand. 1,1: «Prima di tutto credi che uno solo è il Dio che ha creato e ordinato tutte le cose, che le ha fatte passare dal non essere all’essere, che contiene tutte le cose, lui che solo non può essere contenuto».
13 Cfr. Ps.Hipp., elench. IX 11,3; 12,16.
14 Donde i termini moderni ‘monarchiano, monarchianismo’.
15 Cfr. Ps.Hipp., elench. VII 35,1-2.
16 Cfr. Hipp., Noet. 2,1-3.
17 Cfr. Ps.Hipp., elench. IX 12,16-19.
18 Per gli indispensabili dettagli e relativa documentazione su questo argomento e quel che segue, si rinvia a M. Simonetti, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993, pp. 109 segg.
19 Si rinvia per questo al contributo Il Concilio, cit.
20 La prima affermazione si legge nella lettera di Ario a Eusebio di Nicomedia, cfr. H.G. Opitz, Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites, Berlin-Leipzig 1934, pp. 1-3; l’altra fu ricavata recta via dall’affermazione dello stesso testo secondo cui il Figlio di Dio, prima di essere stato generato o creato, non esisteva.
21 Cfr. H.G. Opitz, Urkunden zur Geschichte, cit., p. 12.
22 Questa lettera è stata tramandata da Eus., v.C. II 64 (= Socr., h.e. I 7).
23 Per i fatti intercorsi nel frattempo (concilio di Nicea e dintorni) si rinvia a Il concilio, cit.
24 La crisi ariana, cit., pp. 115 segg.
25 Per la documentazione su questi fatti, si vedano: Ath., apol. sec. 59, il quale dichiara che Eusebio di Nicomedia lo aveva pregato di riammettere gli ariani ad Alessandria: successivamente Costantino lo aveva pressato nello stesso senso, sotto pena di gravi sanzioni; lettera di Costantino ad Ario, riportata da Gelasio di Cizico (h.e. III 19), dalla quale si inferisce l’invio di una lettera di Ario all’imperatore.
26 I tre documenti sono tramandati da Socrate: h.e. I 9,25,26. L’editto fu emanato nel 333. Gli altri due documenti non presentano elementi utili per la datazione.
27 Sui prodromi e i fatti del concilio di Tiro, si rinvia a Il concilio, cit..
28 Su questi fatti cfr. Eus., v.C. IV 43-48; Ath., syn. 21; apol. sec. 44; Socr., h.e. I 33; Thdt., h.e. I 31.
29 Questa tradizionale ricostruzione cronologica del rapporto tra Costantino e Ario è stata recentemente contestata da H.C. Brennecke, Die letzten Jahre des Arius, cit., pp. 63-83, quanto agli ultimi anni di Ario, il quale sarebbe morto solo poco tempo dopo il rientro dall’esilio e la riabilitazione, nel 327-328, e non sarebbe stato l’oggetto specifico della condanna del 333. Ma questa nuova ipotesi pare fondata su argomenti tutt’altro che cogenti.