Vedi Argentina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il suo sterminato territorio che si estende dai climi subtropicali delle province settentrionali ai mari gelidi della Terra del Fuoco, passando attraverso la più estesa pianura fertile del pianeta, rende l’Argentina per definizione una grande potenza dell’America del Sud. Una potenza economica, politica e culturale, benché oggi assai meno di quanto facessero profetizzare le grandi ambizioni coltivate in passato. Instabilità politica, erraticità economica e scarsa crescita demografica hanno infatti frenato col tempo la crescita argentina, specie in rapporto al Brasile, il suo grande vicino settentrionale, col quale è stata sempre in competizione.
Ciò non toglie che in base ai più importanti indicatori di sviluppo essa rimanga una potenza regionale, in grado di far pesare la sua influenza nei forum latinoamericani e ancor più nella vita dei suoi vicini: sia di quelli più deboli, come Bolivia e Paraguay, sia, seppur in misura assai minore, di quelli più forti, come Cile e Uruguay. Che si tratti di reddito pro capite o di scolarizzazione, di condizioni sanitarie o di mortalità infantile, l’Argentina figura infatti saldamente tra i paesi più avanzati della intera America Latina. A tale profilo va poi aggiunto il suo enorme potenziale di risorse naturali, finora sfruttato solo in parte, ma comunque tale da renderla già adesso un paese pressoché autosufficiente in campo energetico e uno dei maggiori esportatori al mondo di prodotti agricoli per uso alimentare. Nel contesto regionale in cui è inserita, caratterizzato da un mosaico etnico formato da popolazioni di origine europea, indiana e africana, l’Argentina si è storicamente distinta per essere più di ogni altro paese la risultante delle grandi migrazioni europee del passato. Tale circostanza, oggi in parte attenuata dalla progressiva integrazione argentina nel contesto latinoamericano e dalla crescente immigrazione dai paesi vicini a maggioranza meticcia o indiana, ha profondamente condizionato e in parte caratterizza ancora la storia dell’Argentina, il suo rapporto con gli altri paesi dell’area e la visione del mondo di cui suole farsi portatrice su scala globale. La sua relativa omogeneità etnica e culturale, la sua maggiore ricchezza e le sue origini europee hanno spesso generato incomprensioni coi vicini, dai quali tutto pareva differenziarla.
Le relazioni internazionali dell’Argentina sono state spesso soggette a brusche oscillazioni, frutto dell’instabilità politica che ne ha caratterizzato a lungo la storia. Da un lato, l’Argentina ha seguito una politica spesso isolazionista, i cui riflessi si trovano nella sua neutralità durante la Prima guerra mondiale e per gran parte della Seconda, rotta solo all’ultimo istante col passaggio nel campo alleato. Di tale politica si trovano esempi anche nella diffidenza o estraneità che essa ha mantenuto in passato verso i principi del multilateralismo e certe organizzazioni internazionali, specie il Fondo monetario internazionale (Imf), cui l’Argentina aderì solo nel 1956. Dall’altro lato, vari governi argentini hanno espresso in epoche diverse una sorta di ‘destino manifesto’ del loro paese in America Latina, praticando una politica volta all’esercizio della leadership nel contesto regionale. Alla base di tale eccezionalismo argentino vi erano vari fattori: la ricchezza del paese, il suo elevato grado culturale, la sua omogeneità etnica, la sua vocazione a trapiantare e rigenerare in America la civiltà europea. Sorto nel 19° secolo, il ‘destino manifesto’ argentino toccò il culmine durante il peronismo classico (1946-55), caduto il quale imboccò la via di un lungo declino. Esso conferì però alla politica internazionale dell’Argentina i tratti di uno spiccato nazionalismo e acuì in molti casi le tensioni coi vicini, la competizione col Brasile e la contrapposizione con il Regno Unito prima e gli Stati Uniti poi. Quest’ultima, nel 20° secolo, ha in taluni casi assunto una valenza più generale: quella del contrasto tra le radici europee del mondo latinoamericano, che l’Argentina ambiva a incarnare, e l’ideale panamericano coltivato dagli Stati Uniti e sempre più egemone nell’emisfero dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Dagli anni Sessanta del 20° secolo, le relazioni internazionali dell’Argentina hanno teso ad adattarsi al contesto della Guerra fredda, piegando verso l’alleanza con l’Occidente e la sua potenza leader. La guerra per le Falklands/Malvinas del 1982 ha tuttavia riportato in superficie la tradizionale tendenza nazionalista argentina. Solo negli anni Novanta, durante le presidenze di Carlos Menem, la politica estera argentina ha virato in forma radicale verso il legame con gli Stati Uniti, corredato dall’invio di navi argentine nel Golfo Persico durante la prima guerra irachena e dalla velleitaria richiesta di ingresso nella Nato. Quella politica è stata però un’intensa ma breve parentesi: il ritorno al potere dell’ala del peronismo più legata alla sua tradizione neutralista, impersonata da Nestor Kirchner, ha portato nel primo decennio del 21° secolo a una politica intrisa come un tempo di echi nazionalisti e affine alle nuove correnti anti-occidentali sorte nel frattempo in America Latina e altrove.
L’Argentina è una repubblica federale di tipo presidenziale. Il presidente è eletto ogni quattro anni a suffragio universale e non può governare per più di due mandati consecutivi. La Costituzione liberale del 1853, benché emendata in più occasioni, rappresenta ancora oggi l’ossatura dell’architettura istituzionale del paese, fondata su un sistema rappresentativo bicamerale, sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, e sulla giurisdizione, esercitata nelle 23 province e nel Distretto Federale della Capitale dai governatori e dalle assemblee legislative elette. Dopo mezzo secolo di relativa stabilità politica, iniziato nel 1880, e la precoce introduzione, nel 1912, del suffragio obbligatorio e segreto per tutti i maschi adulti, l’Argentina entrò dal 1930 in una lunga fase di instabilità e alternanza tra populismo peronista e autoritarismo militare. In quell’epoca si produssero numerosi colpi di stato, l’ultimo dei quali, nel 1976, sfociò nel regime più repressivo della storia nazionale. Dal 1983, quando a sorpresa fu eletto presidente il leader del partito radicale Raúl Alfonsín, l’Argentina è tornata alla democrazia. Da allora il sistema democratico ha resistito alle gravi crisi politiche ed economiche che hanno interessato il paese: le insubordinazioni militari negli anni Ottanta, l’iperinflazione nel 1989 e la drammatica crisi finanziaria del 2001, in seguito alla quale l’Argentina sprofondò nel caos e crollò l’inedita coalizione di governo tra radicali e socialisti democratici. Il governo dell’Argentina è tornato da quel momento nelle mani del partito peronista, che dal 1971 ha preso la denominazione di Partido Justicialista: dapprima, nel 2003, con la vittoria di Nestor Kirchner, e poi, nel 2007, con quella della moglie Cristina Fernández de Kirchner, già senatrice e dirigente del partito, impostasi con il 45% dei voti. I governi Kirchner hanno raccolto sia successi sia critiche: i primi dovuti perlopiù alla riapertura dei processi ai militari macchiatisi di gravi violazioni dei diritti umani durante l’ultima dittatura e alla riattivazione economica; i secondi a taluni tratti tipici della cultura politica peronista, insofferente verso il pluralismo e i limiti imposti dalle procedure istituzionali all’operato del governo, il quale tende perciò spesso a distorcerle e travalicarle, comprimendo la libertà d’azione delle opposizioni.
Per composizione etnica e trend demografici, l’Argentina si distingue da gran parte degli altri paesi latinoamericani. Paese perlopiù formato dai discendenti delle grandi migrazioni interoceaniche della fine del 19° secolo e dell’inizio del 20°, la sua popolazione è quasi integralmente di origine europea, in particolare spagnola e italiana. Fanno eccezione le minoranze autoctone concentrate soprattutto nelle province settentrionali e il crescente numero di immigrati dai paesi limitrofi più arretrati economicamente: Paraguay, Bolivia e in certa misura anche il Perù.
La popolazione argentina si caratterizza inoltre per un tasso di crescita inferiore alla media latinoamericana (17 per 1000) e per la sua sproporzionata concentrazione nelle aree urbane, specie intorno alla capitale, dove vive circa un terzo dei 40 milioni di argentini. Il sogno dei fondatori dell’Argentina moderna di colmarne l’immenso territorio di cittadini immigrati è perciò in buona parte rimasto tale, e il paese ha perso definitivamente il passo della grande crescita demografica avvenuta nel frattempo in Brasile e in altri paesi della regione, il che ha contribuito a inibirne l’antica aspirazione a esercitare una sorta di leadership regionale. Gli effetti delle gravi e ricorrenti crisi economiche, causa dell’aumento della marginalità sociale, uniti alle tensioni generate nei maggiori centri urbani dall’afflusso di immigrati spesso privi di abitazione e contratti di lavoro, hanno col tempo causato crescenti e violenti confitti nelle sterminate periferie delle grandi città e hanno aperto la via a nuove forme di criminalità, in taluni casi legate al narcotraffico. In un paese a lungo cullatosi nell’idea di essere votato a un prospero futuro, tali conflitti e il diffuso senso di insicurezza che essi generano sono costanti cause di polemiche e tensioni, sfociate talvolta in manifestazioni di xenofobia. Insicurezza e conflitti sociali trovano poi costante alimento nei tassi di disoccupazione, tendenzialmente elevati, e nell’ampia forbice della disuguaglianza sociale, ulteriormente accresciuta dal crack del 2001 e non ancora pienamente ricomposta dalla successiva ripresa economica.
Considerando i tanti governi autoritari e le gravi violazioni dei diritti umani che hanno costellato la sua storia dell’ultimo secolo, è indubbio che in tema di libertà individuali e diritti civili l’Argentina abbia fatto enormi passi avanti e sia oggi un paese dove questi godono di sostanziale rispetto. Tra i progressi in tal senso spiccano quelli avvenuti durante il governo di Nestor Kirchner, allorché la Corte suprema ha revocato, sancendone l’incostituzionalità, gli indulti concessi in passato ai militari che nell’ultima dittatura s’erano resi responsabili di gravissimi crimini, nei confronti dei quali sono infatti ripresi i processi. Le libertà basilari, a cominciare da quella di associazione, sono rispettate e lo stesso vale in grande misura per quella religiosa, in un paese dove il primato che il cattolicesimo ha storicamente esercitato con l’attivo sostegno dello stato è andato col tempo attenuandosi. Maggiori problemi si riscontrano però su altri fronti. Sono per esempio frequenti le denunce di violenza e arbitrarietà nei confronti della polizia, specie nella provincia di Buenos Aires, dove il crimine è più endemico. Sia nella polizia, sia in generale nella pubblica amministrazione rimane poi assai diffusa la corruzione, tanto che nel 2010 l’Argentina figurava al 105° posto su 178 paesi nella classifica con cui Transparency International misura la corruzione percepita dall’opinione pubblica.
In tempi recenti, in reazione ai flussi migratori dai paesi vicini, si sono manifestati sporadici ma crescenti episodi di intolleranza, che rischiano di produrre riflessi restrittivi nel campo dei diritti individuali. I governi dell’ultimo decennio, infine, sono stati talvolta oggetto di critiche per la propensione a esercitare il controllo sul potere giudiziario e ancor di più per il loro atteggiamento nei confronti dei mezzi di informazione e in particolar modo della stampa, in gran parte ostile nei loro confronti. Quest’ultima tensione è sfociata talvolta in conflitto aperto tra il governo e i maggiori gruppi del settore informativo. Il primo ha accusato i secondi, specie il grande gruppo che fa capo al quotidiano Clarín, di monopolizzare l’informazione e ha promosso misure legislative tese a ridurne l’esteso potere. Le grandi imprese con interessi nei media hanno a loro volta denunciato l’intimidazione del governo verso la stampa indipendente, spesso segnalatasi per le denunce della corruzione e delle arbitrarietà commesse dai funzionari pubblici.
Paese cui la grande produzione di carne e cereali pareva un tempo garantire un ricco futuro e che dalla metà del 20° secolo ha accentuato il suo profilo industriale, l’Argentina è passata attraverso bruschi mutamenti economici, perdendo nel corso dei decenni diverse posizioni nel ranking internazionale. Al modello incentrato sull’industrializzazione protetta e dirigista prevalso nei decenni centrali del 20° secolo è subentrato dagli anni Settanta, e con particolare rigore negli anni Novanta, un modello di sviluppo di tipo neoliberale. Quest’ultimo modello, a differenza che in altri casi della stessa regione, non ha tuttavia dato i frutti sperati e all’inizio del 21° secolo i governi peronisti sono tornati a talune misure tipiche del nazionalismo economico, trovando ampia legittimazione nel tracollo che nel 2001 ha colpito l’intero sistema economico e finanziario nazionale. Tali misure hanno portato in alcuni casi a nuove nazionalizzazioni, laddove in precedenza erano state realizzate privatizzazioni, e al crescente intervento regolativo dello stato, sia in materia commerciale che in materia finanziaria. Proprio per effetto di tali politiche l’Argentina è arretrata bruscamente nelle classifiche stilate in base alla libertà economica, dove figura oltre la 130° posizione.
La crisi del 2001 fu d’altronde perlopiù imputata dall’opinione pubblica argentina proprio al fallimento del modello neoliberale, di cui l’Argentina era stata zelante discepola, e al disinteresse mostrato allora verso il suo destino dagli organismi finanziari internazionali.
Nel decennio successivo alla grande crisi l’economia argentina è comunque tornata a crescere a ritmi sostenuti, uscendo rapidamente e con danni contenuti dalla crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2008. Ad alimentare tale ripresa sono stati vari fattori, tra i quali spicca l’effetto della domanda cinese sulle esportazioni argentine e in generale sui prezzi delle materie prime, sulla cui esportazione si regge tuttora in buona misura l’economia argentina.
Le vicissitudini del settore energetico hanno seguito in Argentina il cammino spesso erratico della politica estera. Il monopolio statale sugli idrocarburi, di cui l’Argentina è terza produttrice in America Latina, è stato un dogma del nazionalismo economico imperante per buona parte del 20° secolo. Negli anni Novanta, nell’intento di razionalizzare il settore e dare impulso agli investimenti, il presidente Carlos Menem promosse la privatizzazione dell’impresa statale, la Ypf, che passò nelle mani della multinazionale spagnola Repsol. Dal 2004, però, con la creazione di Enarsa, lo stato argentino ha recuperato un ruolo centrale nell’intero settore energetico, in particolare nel campo del petrolio e del gas naturale, che insieme coprono quasi il 90% del fabbisogno energetico nazionale. Come già in passato, la gestione di tale ambito strategico continua a essere oggetto di accese polemiche. Il governo vanta l’autosufficienza che l’Argentina ha quasi raggiunto in tale ambito e la progressiva differenziazione del mix energetico, a formare il quale contribuiscono in parti diverse, oltre al petrolio e al gas naturale, l’energia idroelettrica, quella nucleare e le fonti rinnovabili, specie il biodiesel, nel quale l’Argentina è tra i primi produttori al mondo. I critici osservano invece che il ritorno in forze dello stato nel settore energetico ha inibito gli investimenti e rallentato la ricerca di nuove fonti, mettendo a rischio proprio l’autosufficienza che le politiche di apertura avevano consentito di raggiungere. Qualcosa di analogo vale per le politiche ambientali. In tale campo l’Argentina figura tra i paesi col maggiore potenziale al mondo di energie rinnovabili, in particolare di quella eolica, e sta realizzando concreti passi per accrescerne la produzione, che si prevede aumenterà al ritmo di oltre il 10% negli anni a venire. Al tempo stesso le autorità pubbliche sono spesso oggetto di critiche per l’assenza di una vera e propria politica ambientale e per l’elevato grado di emissioni dei sistemi produttivi nazionali e dei trasporti. In tal senso, è indubbio che la matrice energetica argentina sia assai più inquinante e assai meno differenziata di quella del vicino Brasile.
Uscite umiliate dalla guerra per le isole Falklands/Malvinas del 1982 e messe all’indice dalla gran parte dell’opinione pubblica per il massiccio ricorso al terrorismo di stato, le Forze Armate argentine hanno cercato, nell’ultimo ventennio, di recuperare l’onore e il prestigio perduti. In tale ottica hanno preso sempre più parte, per volontà dei successivi governi costituzionali, a missioni internazionali, ora di carattere militare, come quando le navi da guerra argentine furono inviate a pattugliare il Golfo Persico durante la prima guerra in Irak, ora soprattutto umanitarie, per esempio nei corpi di pace inviati dalle Nazioni Unite nella ex Iugoslavia, in America Centrale e in molte altre aree di crisi. Al tempo stesso l’apparato di sicurezza argentino ha dovuto rinunciare all’enorme peso corporativo e alle cospicue fette di bilancio di cui aveva beneficiato in passato. Il fatto poi che l’Argentina intrattenga ormai assai più di un tempo relazioni cooperative coi paesi vicini, specie Brasile e Cile, ha in gran parte fugato imminenti minacce alla sicurezza nazionale, spingendo verso il ridimensionamento delle istituzioni castrensi. Per questi motivi, pur prevedendo un piano di graduale incremento delle spese per la difesa perlopiù diretto ad ammodernare le tecnologie militari, negli ultimi anni l’Argentina non ha tenuto il passo della corsa agli armamenti avvenuto in gran parte del dell’America del Sud. Un caso a parte, dal punto di vista della sicurezza, è rappresentato dalla lotta al terrorismo e dall’annosa questione delle Falklands/Malvinas.
L’antica querelle delle isole Falklands/Malvinas, risalente al 1833, quando l’arcipelago situato al largo delle coste argentine fu assorbito dai britannici, condiziona oggi come ha condizionato in passato le relazioni dell’Argentina col resto del mondo. In tal senso, la sanguinosa guerra del 1982, scoppiata dopo l’occupazione delle isole decisa dalla giunta militare che all’epoca governava a Buenos Aires e la violenta reazione britannica, costata un’umiliante sconfitta agli argentini e la crisi del regime, lungi dall’avere aperto spiragli alla soluzione del contenzioso l’ha resa ancor più improbabile e complessa. Da allora, come in passato, i governi argentini hanno sollevato il tema della loro rivendicazione in tutti i maggiori organismi internazionali, raccogliendo in genere ampi consensi e creando in tal modo intese trasversali con numerosi altri paesi del sud del mondo, a loro volta interessati a combattere i residui di colonialismo ancora esistenti. Benché popolari dal punto di vista del consenso interno, tuttavia, le ricorrenti tensioni con il Regno Unito che ne sono derivate hanno talvolta ostacolato i rapporti argentini coi paesi europei e con gli Stati Uniti. Le isole, intanto, rimangono sotto sovranità britannica e nessun negoziato prospetta attualmente una soluzione sul loro destino in grado di soddisfare le aspettative argentine.
Quanto al terrorismo, l’Argentina è l’unico paese latinoamericano a esserne stato seriamente colpito, quando nella prima metà degli anni Novanta due attentati ad altrettante istituzioni ebraiche di Buenos Aires provocarono numerose vittime. I governi e i tribunali argentini hanno individuato in Hezbollah e nel regime iraniano i responsabili di tali attentati, trovando però come risposta solo dinieghi e rifiuti di collaborare. A ciò si deve in parte la preoccupazione argentina per le attività di sostegno ai movimenti terroristici islamici, talvolta segnalate tra la popolazione di origine mediorientale residente nella zona del suo territorio situata alla frontiera con Paraguay e Brasile, la cosiddetta ‘Triple frontera’. Per quanto riguarda, invece, la questione ancora aperta delle isole Falklands/Malvinas, la riapertura dei rapporti diplomatici nel 1990 non ha fugato le tensioni bilaterali con il Regno Unito. A farle ciclicamente riacutizzare contribuiscono infatti, oltre al nodo della sovranità sulle isole, su cui i britannici non transigono, le ricorrenti dispute sullo sfruttamento economico del loro mare territoriale.