Argonauti
. Eroi della mitologia greca. Pelia, re di Giolco, ordinò al nipote Giasone di conquistare il vello d'oro che Frisso (v. ATAMANTE) aveva lasciato nella Colchide, nel Ponto Eussino (probabilmente l'odierna Crimea). L'impresa pareva impossibile e per la lontananza della Colchide e per i pericoli che occorreva superare per portar via quel vello.
Giasone accettò di compiere l'impresa e, riunita una schiera di valenti eroi greci (tra cui Meleagro, Anfiarao, Orfeo, Zete, Calai, Teseo, Tideo, Castore, Polluce), fece costruire una nave da Argo (il mastro Argus [v.], di Fiore VIII 1-4); da questi sarebbe derivato il nome alla nave (ma propriamente ἀργὁς significa " veloce ") e quindi agli eroi. Argo fu la prima nave che solcò i mari (cfr. Ovid. Met. VI 721). Salpati dal golfo Pagaso, gli eroi fecero tappa all'isola di Lemno, e, dopo un soggiorno durato vari mesi, ripartirono per l'Arcadia, dove furono ospiti del re Fineo, che liberarono dalle Arpie; di qui si spinsero poi fino alla Colchide. Giasone con l'aiuto di Medea, figlia di re Eete, riuscì a superare le durissime prove da questi richieste (tra l'altro, dovette aggiogare due tori dalle corna di ferro, dagli zoccoli di bronzo e dalle narici spiranti fuoco costringendoli a spingere l'aratro, e seminare denti di drago da cui nascevano uomini armati), e si appropriò del vello ritornando quindi in Grecia. Il mito è tra i più famosi dell'antichità, e ispirò vari poemi, greci e latini.
D. conobbe tale impresa soprattutto per la particolareggiata narrazione di Ovidio (Met. VII 1-158); mentre non lesse certamente gli allora quasi inaccessibili Argonautica di Valerio Flacco (peraltro noti a Lovato e alla sua cerchia: cfr. Gu. Billanovich, " Vetera vestigia vatum " nei carmi dei preumanisti padovani, in " Italia medioevale e umanistica " I [1958] 178). Gli A. sono ricordati con accenti di ammirazione due volte, entrambe nella terza cantica. In Pd II 16-18 la meraviglia dei lettori viene paragonata, per difetto, a quella che colse Que' glorïosi che passaro al Colco quando videro il loro condottiero intento in lavori contadineschi (cfr. Met. VII 118-121, dove peraltro colpiti da stupore sono propriamente i Colchi, non gli A.: " pondus grave cogit aratri / ducere et insuetum ferro proscindere campum. / Mirantur Colchi; Minyae clamoribus augent / adiciuntque animos "; ma è l'unica volta che nel poema latino compare il nome di quel popolo, ed è tutt'altro che improbabile che D. abbia quindi frainteso). Il significato del paragone è controverso; già gli antichi commentatori oscillano tra due diverse interpretazioni del rapporto qui stabilito: se tra l'impresa di D. e quella di Giasone, entrambe meravigliose (ma la prima ancor più), o se tra il tentativo di D. di innalzarsi affrontando questioni teologiche tanto profonde e complesse e l'abbassarsi di Giasone in un lavoro tanto umile. I termini della straordinaria impresa di Giasone (che ara un campo, ma con quei tori, e semina, ma denti di drago da cui sorgono uomini armati) sembrano rendere assai poco probabile la seconda spiegazione; pare piuttosto che il paragone dantesco intenda sottolineare l'eccezionalità delle due imprese nonostante gli strumenti umili adoperati (l'aratro da Giasone, il volgare da Dante). L'altro paragone (in cui si innesta una delle più belle immagini dell'intero poema: la 'mpresa / che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo, dove è mirabilmente suggerito lo stupore del dio del mare allorché vide per la prima volta sopra i flutti avanzare l'ombra di una nave) ricorre nell'ultimo canto (vv. 94-96). La terzina dichiara che un attimo solo trascorso dalla visione beatifica è causa di maggiore oblio per la mente umana di D. che non siano stati venticinque secoli per l'impresa degli A. (fissata appunto dai cronografi medievali nel 1223 a.C.). Implicitamente il poeta recrimina dunque il ricordo sbiadito e lontano che gli uomini conservano di quella straordinaria avventura, di cui egli sente tutta la grandezza.
Bibl. - E. R. Curtius, Das Schif f der Argonauten, in Kritische Essays fiir europäìsche Literatur, Berna 1950, 398-428 (trad. it. in Letteratura europea, Bologna 1963, 470-494); L. Portier, Les Argonautes dantesques, in " Revue des Etudes italiennes " XI (1965) 381-392.