Argentina
A me sembra una fandonia
che Buenos Aires ebbe inizio /
La giudico tanto eterna
come l'acqua e l'aria
(Jorge Luis Borges)
La crisi economica e politica argentina
di Riccardo Campa
1° gennaio
Il Parlamento argentino elegge presidente Eduardo Duhalde, esponente del partito peronista. In dieci giorni, da quando imponenti manifestazioni di piazza hanno costretto alle dimissioni Fernando de la Rúa, alla Casa Rosada si sono alternati cinque presidenti. A Duhalde, il cui mandato durerà due anni, è affidato l'arduo compito di far uscire il paese dal caos economico e politico in cui è precipitato.
Dal governo de la Rúa a quello Duhalde
Alle 23 del 19 dicembre 2001, il presidente della Repubblica Argentina, Fernando de la Rúa, in un breve discorso alla nazione, proclama lo stato d'emergenza nell'intento di proteggere le persone e le cose dai saccheggi, sempre più generalizzati. Egli riafferma comunque il proposito di portare a compimento il suo non ben precisato programma socio-economico. Alcuni istanti dopo, contrassegnati da un silenzio irreale, irrompono nelle strade di Buenos Aires - e di altre città argentine - i rumori metallici destinati a convertirsi nel cacerolazo, la protesta al suono delle casseruole. Nelle ore immediatamente successive, fiumane di persone si riversano spontaneamente in Plaza de Mayo, nota alle cronache internazionali come l'emiciclo della pacifica contestazione delle madri dei desaparecidos dell'infausto periodo della dittatura militare (1976-83), stigmatizzata dal documento redatto da un comitato di salute pubblica, presieduto dallo scrittore Ernesto Sábato, dal titolo Nunca más ("Mai più").
L'empito popolare, al grido ¡Que se vayan! ("andatevene!"), si trasforma in un autentico, autoconvocato, congresso costituzionale, che a somiglianza di quanto si manifestò nel 1810 ai primi moti dell'indipendenza dell'America Latina dalla Spagna, si esplica di fronte all'antico municipio, il Cabildo, nell'intento di riappropriarsi di un potere decisionale finora delegato alle rappresentanze politiche. Il popolo - si sostiene - esige la restituzione del mandato istituzionale, per essere in grado di rispondere adeguatamente alle sfide dell'emergenza economica e amministrativa.
Le autorità, affermando di dover proteggere dagli assalti degli emarginati e degli affamati la maggior parte della popolazione pacificamente riunitasi per protestare, richiamata dall'impellenza vitale e dal residuato senso di solidarietà civile, inducono gli apparati della polizia ad agire con particolare violenza, nel proposito di ristabilire un minimo di ordine sociale. La polizia - malpagata e al servizio di un sistema che funziona come un simulacro della democrazia in un presunto ordine postindustriale - reagisce in modo spregiudicato, infierendo anche contro vecchi e bambini.
Il giorno seguente, Plaza de Mayo si riempie di giovani, che affrontano gli attacchi della polizia con determinazione, anche per rendere sempre meno credibile un apparato di sostegno di uno Stato privo di legittimazione consensuale. Gli scontri provocano cinque morti e un numero imprecisato di feriti. Il discorso del 20 dicembre 2001 del presidente della Repubblica, volto ad attutire le tensioni e a guadagnare tempo alla ricerca di un'improbabile soluzione, suscita un'ancora più acuta ripulsa popolare. La gente invade come una marea montante, oltre che Plaza de Mayo, Plaza del Congreso e Plaza del Obelisco e s'irradia per tutte le vie della capitale rioplatense.
All'infiltrazione di masnade vandaliche nelle file dei manifestanti fa riscontro un soprassalto di violenza poliziesca, che si conclude con la morte di 30 persone e il ferimento di un numero altissimo di dimostranti.
In questo scenario, si sospetta si siano inseriti, nella conurbazione di Buenos Aires, alcuni membri del partito officialista (del peronismo-menemista), indotti dalle circostanze a trarre profitti personali in termini di ambizioni politiche. I sequestri di persona, i furti e il riesplodere di contrasti affievoliti nel recente passato riaccendono i conflitti non soltanto fra gli oppositori, ma anche all'interno della compagine governativa, di ispirazione radical-conservatrice. Alle 21 del 20 dicembre il presidente de la Rúa è costretto a dare le dimissioni e a congedarsi da quei consiglieri che accrescono, agli occhi degli osservatori, le sue responsabilità. La sua uscita di scena è considerata una necessaria condanna per l'incapacità del governo da lui presieduto di affrontare una situazione economica e sociale così inquietante da mettere a rischio la stessa identità culturale del paese.
La popolazione, nel suo compendio di classe media, classe operaia, disoccupati ed emarginati, affronta una situazione politica priva di leader di ricambio.
Il modello neoliberale, applicato in Argentina, si risolve in beneficio esclusivo del potentato finanziario, che opera con spregiudicatezza in tutte le piazze del pianeta. La cultura dell'evocazione, propria delle comunità immigrate fra la seconda metà del 19° e la seconda metà del 20° secolo, si interconnette con quella della modernità, che comporta la trasformazione dell'economia agraria nell'economia industriale e un'adeguata ristrutturazione di questa nell'economia dei servizi. L'Argentina si trova impegnata in un'economia dei servizi senza aver completato e perfezionato l'economia industriale. Essa ha ricevuto dall'Europa dell'epoca del totalitarismo le suggestioni necessarie per attuare, sia pure rapsodicamente, una concezione autoritaria della vicenda politica e sociale, nel proposito di mobilitare le comunità contadine e trasformarle nelle masse operaie.
La recente rivolta popolare magnifica paradossalmente le velleitarie istanze dei singoli individui e dei gruppi che rivendicano un loro protagonismo senza essere in grado, nell'epoca mediatica, di indicare una strategia e un'organizzazione capace di realizzarla. La richiesta della gente automobilitata di tenere un Cabildo abierto, un organo costituente permeato dalla volontà di quanti si considerano direttamente impegnati a risolvere le contraddizioni del loro paese, ripropone un percorso storico già tentato negli anni Trenta del 20° secolo con esiti non certo edificanti. La sovranità popolare, che non sia depositaria, oltre che di vis polemica, di un programma che contemperi le esigenze comunitarie con la dinamica economica mondiale, si esaurisce nella protesta. Tant'è vero che, nel giro di dieci giorni, l'Argentina assiste stupefatta all'elezione di cinque presidenti (la cui permanenza alla Casa Rosada è, in media, di due giorni), fino alla nomina parlamentare dell'attuale presidente Eduardo Duhalde.
La crisi politica
La tentazione populistica, nell'America Latina, è un male radicato. In Argentina essa si manifesta con peculiarità proprie delle classi inferiori urbane, dominate dalla suggestione carismatica e dall'emotività come forma di partecipazione comunitaria e decisionale. Juan Domingo Perón, "il primo fra i lavoratori", è il leader di una componente sociale nella quale il prestigio, sia pure artificioso, prevale sull'effettiva consistenza del sistema economico e produttivo. La rielezione di Perón, nel 1973 (la prima presidenza comprende gli anni 1943-55), conferma la caduta di tono dell'Argentina. Il paese si illude di ritornare alle grandezze passate quando, facendosi garante durante i due conflitti mondiali del rifornimento delle derrate alimentari (del grano e della carne) alle potenze belligeranti, aveva tesaurizzato notevoli risorse monetarie, tali da consentire l'ammodernamento e l'estrema urbanizzazione del paese, sottraendol»o alle drammatiche esperienze della tecnologizzazione del lavoro mediante la militarizzazione della manodopera e l'esaltazione, congiuntamente, della fabbrica e della guerra. L'apostolato misticheggiante di Evita Perón conferisce al populismo argentino un'ambientazione da telenovela e il correttivo orgiastico del provvidenzialismo. L'arte dell'infedeltà razionale si vendica nel luddismo boulevardier, nell'esaltazione nazionalistica. Il tango - definito da Enrique S. Discepolo 'un pensiero triste che si balla' - finisce con il racchiudere nel suo diametro rappresentativo l'epopea dell'emigrante, la vicenda del perlustratore degli spazi inesplorati della sensibilità multietnica e plurilinguistica, interiorizzati nell'amalgama dell'eros.
Il populismo rivendica una sorta di volontà generale indifferenziata ed emotiva, che nel passato prorompe nel capataz e nel presente si manifesta nei personaggi spesso imprevedibili e neghittosi della storia. «In Argentina, al di là dell'identificazione congiunturale o fondamentale con il 'nazifascismo' - sostiene Alain Rouquié (Amérique latine. Introduction à l'Extrême-Occident, Parigi, Éditions du Seuil, 1998; trad. it. Milano, Paravia-Mondadori, 2000, p. 221) - il peronismo, dal punto di vista dei rapporti con la classe operaia, è stato oggetto di due interpretazioni: una polemica, in cui si manifesta la contrarietà dei leader del socialismo democratico di fronte al 'lassismo' delle masse, l'altra sociologica, basata su una ricerca storica. Secondo la prima, la classe operaia argentina ha venduto la propria libertà per un piatto di lenticchie, accettando di sostenere la tirannide. Secondo gli autori che sostengono la seconda interpretazione, il successo del peronismo deriverebbe dall'esistenza di una 'nuova classe operaia', emersa dall'esodo rurale, priva di tradizioni sindacali o politiche, catturata dalla politica paternalistica del colonnello Perón. Si può facilmente constatare che, a eccezione dei princìpi, si tratta di due presentazioni diverse di una stessa opinione. Ed è ciò che esprime con consumata eleganza il partito comunista argentino, nell'ingessato linguaggio leninista, quando afferma che bisogna "ricondurre il proletariato argentino alle organizzazioni della classe operaia"».
La politica della ridistribuzione dei redditi non costituisce una preoccupazione del populismo. Nel suo programma politico, l'assistenzialismo è a carico dello Stato, finché può attingere alle riserve monetarie accumulate negli anni di maggior splendore produttivo delle derrate alimentari, fermo restando il beneplacito dei terratenientes e degli estancieros abituati a convivere con il potere costituito, condizionandone le deliberazioni o disattendendole. Ma non si è mai determinata un'aperta discrasia fra i settori per così dire produttivi e i settori per così dire parassitari: la loro complementarità ha dato vita a un'ibrida cultura, insieme localistica e universale. Alle esortazioni di Domingo Faustino Sarmiento, preoccupato di alfabetizzare le masse, fa riscontro il ricorso ecumenico degli intellettuali accorsi nella redazione della rivista Sur di Victoria Ocampo, un'aristocratica universalizzante, capace di raccogliere intorno alla propria persona personaggi della letteratura mondiale come Pedro Henríquez Ureña, José Ortega y Gasset, Enrique Anderson Imbert, Fernando Rosemberg e altri. Intemperante e autoritaria per natura, la fondatrice di questo sodalizio letterario d'ispirazione modernizzante si è astenuta dall'intravedere nella filigrana della cultura del 20° secolo quel nodo scorsoio che ha modificato perfino l'aspetto antropologico del mondo: la tecnica, la funzione mediatica dell'immaginazione e dell'impresa umane. La mancata saldatura con l'universo tecnologico e tecnocratico costringe l'Argentina a gravitare in un circuito culturale, il cui sedimento antico, archeologico è, peraltro, nel vecchio continente. Il paese, continuamente combattuto fra l'America e l'Europa, non è riuscito a sottrarsi alle insidiose retrovie del potere e a inaugurare le tumultuose traiettorie delle masse della contemporaneità. Emporio delle avventure estetiche di architetti e urbanisti inglesi, francesi e italiani, Buenos Aires gareggia con le più rinomate metropoli del mondo, ma la modernità che la contraddistingue ha già le rughe dell'obsolescenza perché invischiata nei miti e nelle allegorie di un passato illusoriamente leggendario e di un drammatico e increscioso presente per l'estemporaneità e la gratuità del male manifesto e denunziato con l'acredine dell'estraneazione.
La cultura di élite e di dimensioni universalizzanti non contrasta con il regime populista, considerato di transizione e rivolto all'acquisizione di prerogative progressiste in favore di un numero crescente d'individui. Tale regime ha avuto l'effetto del 'vaccino contro la rivoluzione' mediante l'adozione di politiche sociali che, con l'ausilio della retorica (prima radiofonica, come osserva Aldous Huxley, e poi televisiva), riconosce un ruolo di sostegno, anziché di contrapposizione o di critica, ai sindacati e alle organizzazioni contadine. «Questa è, senza dubbio, l'origine dell'aspetto di psicodramma chiassoso e a volte incomprensibilmente caotico che caratterizza l'ideologia populista, al cui interno la violenza verbale riveste un ruolo pregnante. La 'condanna a morte simbolica' delle oligarchie, o dei capitalisti o delle società straniere, è invocata frequentemente. È il 'caos in nome dell'ordine'. Di fatto, gli interessi dei gruppi presi di mira non vengono toccati. Le riforme di struttura, anche quando, raramente, vengono realizzate, non vanno al di là dello stadio embrionale» (Alain Rouquié, cit., p. 223).
Le trasformazioni sociali, che normalmente generano, se non conflitti, naturali dissidi fra i comparti umani e strutturali chiamati a realizzarle, sono spesso contrastate dall'azione svolta dal potere tutorio nei riguardi dell'istituzione ecclesiale, la cui compromissione è richiesta allo scopo di evitare lacerazioni fra i ceti imprenditoriali e la manodopera. L'integrazione nel sistema produttivo della forza-lavoro si realizza con quella particolare gradualità che ne vanifica l'incidenza per non compromettere i consolidati benefici delle oligarchie locali. La burocrazia e il connesso clientelismo rafforzano l'ingannevole identità dello Stato, che spossessa la società civile delle prerogative proprie dei sodalizi istituzionali d'ispirazione liberale. «La coscienza di classe è occultata dalla 'coscienza di massa'. Il nazionalismo solidaristico contribuisce all'integrazione politica dei ceti subordinati e delle masse urbane» (Alain Rouquié, cit., p. 224). La coscienza di classe delle masse urbane è un antidoto del populismo; ed è per questa ragione che, a ritmi ricorrenti, esso è denunziato come inadeguato o addirittura controproducente. Il contrasto fra l'ideologia populista - anche nelle sue forme per così dire progressiste del desarrollismo - e i presupposti democratici appare insanabile proprio nei paesi, come l'Argentina, dove l'interazione con i paesi europei (primo fra tutti, l'Italia) è consolidata e iperattiva. Il nominalismo e il formalismo giuridico simulano un richiamo ideale ai movimenti ideali europei, ai quali si devono le correnti dottrinarie liberali e socialiste nelle loro diverse estrinsecazioni.
Il privatismo è una deformazione protezionistica ed elitaria del liberalismo. In Argentina si converte tradizionalmente nell'interesse dei ceti privilegiati, che contrastano lo Stato quando non si sclerotizzi, come avviene nei governi populisti, in un apparato assistenzialista. L'avversione per la riforma agraria e per la riforma fiscale da parte dei gruppi economicamente egemoni tiene ancora in scacco una notevole percentuale di popolazione attiva, soprattutto nelle province del Nord-Est, prevalentemente agricole e con un livello appena apprezzabile di adeguamento tecnologico. Secondo una corrente teologica, l'ingiustizia sociale ha come contropartita la violenza strutturale.
Il rapporto fra ceti, gruppi e classi sociali si estrinseca in una contesa avente come obiettivo una più equa ripartizione del benessere (per lo meno di quello che viene amministrato pubblicamente, mediante gli apparati dello Stato e delle strutture a esso corrispondenti).
La debolezza delle strutture di mediazione provoca l'incomprensione fra i diversi gruppi economici e scatena la violenza. Il divario esistente nel livello di vita fra le diverse fasce sociali non può esonerare il potere tutorio dalla responsabilità di non attenuarlo. Il monopolio istituzionale, spesso esercitato da un gruppo regionale, rende precari il funzionamento amministrativo e l'intesa fra organi centrali e periferici, soprattutto nelle dimensioni dell'Argentina (che è circa otto volte più estesa dell'Italia). La sovversione e la resistenza nei riguardi del potere centrale è una caratteristica endemica: tutte le sollevazioni sono scoppiate dalla periferia, da un insediamento militare in guarnigione provinciale, alla mercé dei capi locali, privi non soltanto di contatti diretti ma di confronto e di prove di forza con i loro omologhi. La dissociazione interna alle forze armate dipende dalla diversa estrazione logistica dei loro comandanti.
L'indifferenza dei ceti privilegiati per le sorti dei gruppi emarginati dalla logica economica e dal mercato si esplica, non soltanto in forme criptiche, ma anche esplicitamente, mediante i condizionamenti pubblicitari e propagandistici. L'accesso alla conoscenza è frustrato anche dall'anchilosamento dell'opinione. Le trasmissioni radiotelevisive privilegiano l'intrattenimento rispetto alla riflessione e al dibattito, più o meno come avviene in altri paesi del mondo, con una peculiare differenza: che l'ineluttabilità del bisogno è soffocata dall'inattingibilità della colpa. In effetti, la cultura popolare imperante è quella del destino cinico e baro, che addensa sul capo dei governanti tutta la responsabilità di quanto accade, scagionando pietisticamente gli elettori. Questa tendenza alla persecuzione - nella finzione e nella realtà - deresponsabilizza l'elettorato e lo rende perciò stesso inefficace o insolvente.
La crisi economica
La mancanza o la debolezza delle infrastrutture implica una discriminazione congiunturale. Le classi egemoni non concordano con l'idea che lo Stato debba farsi carico delle infrastrutture, perché in questo caso dovrebbero contestualmente consentirgli di adottare una politica fiscale riformista in grado di affrontare le relative spese di gestione. In effetti, la diatriba sulla debolezza dello Stato e l'arroganza dei suoi tutori trova una conferma nella politica economica imposta dai ceti privilegiati (terratenientes e operatori finanziari) nei riguardi delle strutture istituzionali ad alto regime di inefficienza. Lo Stato è prevalentemente il luogo delle transazioni, delle contrattazioni fra i gruppi economicamente agguerriti, che condizionano le scelte del governo e perfino le alleanze privilegiate fra paesi aventi comuni interessi economici. La politica interna si esplica in ragione di quella estera, che ha prevalentemente il compito di istituzionalizzare le condotte ispirate dai ceti egemoni.
Anche in Argentina, come negli altri paesi a industrializzazione tardiva, paradossalmente l'industria richiede allo Stato di farsi carico delle infrastrutture, dei finanziamenti e della protezione doganale senza esercitare efficacemente ed equamente il prelievo fiscale. Lo Stato pertanto finanzia, nel 19° e nel 20° secolo, l'aristocrazia latifondista e le borghesie rurali. Le politiche del lavoro e le leggi sindacali assicurano dei diritti che l'economia di mercato non è in grado di soddisfare. Sul retaggio dell'anarchismo e del repubblicanesimo, introdotti in Argentina dagli esuli e dagli immigrati italiani (per es. l'anarchico Severino Di Giovanni, giustiziato nel 1931), la classe operaia ha raggiunto un grado di consapevolezza sociale che il moltiplicarsi dei pubblici impieghi e il rafforzamento dei ceti medi hanno in parte sacrificato al principio - alquanto parassitario - introdotto dal peronismo, della stabilità, della continuità e del basso rendimento. L'economia del pieno impiego contrasta con le leggi della competitività e della concorrenza, che impongono fra l'altro un continuo aggiornamento conoscitivo e tecnologico. Il risultato positivo che l'ampliamento della cosiddetta democrazia di mercato determina (con la creazione del Mercosur, del quale fanno parte l'Argentina, il Brasile, l'Uruguay e il Paraguay) è rappresentato dall'indebolimento del pretorianismo. La struttura castrense, a lungo protagonista della vicenda politica, dimostra un'atonia partitica e tentacolare inedita. Il disincanto per i regimi autoritari è dovuto anche all'imponderabilità delle misure di protezione che ogni paese dell'area può efficacemente assumere per ridurre il malcontento popolare e l'isolamento istituzionale (soprattutto dagli organismi economici internazionali).
L'inflazione galoppante e il malessere generalizzato costituiscono un permanente pericolo implosivo difficilmente controllabile con azioni di forza. A questa infausta congiuntura si connette anche un più insistente sistema di comunicazioni, che rende partecipe degli avvenimenti interni il pubblico mondiale, ideologicamente attestato in difesa dei diritti civili e del rispetto delle regole di partecipazione democratica. Il crepuscolo delle dittature coincide con la crisi del debito pubblico, con l'iperinflazione, nonché con la pauperizzazione.
Il ricorso al mercato implica una ricognizione delle risorse infrastrutturali, create prevalentemente dalla Gran Bretagna e dalla Francia nel periodo dell'economia argentina di esportazione (ai primi decenni del 20° secolo) dei prodotti agricoli e dell'artigianato.
Le ferrovie, gli impianti portuali, i tracciati della produzione elettrica e di gas sono opere delle compagnie inglesi, rispondenti a un disegno economico difficilmente omologabile nell'economia di mercato contemporanea, che fra l'altro registra una diversa catalogazione delle merci inserite nei vari condotti commerciali. Il condizionamento delle industrie interne da parte del mercato mondiale determina una sorta di progressiva emarginazione dei prodotti argentini, in condizioni fortemente antindustriali. Il mercato contemporaneo esige che i paesi esportatori di prodotti (primari o manufatti) non si adeguino a un regime di continuità senza paventare la loro ulteriore dipendenza dal credito esterno e dal regime di interventi finanziari sempre meno sensibili alla logica della solidarietà.
La sostituzione dei prodotti importati con i prodotti interni è lenta e non garantisce la sintonizzazione con il mutamento del costume sempre più ispirato ai cosiddetti modelli globali. L'incentivazione del consumo interno favorisce la crescita dell'apparato industriale, che soggiace, nei regimi populisti, alla politica del credito e alle spietate leggi della dinamica finanziaria. Alla produzione dei beni di consumo non durevoli, che utilizza le risorse naturali esistenti, si aggregano la produzione dei semilavorati e successivamente l'industria chimica e quella tecnologicamente sofisticata. Quest'ultimo settore tecnologico comporta la creazione di società finanziarie così complesse da sfuggire alla competenza censoria delle autorità locali, che finiscono, anche per ragioni di scarsa competenza, per compromettersi in operazioni illegali.
Gli immensi scenari dell'Argentina, come la Patagonia, ricca di riserve di gas naturale, avrebbero bisogno, per decollare economicamente, anche di una politica petrolifera in grado di soddisfare le esigenze dell'area e di negoziare le componenti esterne del settore, utilizzandole per lo sviluppo interno. La bassa competitività del sistema economico è la causa della voragine del debito pubblico. Le sfide della mondializzazione incidono relativamente sulla ristrutturazione dell'apparato tecnologico argentino.
Da un rapporto degli anni Ottanta del CEPAL (Commissione economica per l'America Latina) si evince, infatti, che il settore industriale argentino relativamente più avanzato è quello tradizionale dei beni di consumo non durevoli. Il 50% delle imprese argentine è di piccole e medie dimensioni (rispettivamente, con cinque e venti addetti, al massimo). Il mercato nazionale, sviluppatosi con il favore delle barriere doganali, si trasforma spesso in monopolio per l'assenza di una concorrenza in grado di elevare l'omogeneità dei prodotti. Le grandi imprese o i comparti moderni sono spesso filiali di società straniere, che beneficiano dell'ondata di privatizzazione degli anni Novanta.
La drammaticità del debito pubblico, che colpisce l'area latinoamericana nel suo insieme e l'Argentina in particolare, si acuisce negli anni Ottanta, in seguito alla seconda crisi petrolifera, che induce i paesi industrializzati a ridurre le importazioni e a elevare i tassi d'interesse ai livelli mai raggiunti dal 1930. A fronte dell'inflazione continentale di oltre il 1000%, nel 1989, l'aumento dei prezzi in Argentina raggiunge il 4923%. Il 51% delle esportazioni argentine va a coprire il pagamento degli interessi del debito contratto sul mercato finanziario. Le condizioni di rifinanziamento imposte ai paesi debitori, come l'Argentina, dalle banche commerciali e dagli enti finanziari internazionali sono di tale entità da provocare una grave recessione.
La contrazione delle importazioni da parte dell'economia argentina comporta il contenimento dei posti di lavoro che, nell'ambito della mondializzazione, influisce negativamente nei sistemi propulsivi europei e statunitensi. La deriva nazionalistica, che rifiuti di onorare i debiti contratti dai governi formalmente legittimati dal voto popolare, rappresenta una minaccia e costituisce un ulteriore processo di disaggregazione politica della regione latinoamericana che, per converso, tende a promuovere e a realizzare aree economiche comuni, in grado di agevolare il flusso di manodopera e di capitali. Tale prospettiva prevede anche una più equilibrata distribuzione della popolazione attiva, per la maggior parte insediatasi nelle città, la cui ipertrofia è spiegata, alternativamente, dall'insostenibilità della richiesta lavorativa da parte della campagna e dall'attrattiva esercitata dalle metropoli moderne. Queste, tuttavia, sono quasi sempre inadeguate ad assicurare un dignitoso livello di vita alle generazioni che si assiepano ai margini della modernità.
La precarietà e l'emarginazione insidiano il tessuto connettivo delle grandi città argentine dall'aspetto elegantemente europeo, come Buenos Aires, Córdoba, Rosario, nelle quali la presenza italiana a livello imprenditoriale è consolidata da oltre un secolo. Le città del Nord - come Salta e S. Maria de Tucumán, fra l'altro legate all'emigrazione intellettuale italiana fra le due guerre (Rodolfo Mondolfo, Beppo Levi, Renato Treves, Benvenuto Terracini) e prima ancora ad altre personalità della cultura italiana del 19° secolo (Paolo Mantegazza, Edmondo De Amicis) - sono meno affette da gigantismo demografico e quindi immunizzate almeno in parte dai connessi fenomeni di grave trasgressione sociale. In entrambe le aree, sebbene si assista alla crescita delle villas miserias, il paragone è a favore delle città argentine rispetto ad alcune altre metropoli latinoamericane. L'urbanesimo della miseria è meno pervasivo nelle province argentine, nelle quali l'agricoltura e l'allevamento del bestiame assicurano un livello seppure insoddisfacente di sopravvivenza. L'indigenza conserva quasi ovunque quel minimo di dignità che le impedisce di sfociare in aperta rivolta. Tuttavia, i conati d'insofferenza delle fasce meno abbienti e più sacrificate dallo squilibrio economico (un quarto della popolazione detiene quasi l'80% del totale delle risorse del paese) si estrinsecano quando l'atonia del potere tutorio si configura come moralmente, oltre che giuridicamente, inqualificabile.
Le bidonvilles si prestano malauguratamente al maneggio partitico. Esse sono i laboratori politici degli incettatori di consensi, che si esercitano inevitabilmente nella compromissione e quindi a danno degli stessi emarginati. «I nuovi 'dannati della terra' non hanno nulla da invidiare ai loro predecessori europei del 19° secolo. L'insicurezza delle loro condizioni di vita rende particolarmente sensibili questi olvidados della società urbana a qualsiasi manifestazione esteriore di interesse. Si comprende allora il beneficio che ne hanno tratto uomini politici accorti o organizzazioni a caccia di una base sociale. Benché assai spesso i regimi autoritari vedano nell'habitat irregolare soltanto una fonte di nocività, spazio urbano disordinato, se non addirittura violazione del diritto di proprietà e pericolo sociale causato dall'assommarsi delle povertà, alcune forze politiche percepiscono le bidonvilles come una massa manovrabile pronta a vendersi al migliore offerente. Preferiscono cooptare uomini invece di sradicare l'habitat. A tale scopo, si propongono benefici selettivi ai più deprivati e li si organizza in modo da intrecciare legami di patrocinio duraturi» (Alain Rouquié, cit., p. 322).
L'emarginazione e l'indigenza possono sfociare pertanto nella rivolta, nell'apatia e nel conformismo. Un particolare significativo è dato dalla ferocia con la quale alcuni agenti dell'ordine pubblico si scagliano contro i manifestanti, che rappresentano, nella maggior parte dei casi, il loro stesso ceto di estrazione o di provenienza. Senza contare - come sostengono alcuni intellettuali latinoamericani- che il livello di corruzione delle città è più grave e pericoloso della delinquenza (quale strategia della sopravvivenza) che vige nelle bidonvilles.
Paradossalmente, la consapevolezza di un deterrente latinoamericano, rispetto alle spinte disgregatrici operanti all'interno dell'area a opera dei beneficiari delle rendite costituite sulla base della commistione degli interessi politici con gli interessi economici (tanto da far asserire a Henry Kissinger che l'America Latina è un'astrazione), diventa sempre più evidente, come succede nei primi mesi del 2002 nelle piazze e nelle strade dell'Argentina. La coscienza infelice di una comunità, non più soggiogata dalle esoteriche suggestioni dello spazio aperto e incontaminato, si arrovella intorno alle modalità più adeguate per porre fine all'irresolutezza e all'inconsistenza conoscitiva degli strateghi di una politica arcaica, maldestra e soprattutto ormai priva di un pur minimo segno di legittimità.
Il centro della protesta è Plaza de Mayo, che è il risultato dell'unificazione delle piazze Victoria e Venticinco de Mayo, voluta, nel 1883, dal sindaco di Buenos Aires, Torcuato de Alvear. «Si proponeva - scrive Adrian Gorelik (La bellezza della patria, in 900, 4, p. 136) - un cambiamento spaziale in scala monumentale per il cuore della città e un cambiamento di abitudini: sebbene la piazza fosse sempre stata il luogo preferito delle feste civiche, delle sfilate cerimoniali o della protesta pubblica, la presenza della Recova non soltanto circoscriveva le visuali, ma, per la sua funzione di mercato, creava anche una sensazione di quotidianità e di molteplicità di funzioni che allontanava la piazza dal cerimoniale».
Il primo appuntamento sindacale, quale effetto della riunione del Mercosur a Buenos Aires, il 17 febbraio 2002, è proprio nelle piazze che testimoniano il ripristino di una volontà popolare organizzata, propensa a reagire con immediatezza alle risoluzioni del governo Duhalde. Il segretario della Federación Sindical del Petróleo y Gas Privado (FASPYGP), Alberto Roberti, indice lo sciopero contro i gravami governativi sull'esportazione del greggio (20%) e dei suoi sottoprodotti (5%), per timore che le compagnie petrolifere (Reposol Y PF, ExxonMobil, Shell, Chevron, BP e TotalFinaElf) licenzino più di 10.000 impiegati. Roberti non condivide le assicurazioni del ministro del Lavoro, Alberto Atanasof, secondo il quale nessun lavoratore contribuirà a elevare l'indice di disoccupazione, che attualmente supera il 22%. Il sindacato confuta la risoluzione governativa, che trova applicazione dal marzo 2002, intesa a ridurre il deficit fiscale attingendo a uno dei settori più beneficiati dalla recente svalutazione del peso.
Dopo quasi dodici anni di parità fissa uno a uno fra il peso e il dollaro, nella prima quindicina di febbraio 2002, l'Argentina dà libero corso alla fluttuazione cambiaria: nel periodo più infausto, il cambio del peso rispetto al dollaro arriva a 2,3, per risalire fino a 1,95. Nel mese di gennaio 2002, l'indice dei prezzi al consumo (IPC) sale del 2,3%. Il governo Duhalde reputa pertanto che, per tutto il 2002, l'inflazione potrà raggiungere la quota del 32%. Secondo le previsioni delle banche d'investimento, però, l'inflazione arriverà a toccare l'80%. José Ramón Díez, del Servizio Studi della Cassa di Madrid afferma che, se il governo argentino non riuscirà a frenare l'inflazione, il valore del peso rispetto al dollaro è destinato a crollare. Nelle ultime settimane del mese di febbraio 2002, l'Associazione argentina per la difesa dei consumatori (Adelco) rileva che il prezzo di molti prodotti, in particolar modo di quelli alimentari, sale in modo disordinato, oscillando fra il 20 e il 25%. Per questa ragione, è prevista la costituzione di un organismo governativo, incaricato di monitorare i prezzi al consumo, soprattutto dei generi alimentari, farmaceutici e dei servizi.
Il contenimento dell'inflazione, conseguente alla scarsità del denaro circolante, a causa del cosiddetto corralito (restrizioni all'accesso ai depositi bancari), ha per finalità l'incremento - del resto virtuale - degli investimenti internazionali. Questa risoluzione dimostra l'incompatibilità di un'economia in recessione con una moneta forte: "una combinazione impossibile", secondo David Cano, membro degli Analisti finanziari internazionali (AFI).
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), considerando irrealistica la riduzione del debito argentino nel 2002 a 3000 milioni di dollari (pari a un terzo di quello registratosi nel 2001) quale effetto delle entrate previste per lo stesso periodo, raccomanda una drastica riduzione delle spese e un rigido controllo sull'emissione di moneta circolante.
L'inevitabilità di provvedimenti di particolare gravità per l'intero contesto sociale provoca soprattutto le reazioni dei piccoli risparmiatori e dei pensionati; e genera un diffuso senso di smarrimento anche nelle giovani generazioni. Secondo il giornale bonaerense Pagina 12, nel biennio 2000-01, 140.000 cittadini hanno abbandonato l'Argentina, e, nel solo mese di gennaio 2002, 23.200 persone sono riparate all'estero (6000 delle quali in Italia).
Secondo Sergio Ciancaglini (El País, 23 marzo 2002), la 'miseria pianificata' è dovuta all'assenza di una gestione politica che promuova la fiducia nelle risorse del paese e che faccia salve, con le regole della concorrenza, quelle della civile convivenza.
repertorio
Profilo storico dell'Argentina
Dall'età coloniale all'indipendenza
Dal confine settentrionale fino all'estremo sud, l'Argentina precolombiana era abitata da tribù nomadi di indios di diverse culture, che vivevano in modo autonomo e separato in gruppi a densità demografica difforme da regione e regione. Molte tribù erano a uno stadio di civiltà corrispondente al neolitico europeo; soltanto i bordi nordoccidentali degli attuali confini del paese rientravano nell'impero incaico e ricadevano quindi nell'ambito di un'organizzazione statale relativamente progredita, con popolazioni sedentarie a un livello più evoluto.
Gli spagnoli giunsero in territorio argentino nella prima metà del 16° secolo, quando avevano già consolidato la loro presenza nei Caraibi e in altre parti del Nuovo Mondo. La storia della penetrazione europea inizia nel 1516, anno in cui Juan Díaz de Solís toccò il comune estuario sull'Atlantico dei tre fiumi navigabili Paraguay, Paraná e Uruguay, alla ricerca di un passaggio dall'Atlantico all'Asia orientale. Con il medesimo intento nel 1520 Ferdinando Magellano esplorò l'estuario e le coste limitrofe. Nel 1526 Sebastiano Caboto risalì per un tratto i fiumi fino alla confluenza del Pilcomayo, ritenendo sulla base degli ornamenti d'argento degli indigeni che nell'interno della regione si trovassero vasti giacimenti di quel materiale. Fu per questa supposta ricchezza che all'estuario fu dato il nome di Río de la Plata ("fiume dell'argento"), mentre la forma latina 'Argentina' venne poi a indicare l'intero paese.
La strada aperta da Caboto fu percorsa da Pedro de Mendoza, alla guida di una spedizione diretta a colonizzare le rive dell'estuario. Nominato adelantado ('governatore') dei territori che avrebbe occupato, Mendoza sbarcò nel 1535 sulla destra del Río de la Plata, dove fondò la città di Santa María de Buenos Aires (1536), che tuttavia non poté prosperare e fu abbandonata per l'ostilità degli indigeni. Nella seconda metà del 16° secolo le conoscenze geografiche procedettero di pari passo con la colonizzazione e le varie piazzeforti o città fondate segnarono le tappe della conquista (Santiago del Estero, Mendoza, Tucumán, Córdoba, Corrientes, Buenos Aires riedificata nel 1580 da Juan de Garay). Le popolazioni originarie furono decimate o ridotte a gruppi esigui; le terre vennero quasi tutte occupate.
I possedimenti del Río de la Plata (nome ufficiale sotto cui fino al 1617 fu compreso anche l'odierno Paraguay), occupati definitivamente dagli spagnoli dal 1536, furono retti con il sistema degli adelantados. L'organizzazione politico-amministrativa ricalcava quella applicata alle altre colonie spagnole, con rappresentanze dei vari poteri, giudiziario, politico, militare e religioso, mentre l'ossatura economica si basava sulla proprietà terriera (encomienda), che conferiva al titolare prerogative di natura quasi feudale. L'allevamento del bestiame e la produzione di cereali costituirono rapidamente le basi di una solida ricchezza agricola. Il permesso di esportazione ottenuto dalla Spagna (1602) favorì lo sviluppo della colonia, che nel 1776 fu elevata a vicereame del Río de la Plata, e poi suddivisa in otto intendenze, retta ciascuna da un governatore.
Con lo sviluppo della colonia si andarono delineando le prime aspirazioni all'indipendenza, che maturarono in età napoleonica. Manuel Belgrano e Mariano Moreno, fautori di idee liberali e democratiche mutuate dall'Europa, rivendicarono riforme politiche in grado di allentare i condizionamenti del regime coloniale. A Buenos Aires, come del resto in altre città sudamericane, si formarono circoli nazionalistici che sostenevano il riscatto dell'Argentina e di tutto il Sudamerica dalla dominazione spagnola. Il processo fu accelerato, negli anni 1806-07, dallo sbarco a Buenos Aires di un contingente inglese, in un'operazione rivolta alla conquista di nuove basi sul continente americano da trasformare, dopo la perdita delle colonie del Nord in seguito alla proclamazione d'indipendenza degli Stati Uniti, in grandi centri di rifornimento e di sbocco per l'economia britannica, messa in crisi dalla guerra con Napoleone. Buenos Aires fu proclamata possedimento della Corona britannica, e fu decretato il libero commercio solo con l'Inghilterra. La resistenza fu condotta, con successo, non dalle forze del viceré, ma da milizie locali e dagli indipendentisti - guidati da Jacques de Liniers e dalla Legión de patricios - già ostili alle pratiche monopolistiche spagnole e ora ai vincoli di Londra.
Nel maggio 1810 i patrioti sostituirono l'ultimo viceré, Baltazar de Cisneros, con una 'Giunta governativa provvisoria del Río de la Plata', in nome di Ferdinando VII, legittimo sovrano. Ma di fatto, ciò decise il distacco definitivo dalla Spagna che non riuscì più a controllare il territorio argentino.
L'organizzazione nazionale
Il 9 luglio 1816, al congresso di Tucumán, l'Argentina fu proclamata ufficialmente indipendente con il nome di Province Unite del Sud America. Nel 1819 si dotò di una Costituzione repubblicana e moderatamente liberale. Tuttavia i contrasti tra conservatori e democratici e soprattutto tra la tendenza unitaria di Buenos Aires e quella federalista delle province, sostenuta quest'ultima dai grandi proprietari terrieri contrari a disegni di centralismo politico e monopolio economico-commerciale, sfociarono in un periodo di anarchia, fomentata dai caudillos delle province, detentori di poteri illimitati. All'anarchia pose fine B. Rivadavia, di tendenze unitarie, divenuto presidente nel 1826. La lotta tra provincianos e unitarios rimase, però, accesa, al limite della guerra civile, e si interruppe soltanto durante la lunga dittatura di J.M. de Rosas (1829-52), promotore di un rigoroso centralismo.
Artefice della scomparsa dalla scena politica di Rosas fu il governatore della provincia di Entre Ríos, J.J. de Urquiza, il quale decretò misure economiche a favore delle aziende dell'interno, messe in crisi dalle continue discordie intestine, nazionalizzò gli introiti doganali del porto di Buenos Aires, aprì al libero transito i fiumi Paraná e Uruguay, sviluppò le infrastrutture portuali di Rosario per farne un centro vitale di traffico, agevolato da tariffe molto concorrenziali. Negoziò poi accordi commerciali con Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Per il riordinamento dello Stato, affidò a un'Assemblea costituente la stesura di una Costituzione con cui garantire all'Argentina prospettive di stabilità interna e di progresso. Promulgata nel 1853, la nuova Costituzione istituiva la Repubblica federale (federazione di province fornite ciascuna di un governatore e di legislature locali) con un presidente e un vicepresidente eletti per sei anni, e demandava il potere legislativo a un Congresso bicamerale. Riprendevano tuttavia le rivalità tra unitari e caudillos provinciali, mentre l'ostilità dei portenos di Buenos Aires, che vedevano crollare i proficui monopoli da essi stabiliti sui proventi dei traffici, portava dapprima alla secessione della città (1853-59) e in seguito a una serie di conflitti durati fino al 1861, quando Buenos Aires accettò di rientrare nella Repubblica, ripristinando l'unità nazionale.
Sotto la presidenza di B. Mitre (1862), D.F. Sarmiento (1868), N. Avellaneda (1874), J.A. Roca (primo mandato 1880) l'Argentina consolidò il suo sviluppo economico, migliorando le tecniche agricole, moltiplicando le esportazioni, riordinando le finanze e l'esazione fiscale, mentre il crescente bisogno di manodopera richiamava masse sempre più numerose di immigrati europei. L'amministrazione fu caratterizzata da un rafforzamento dell'oligarchia latifondista, favorita prima da un vantaggioso patto con Mitre e poi da una legge agraria di Avellaneda che consentiva l'acquisto di enormi distese di terra appartenenti allo Stato, in particolare nel sud patagonico. Da Buenos Aires, confermata nel 1880 capitale della Repubblica con status di distretto federale (mentre capitale della provincia fu proclamata la neofondata città di La Plata), l'oligarchia terriera dettò le linee maestre della politica nazionale fino al 1916. Con la presidenza di J. Celman (1886) e di C. Pellegrini (1890) l'Argentina continuò a espandere le iniziative economico-finanziarie e i ricchi allevatori e produttori di cereali divennero i fornitori più importanti dei mercati internazionali.
A una divisione delle ricchezze quanto mai squilibrata cominciavano a contrapporsi le categorie sociali meno abbienti e il nucleo di proletariato operaio che si era andato costituendo per effetto del dinamismo infrastrutturale connesso ai traffici portuali. Le proteste popolari contro l'affarismo speculativo si saldavano a spinte nazionaliste contrarie ai cospicui investimenti di capitali europei e nordamericani in Argentina e alla collusione di interessi tra oligarchia locale e imprenditori esteri. Si costituirono le prime organizzazioni di categoria, presto trasformatesi in sindacati e, sulla medesima linea, nuove formazioni politiche. Fra queste primeggiò il partito radicale riformista, l'Unión Cívica Radical di H. Irigoyen, che ottenne la maggioranza nelle prime elezioni legislative indette dopo l'introduzione del suffragio diretto e segreto per tutti i cittadini maschi maggiorenni (governo di R.S. Pena, 1912). Subito il partito radicale avviò un vasto piano di riforme sociali.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale, che colse l'Argentina in questa fase di rinnovamento, ebbe gravi ripercussioni economiche. L'interruzione delle comunicazioni con l'Europa provocò la chiusura di fabbriche, la paralisi delle attività portuali, il blocco delle esportazioni agricole e zootecniche, e conseguentemente la perdita di quota della moneta e disoccupazione. In questo quadro si situa l'elezione alla presidenza di Irigoyen (1916) che sancì per la prima volta l'ingresso dei ceti medi e dei sindacati nell'organismo di governo. Il rifornimento di notevoli quantità di derrate alimentari agli Alleati, pur nella posizione di neutralità, portò nelle casse dello Stato valuta con cui riassestare l'economia e proseguire nel piano di riforme sociali e assistenziali, e ciò valse ai radicali la possibilità di mantenere il potere fino al 1930, malgrado alcune crisi interne, come quella determinata dalla spaccatura del partito in due correnti (la più moderata di Irigoyen e la più avanzata di M. Alvear) e nonostante una nuova congiuntura sfavorevole dovuta al calo delle esportazioni alla fine del conflitto. Il paese sembrava comunque avviato sulla strada di una moderna democrazia.
Il governo radicale non riuscì però a far fronte alle conseguenze della grande crisi economica del 1929, che coinvolse l'Argentina al pari di altre nazioni, con fabbriche chiuse, disoccupazione e tumulti nelle piazze. Irigoyen fu deposto da un colpo di Stato, il potere passò ai conservatori, prima con la Giunta provvisoria di J.E. Uriburu e poi con la presidenza del generale A. Justo (1932). In questo scenario, i radicali e i socialisti spostarono il terreno dell'azione dal piano politico a quello sindacale e si impegnarono nel consolidamento delle organizzazioni dei lavoratori facendone confluire le forze all'interno della Confederación general de trabajo. Le spinte reazionarie si stemperarono durante la presidenza di R. Ortiz (1938), conservatore legalitario, restio a forme antiliberali.
Scoppiata la Seconda guerra mondiale, l'Argentina accentuò la politica di autonomia dagli Stati Uniti. Pur accettando il principio della 'solidarietà continentale' e pur conservando buoni rapporti con la Gran Bretagna, rimase neutrale (di fatto benevolmente) verso le potenze dell'Asse, specie da quando il potere fu assunto, a causa della malattia di Ortiz, dal vicepresidente R. Castillo (1940). I golpe militari del 1943 misero il potere nelle mani del Grupo de Oficiales Unidos guidato dai generali P. Ramírez ed E. Farrel, entrambi favorevoli all'Asse. La conseguente tensione nei rapporti con gli Stati Uniti e con altre nazioni americane, che accusavano l'Argentina di cospirare contro le democrazie dell'intero continente, cessò soltanto quando Buenos Aires si allineò agli altri paesi latinoamericani, con la dichiarazione di guerra alla Germania e al Giappone (27 marzo 1945), ottenendo l'ammissione alla conferenza di San Francisco (firma del Patto delle Nazioni Unite, 8 settembre 1945). Era incominciata intanto l'ascesa politica del colonnello J.D. Perón, già ministro della Guerra e del Lavoro e vicepresidente.
Sotto il profilo economico, la Seconda guerra mondiale privò l'Argentina di uno dei suoi migliori mercati, la Germania, ma ne incrementò i traffici con la Gran Bretagna, i cui acquisti di derrate alimentari determinarono un aumento della produzione agricola, mentre gli Stati Uniti accrescevano l'interscambio commerciale attraverso un trattato commerciale che accordava facilitazioni molto vantaggiose. Il miglioramento nella situazione finanziaria interna e internazionale consentì all'Argentina di utilizzare il forte saldo attivo della bilancia dei pagamenti per il rimborso del debito estero, per il trasferimento in mani locali di una cospicua parte degli investimenti stranieri (soprattutto inglesi), per l'acquisto delle materie prime e delle attrezzature necessarie all'industrializzazione del paese, per la concessione di crediti e prestiti all'estero. La situazione favorevole richiamava dall'Europa masse di immigranti e manodopera specializzata.
Il justicialismo di Perón
Perón assunse ufficialmente il potere il 4 giugno 1946, sostenuto dalle forze sindacali e da masse proletarie e piccolo-borghesi che auspicavano l'avvento di un regime democratico, nazional-popolare, in grado di abbattere in via definitiva il predominio dell'oligarchia terriera al potere dal 1930. Alla popolarità del nuovo presidente contribuì notevolmente quella della moglie Eva Duarte, 'Evita', divenuta grazie a un'intensa attività propagandistica e sociale oggetto di un'ammirazione al limite del fanatismo.
Come prime misure adottate, Perón fece porre tutti i depositi bancari, garantiti dal governo, sotto il controllo del nazionalizzato Banco Central de la República Argentina, mise sotto la direzione statale le borse, le assicurazioni e il commercio d'esportazione, impose la fusione in un unico partito dei gruppi a lui favorevoli. Procedette poi all'impostazione di un ambizioso programma di sviluppo sociale ed economico, che si esplicitò nel 'piano Perón', presentato al Congresso nello stesso 1946. Il piano constava di una legge per la concessione di poteri straordinari al governo e di leggi speciali per l'avvio di un disegno di riorganizzazione totale: politico-amministrativa, con l'estensione del voto alle donne e ai gradi inferiori delle forze armate; giudiziaria, con il potenziamento dei tribunali del lavoro; militare, con interventi per l'istruzione preliminare e la permanenza nella riserva; sociale, con misure assistenziali e assicurative a favore dei lavoratori e dei meno abbienti; industriale, con la costruzione di grandi opere pubbliche e l'adozione di una politica protezionistica.
Riguardo alla difesa nazionale, il progetto tendeva al raggiungimento dell'autarchia nella produzione di armamenti e aeroplani. Secondo la concezione di Perón, si trattava di delineare non un'economia programmatica in senso stretto, ma un'economia 'ordinata' da parte di uno Stato che non tollerava il predominio delle grandi imprese capitalistiche e si faceva 'concorrente', non 'dirigente'.
Il nuovo corso peronista si espresse soprattutto nel forte impulso dato all'industrializzazione e nel protezionismo verso le imprese e il commercio nazionali contro le grandi compagnie straniere agenti sul territorio argentino, al fine di espandere le capacità produttive del paese. Il programma poté essere avviato nelle migliori condizioni finanziarie perché lo Stato si era notevolmente arricchito durante la guerra con le forniture agricole ai belligeranti. Dopo aver in larga misura riscattato gli investimenti europei, l'Argentina cominciò a investire a sua volta capitali in altri Stati americani e a concedere prestiti per favorirne lo sviluppo (Cile, Bolivia), contrapponendo il suo prestigio a quello degli Stati Uniti, con cui i rapporti furono sempre improntati a reciproca sfiducia.
Tuttavia, la tendenza inflazionistica insita nell'espansione del credito, l'aumento della circolazione totale dei mezzi di pagamento, la ripercussione nel bilancio delle ingenti e sempre crescenti spese militari portarono a un incremento del costo della vita del 40% già dal luglio 1946 allo stesso mese del 1947. Le spinte inflazionistiche non decrebbero nel 1948, quando la scarsità di valuta provocò la svalutazione del peso nel mercato libero.
Le elezioni parziali del 1948, malgrado alcuni primi sintomi di malcontento, confermarono la popolarità del peronismo e permisero l'approvazione della nuova Costituzione (1949) che sostituì quella del 1853. Le nuove norme, ispirate a ideali nazionalistici, rinsaldarono ancor più l'autorità presidenziale (rivendicazione delle isole Malvine o Falkland, garanzia delle riforme intraprese nel campo dell'autarchia economica specie per quanto riguardava la nazionalizzazione delle imprese straniere, riconoscimento di diritti fondamentali ai lavoratori con esclusione del diritto di sciopero, possibilità di rielezione del presidente della Repubblica), mentre aumentava l'intolleranza nei confronti dell'opposizione e venivano adottate forme di censura della stampa (esproprio del quotidiano La Prensa). Nel novembre 1951 Perón ottenne il secondo mandato presidenziale.
Nel 1953 la situazione economica cominciò a precipitare, nonostante i tentativi effettuati attraverso un nuovo piano quinquennale e importanti accordi stipulati con Cile, Brasile, Unione Sovietica ed Ecuador. La moneta subì un'ulteriore svalutazione e il costo della vita aumentò del 200%, mentre la scarsità dei raccolti agricoli aggiungeva nuove cause di precarietà. L'anno seguente ebbe inizio una campagna contro la Chiesa cattolica, sospettata di voler costituire un movimento politico vero e proprio in alleanza con i proprietari terrieri e con gli industriali considerati nemici del governo. L'adozione di una serie di provvedimenti antiecclesiastici (approvazione della legge sul divorzio, abolizione del dipartimento per l'insegnamento religioso, sospensione delle sovvenzioni ad alcune chiese, eliminazione di feste religiose) determinò un'opposizione crescente tra i ceti sia cattolici sia conservatori, tradizionalmente presenti nella marina militare. Un primo tentativo di rivolta dell'aviazione navale (giugno 1955) fallì per una reazione dei peronisti, ma poco dopo una nuova sollevazione della marina, appoggiata da reparti dell'esercito e dell'aviazione, e la costituzione in milizia dei più estremi difensori di Perón, i descamisados (i "senza camicia", le fasce più povere della popolazione) fecero precipitare gli eventi e Perón dovette lasciare definitivamente il potere (19 settembre).
In poco meno di dieci anni l'incapacità di commisurare i mezzi alle possibilità e la non gradualità degli interventi avevano portato un paese considerato in precedenza tra i più floridi al caos economico e al prosciugamento delle casse dell'erario. La dottrina peronista del justicialismo, pur avendo sicuramente migliorato le condizioni della classe operaia, aveva favorito un sistema assistenziale e clientelare insostenibile. Il processo di intensa industrializzazione era avvenuto a detrimento dell'agricoltura, base tradizionale della ricchezza argentina, le nazionalizzazioni si erano risolte in un indebolimento dell'economia del paese, a causa della disorganizzazione interna e dell'impropria gestione aziendale. Dal punto di vista della politica estera, l'aperto contrasto con l'economia liberistica del mondo occidentale e il tentativo di sradicare i capitali stranieri avevano allontanato sempre più il paese dalle democrazie europee e americane, mentre si erano risolte in un nulla di fatto la politica della 'terza posizione', volta a creare nel mondo una terza forza interposta fra capitalismo e comunismo, e l'idea di costituire sotto l'egida argentina un blocco sudamericano di netto significato antistatunitense.
Il dopo Perón
Dopo la fuga di Perón, che si ritirò a Madrid, e la presidenza provvisoria di E. Lonardi, uno dei capi della rivolta antiperonista, nel novembre 1955 un colpo di Stato portò al potere P.E. Aramburu, che emise disposizioni per il ritorno alla normalità democratica e ripristinò la costituzione del 1853, cancellando quella promulgata nel 1949. Nonostante fossero state rese di pubblico dominio le notizie relative alle defraudazioni e al saccheggio dell'erario, le masse operaie, che sotto la presidenza di Perón avevano visto migliorare il loro tenore di vita senza conflitti o lotta di classe, restavano fanaticamente legate al deposto dittatore, creando difficoltà al nuovo governo e a quelli che gli succedettero. Le elezioni del marzo 1958 portarono alla presidenza della Repubblica A. Frondizi, esponente dell'Unión cívica radical intransigente, uno dei due rami nei quali si era scisso il partito radicale. Frondizi si rivelò abile nel destreggiarsi tra difficoltà provenienti da vari fronti: dai militari, divisi fra golpisti e legalisti favorevoli alla costituzionalità governativa; dai peronisti e dai comunisti, che attaccavano la sua politica economica, in particolare l'assenza di riforme sociali e la reintegrazione di molti privilegi tolti alla Chiesa da Perón; dagli imprenditori, scontenti per la restrizione dei crediti; dal suo stesso partito, che lo accusava di venir meno alla piattaforma elettorale basata sull'economia di Stato pianificata. Il suo tentativo di contenere l'inflazione e di risanare l'economia mediante una politica di severa austerità e la ricerca di equilibri incontrò invece consensi all'estero, specie negli Stati Uniti, da cui vennero prestiti e investimenti di capitali destinati soprattutto all'incremento della produzione petrolifera, che nel 1959 aumentò del 30%. Nel 1960 la 'dichiarazione di Bariloche', firmata da Frondizi e dal presidente americano D.D. Eisenhower, riaffermava il principio della solidarietà continentale e segnava il ritorno alla normalità dei rapporti fra Argentina e Stati Uniti.
Tuttavia la crisi economica non si risolveva e il deficit commerciale rimaneva pesante. Quando nelle elezioni regionali del marzo 1962 il partito peronista Frente Justicialista, riammesso nella legalità dopo sette anni di vita clandestina, ottenne un'imprevista vittoria, i militari imposero a Frondizi l'annullamento delle elezioni e le dimissioni. Essendosi piegato solo alla prima delle due richieste, il presidente venne arrestato e confinato. Gli succedette J.M. Guido, che governò per un anno sostenuto dai militari golpisti. Nelle elezioni del luglio 1963, alle quali al partito peronista fu nuovamente impedito di partecipare, fu eletto Arturo Illía, candidato dell'Unión cívica radical del pueblo. Il nuovo presidente annullò i contratti con le società petrolifere e rifiutò i crediti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Tuttavia il peggioramento della situazione economica, nonostante due eccezionali raccolti di grano nel 1964-65, e il tentativo di conciliazione verso i peronisti, ai quali Illía concesse di prendere parte alle elezioni congressuali del 1965, indussero i militari a un nuovo colpo di Stato (1966) che portò all'instaurazione della dittatura del generale J.C. Onganía. Lo scioglimento del Parlamento, l'abolizione dei partiti politici, lo stile autoritario del governo alienarono al nuovo regime i consensi della Chiesa, degli intellettuali e dei sindacati, ma non quelli dell'alta finanza e dei finanziatori esteri. L'opposizione dilagò e si costituirono gruppi armati dediti alla guerriglia urbana e al terrorismo, il più attivo dei quali fu l'Ejército revolucionario del pueblo. Intanto forti tensioni nel movimento peronista portavano alla scissione, all'interno del Confederación general del trabajo, tra peronisti ortodossi e neoperonisti, schierati più a sinistra. Nel giugno 1970 un nuovo golpe militare sostituì a Onganía il generale R.M. Levingston. Ma questi, incapace di fronteggiare la situazione, divenuta caotica anche per gli scioperi continui, presto si dimise.
Nel corso dello stesso anno il costo della vita era cresciuto del 20%. Il piano di stabilizzazione lanciato nel 1966, imperniato sul controllo di breve periodo della politica monetaria, creditizia e salariale, inizialmente aveva portato a una riduzione dell'inflazione, incrementando il tasso di sviluppo e riducendo il disavanzo statale. In seguito però l'abbattimento degli incentivi per gli allevatori e l'introduzione di forti tasse sull'esportazione della carne - misure adottate con lo scopo di indirizzare l'offerta di bestiame verso il mercato nazionale - comportarono un peggioramento della bilancia dei pagamenti. Ne derivarono un forte restringimento dell'offerta interna e un sensibile rialzo dei prezzi. In questo quadro di deficit economico e di disordine sociale il generale A. Lanusse (1971), succeduto a Levingston, intese avviare un'opera di pacificazione nazionale. Liberò i prigionieri politici e annunciò il ritorno del paese alla normalità costituzionale. Ma le elezioni indette per il marzo 1973 segnarono il successo del peronismo che aveva presentato come candidato H. Cámpora, fedele luogotenente di Perón .
Il nuovo mandato di Perón e il regime militare
Le speranze di una pacificazione nazionale, che ponesse termine, da una parte, al vero e proprio stato di guerra instauratosi tra gruppi terroristici e forze dell'ordine, dall'altra, al disorientamento delle masse, sempre più provate dall'accentuarsi della crisi economica, tornarono a incentrarsi sull'ex dittatore, che peraltro durante il suo esilio di Madrid non aveva mai smesso di intrattenere rapporti con gli esponenti politici argentini. Il 13 luglio 1973 Cámpora presentò le dimissioni, lasciando il posto a Perón che fu confermato alla presidenza da una trionfale consultazione popolare. Alla vicepresidenza fu designata la giovane moglie, María Estela Martínez, detta 'Isabelita', che, in caso d'impedimento del marito avrebbe garantito la permanenza al potere del peronismo. Si trattò di 'colpo di Stato consensuale', che di fatto ebbe l'approvazione dei militari e dell'opposizione politica. Quando dopo neanche un anno, il 1° luglio 1974, Perón morì improvvisamente, gli succedette Isabelita. Ma la preferenza accordata dalla neopresidente all'ala conservatrice del partito determinò all'interno di questo una scissione, che fece precipitare il paese nel caos. Alle azioni di guerriglia dell'Ejército revolucionario del pueblo, si aggiunsero quelle dei Montoneros, organizzazione della sinistra peronista che aveva contribuito al ritorno di Perón. Sull'altro fronte, le squadre di estrema destra (Alianza anticomunista argentina) operavano violente rappresaglie. Il diffuso clima di terrore rese necessaria la proclamazione nel novembre 1974 dello stato d'assedio. La situazione economica intanto si deteriorava ulteriormente. Nell'arco del solo 1975 si avvicendarono quattro ministri dell'Economia, adottando politiche contrastanti, ma nessuna di esse riuscì a conseguire i risultati auspicati. L'inflazione raggiunse il 300% e la paralisi dell'economia, su cui pesava anche un fortissimo deficit pubblico, si rese sempre più evidente. Le pressanti richieste di nuove elezioni presidenziali e di dimissioni della Perón, oggetto anche di accuse di corruzione, e il rafforzamento della posizione dei militari portarono al colpo di Stato del 1976, con il quale si impadronì del potere il generale G. Videla. Sospesa la Costituzione, organo supremo dello Stato, con funzioni anche di Corte suprema e di Procura generale, divenne una Giunta militare, presieduta dallo stesso Videla. La Giunta si propose di dar vita a un processo di riorganizzazione nazionale che avrebbe dovuto trasformare radicalmente la morfologia sociale e politica del paese. Tra i primi atti si registrò la presentazione di un piano economico caratterizzato da un rovesciamento delle posizioni dei peronisti, con misure quali diminuzione dei dazi, rivalutazione artificiale della moneta, rallentamento della velocità di deprezzamento del cambio, liberalizzazione del mercato dei capitali e di investimenti dall'estero, blocco dell'inflazione in un quadro generale di recupero dell'economia tradizionale basata sui grandi allevamenti e sulla grande proprietà terriera. A questa reimpostazione della politica economica, si accompagnò un tentativo senza precedenti di soffocare ogni forma di contestazione, che colpì tutte le componenti dell'opposizione, dai radicali ai peronisti, ai comunisti, alle formazioni di guerriglia, come Ejército revolucionario del pueblo e Montoneros. Furono circa 20.000 i desaparecidos, le persone 'scomparse' ovvero arrestate e giustiziate senza un regolare processo durante il regime militare. La brutale repressione - oggetto di reiterate denunce da parte della Chiesa cattolica, di Amnesty International e di altre organizzazioni per la salvaguardia dei diritti umani, affiancate all'interno del paese da movimenti quali le Madri di Plaza de Mayo e il Servizio Pace e Giustizia del premio Nobel A. Pérez Esquivel - causava un raffreddamento nei rapporti internazionali. Dopo che gli Stati Uniti presero le distanze dalla Giunta militare contraendo drasticamente gli investimenti americani in Argentina, Videla, riconfermato presidente nel 1978, fu costretto a cercare nuovi sbocchi commerciali, pure nei paesi socialisti. Il sostanziale fallimento della sua politica economica portò nel 1981 alla sostituzione di Videla con il generale R.E. Viola, cui subentrò, a distanza di alcuni mesi, il generale L. Galtieri. Di fronte all'aggravarsi della situazione e al crescere della protesta contro il regime, Galtieri tentò il diversivo della mobilitazione nazionalista e decise l'invasione delle isole Falkland, oggetto di un'annosa controversia con la Gran Bretagna. Il conflitto che ne seguì, tra l'aprile e il giugno 1982 vide la netta sconfitta argentina. Il regime militare ne ebbe il colpo di grazia. Galtieri fu costretto alle dimissioni e venne sostituito dal generale R. Bignone che, spinto dalla crescente pressione popolare, annunciò di voler indire democratiche elezioni.
Il ritorno della democrazia
Il dato politico più significativo e inatteso delle elezioni presidenziali del 1983, che segnarono il ritorno della democrazia, fu la vittoria di R. Alfonsín, dell'Unión Cívica Radical, che superò, per la prima volta dal 1946, il tradizionale avversario peronista in consultazioni senza proscrizioni. Alfonsín aveva condotto una campagna dai contenuti democratico-liberali, incentrata su una tematica che gli avversari avevano considerato ininfluente per le sorti della consultazione: il ripristino dello stato di diritto e la necessità di perseguire le responsabilità dei militari durante la dittatura. Divenuto presidente, Alfonsín avviò la transizione alla democrazia sulla base di un 'patto nazionale' con i maggiori partiti. L'apertura dei processi contro alcuni componenti delle giunte al potere dal 1976 al 1983 portò, fra le altre sentenze, alla condanna all'ergastolo di Videla. Successivamente, robuste pressioni, sfociate in rivolte delle forze armate, imposero un indirizzo più conciliatorio al governo che nel maggio 1987, con la legge dell''obbedienza dovuta', scagionò di fatto i quadri intermedi dell'esercito, provocando le proteste dei movimenti per la difesa dei diritti umani. Le difficoltà economiche (forte aumento dell'inflazione, che nel 1988 raggiunse il 5000%, e del deficit pubblico) e la conseguente adozione di misure di austerità con il Plan Austral innescavano intanto violente ondate di contestazione e di richieste salariali, promosse anche dalla peronista Confederación general de trabajo. Il piano si rivelò comunque inefficace nell'arrestare l'inflazione e nell'evitare la ripresa della speculazione nel mercato dei cambi.
Scaduto il mandato di Alfonsín, le elezioni del 1989 assegnarono la vittoria a C.S. Ménem, leader del Partido Justicialista. Ménem impostò un'efficace politica antinflazionistica riuscendo a conseguire in breve termine il risultato di rendere l'Argentina affidabile per gli investimenti stranieri. Al contempo, tuttavia, la disoccupazione crescente e la grande sperequazione delle ricchezze finivano per incrinare, in ampi settori della società civile, la fiducia negli interventi del nuovo peronismo. Infatti, smentendo la promessa fatta in campagna elettorale di una rivoluzione produttiva basata sull'aumento dei salari e sul rilancio delle attività industriali, Ménem promosse, a partire dal 1990, una serie di misure di ispirazione liberista, del tutto distanti dal tradizionale interventismo peronista. Interprete della politica del governo fu il ministro dell'Economia, D. Cavallo, che proseguì l'opera di privatizzazione delle imprese pubbliche e di riforma fiscale e combatté l'iperinflazione imponendo un regime di cambio fisso fra il peso e il dollaro statunitense. Nei confronti delle Giunte militari, Ménem mostrò da subito un atteggiamento conciliatorio che gli valse le critiche dei suoi stessi sostenitori: con due successivi provvedimenti di amnistia vennero liberati numerosi alti ufficiali, fra cui gli ex presidenti Videla e Viola e l'ammiraglio E. Massera, già condannati all'ergastolo.
La drastica riduzione del tasso di inflazione e del debito estero permise la rinnovata concessione di prestiti internazionali e l'afflusso di capitali in un paese ormai completamente aperto all'economia di mercato. Parallelamente, e grazie al sostegno degli Stati Uniti, l'Argentina guadagnava un ruolo nel 'nuovo ordine mondiale' emerso con la fine del bipolarismo, attraverso la partecipazione a iniziative delle Nazioni Unite (invio di una squadra navale nel Golfo Arabico, partecipazione alle missioni per il mantenimento della pace nei Balcani) e riallacciava le relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna, interrotte dal 1982 (benché la questione della sovranità sulle isole Falkland-Malvine non avesse ancora trovato una soluzione definitiva), che aprirono la strada ad accordi commerciali con l'Unione Europea. I successi in campo finanziario, le nuove vittorie del Partido Justicialista nelle elezioni amministrative e in quelle per il rinnovo parziale della Camera dei deputati spinsero Ménem a sostenere un disegno di riforma costituzionale in modo da rimuovere il veto alla rielezione del presidente. Al nuovo testo fondamentale le forze congiunte di Partido Justicialista e Unión Cívica Radical approdarono nel 1994. Così nel maggio 1995 Ménem poté essere rieletto presidente, prevalendo sul candidato della coalizione di centrosinistra Frente del País Solidario, la quale tuttavia otteneva una buona affermazione, superando nettamente nel numero di voti l'Unión Cívica Radical. L'emergere di una nuova forza di opposizione mostrava come la stabilizzazione monetaria ottenuta dal governo peronista non fosse più sufficiente, per varie ragioni, a garantire il consenso dell'elettorato. Anzitutto, alla grave crisi valutaria che aveva colpito il Messico nel 1994 e della quale l'Argentina aveva risentito come tutti i paesi dell'America Latina, il governo aveva reagito accelerando le privatizzazioni, rafforzando le banche private e tagliando ulteriormente la spesa pubblica. Ma tali misure da una parte non avevano impedito una riduzione nell'afflusso di capitali stranieri, dall'altra avevano aggravato i costi sociali delle riforme: nel 1995 il tasso di disoccupazione aveva superato il 15%, mentre il 46% della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà e il 40% del reddito nazionale era concentrato nelle mani del 10%. In secondo luogo, al rapido processo di deregolamentazione dell'economia imposto dal governo non aveva fatto seguito un nuovo orientamento della spesa pubblica verso l'istruzione di base, la sanità e le comunità rurali fortemente impoverite dal nuovo corso economico. Al tempo stesso, la sopravvalutazione della moneta pregiudicava l'esportazione di prodotti industriali, determinando la perdita dei tradizionali sbocchi di mercato, come il Brasile, e alimentando il deficit commerciale. L'approvazione, nel 1996, di una legge di riforma della pubblica amministrazione che autorizzava la privatizzazione di altre imprese di Stato, l'ulteriore riduzione della spesa pubblica e l'aumento della pressione fiscale contribuirono a minare ancor più profondamente la popolarità del governo, pregiudicata anche dal coinvolgimento di alcuni ministri in scandali finanziari. La crisi si manifestò con chiarezza alle elezioni legislative parziali dell'ottobre 1997, che segnarono la netta vittoria dell'Alleanza di centrosinistra, composta dal Frente del País Solidario e dall'Unión Cívica Radical, e la perdita della maggioranza assoluta nella camera bassa per il Partido Justicialista. Tornava intanto d'attualità la questione della mancata punizione dei responsabili della dittatura militare in seguito ad alcune iniziative della magistratura spagnola, che spiccò mandati di cattura internazionale nei confronti di Galtieri e Massera per il loro coinvolgimento nella sparizione di centinaia di cittadini iberici. Sollecitato da questi eventi, nel 1998 il Parlamento revocò la legge di amnistia dell''obbedienza dovuta' (la revoca era in realtà puramente simbolica, perché priva di effetti retroattivi e quindi di conseguenze pratiche per i militari che avevano beneficiato del provvedimento), mentre Videla, Massera e Bignone furono arrestati con l'accusa di sottrazione di minore (nel periodo della dittatura militare molti figli di desaparecidos nati in prigionia erano stati ceduti o dati in adozione a famiglie di militari), reato non coperto dai provvedimenti di amnistia e per il quale la legge argentina non prevede prescrizione. Nelle elezioni presidenziali dell'ottobre 1999 l'Alleanza di centrosinistra ottenne la maggioranza dei voti, e divenne presidente il radicale Fernando de la Rúa. Ma i tentativi della nuova giunta di portare l'Argentina fuori dalla crisi economica, culminati nell'affidamento del Ministero dell'Economia con poteri speciali a D. Cavallo e nel varo di un pesantissimo piano di austerità, non hanno sortito effetto alcuno. Il paese è arrivato ad accumulare 132 miliardi di dollari di debito pubblico, la disoccupazione ha toccato il 20% riguardando oltre 2,5 milioni di persone; mentre secondo le stime si sarebbero trovati in stato di povertà 36 milioni di argentini, un terzo della popolazione.
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L'Argentina meta di immigrazione
In epoca precoloniale l'Argentina ebbe una popolazione molto scarsa, dato anche il modesto livello tecnologico delle tribù indigene, che non consentiva di sfruttare le potenzialità agricole del territorio. Anche gli europei, in un primo tempo, non mostrarono particolare interesse per quest'area, di difficile penetrazione (salvo lungo la direttrice del Paraná), cosicché si può dire che, nonostante la creazione di piazzeforti e la duplice fondazio-ne di Buenos Aires già nel 16° secolo, il popolamento dell'Argentina abbia avuto inizio solo nella seconda metà del 19° secolo, quando la rivoluzione industriale creò in Europa sempre maggiori necessità di approvvigionamento alimentare dall'esterno. Accompagnata dalla progressiva estensione della rete ferroviaria, la colonizzazione del paese assunse allora ritmi sostenuti, richiamando flussi crescenti di immigrati che andavano a popolare le immense pianure delle pampas. Il numero degli abitanti, che all'inizio del 19° secolo superava appena le 300.000 unità e che ancora al primo censimento ufficiale, nel 1869, era lontano dai 2 milioni, raggiungeva gli 8 milioni nel 1914, per crescere poi fino a 16 milioni nel 1947. In generale i vari governi incoraggiarono l'immigrazione con leggi molto favorevoli, come quella contenuta nell'art. 20 della Costituzione: "gli stranieri godono nel territorio della nazione di tutti i diritti civili del cittadino; possono esercitare la loro industria, il loro commercio e la loro professione; possedere beni stabili, comperarli e alienarli; navigare i fiumi e le coste; professare liberamente il loro culto; testare e sposarsi in conformità alle leggi". L'andamento immigratorio tuttavia non fu sempre costante, sia per le ripetute crisi politiche ed economiche interne, sia per le misure restrittive adottate da alcuni degli Stati che ne costituivano i maggiori 'serbatoi'. Così, negli anni 1890-1903, i rimpatri superarono addirittura i nuovi arrivi, a causa del difficile momento nel settore primario. Subito dopo, però, e fino al nuovo rallentamento dovuto al Primo conflitto mondiale, il ritmo aumentò vertiginosamente, raggiungendo nel decennio 1904-13 una media di 240.000 immigrati l'anno. In questo periodo si manifestò per la prima volta il fenomeno della emigración golongrina, "emigrazione rondinella", limitata ai mesi invernali, epoca di raccolto sudamericano e di stasi agricola nel paese d'origine europeo, e favorita dal modesto prezzo del passaggio sui vapori delle compagnie allora in concorrenza. Nel decennio 1921-30 il numero degli immigrati salì a 300.000 unità l'anno. Con la Seconda guerra mondiale approdarono in Argentina, per l'inattività di molte industrie europee, tecnici ed esperti in diversi settori, mentre la manodopera veniva fornita dalle correnti immigratorie che il governo argentino incoraggiò in vari modi. Arrivarono operai in buona parte specializzati e agricoltori che trovarono lavoro soprattutto nelle province più lontane dalla capitale, in particolare in Patagonia, per la cui valorizzazione fu elaborato un piano (1947), anche in relazione all'importanza strategica della regione e alla possibilità di rafforzare la sovranità argentina nelle zone australi. Nel 1958 si registrava un'immigrazione di 60.000 individui l'anno. Nei decenni successivi, la struttura demografica argentina si andò progressivamente assestando e l'afflusso dall'estero calò nettamente, sia per la mancanza di rinnovati incentivi economici, sia per la sempre più precaria situazione politica, con tutte le sue gravi ripercussioni sul piano economico. La popolazione complessiva si attestava sui 27,9 milioni nel 1980 per raggiungere alla fine del 20° secolo i 35 milioni, con un indice di crescita inferiore alla media dei paesi dell'America Latina.
L'immigrazione italiana
Il flusso di immigrati portò alla formazione di ampie comunità spagnole, francesi, tedesche, polacche, russe, ma gli apporti migratori più consistenti vennero dall'Italia, che nel solo periodo 1857-1929 inviò in Argentina quasi 3 milioni di persone. Già in età coloniale molti marinai italiani giunsero al Río de la Plata, al seguito dei conquistadores, e si stabilirono poi nel territorio, insieme ad ampi gruppi che operavano nella Compagnia di Gesù. Nel periodo dell'indipendenza, il censimento della popolazione del 1810 (uno dei primi atti amministrativi del governo provvisorio sorto dalla rivoluzione) registrò una presenza italiana irrilevante rispetto alla componente spagnola, certamente inferiore a quella effettiva. Oltre a mestieri umili, gli italiani esercitavano professioni, commercio, attività imprenditoriali, ed erano in molti casi proprietari di beni urbani e rurali. Ma tra di essi non vi era un vincolo che potesse dare rilievo, anche idealmente, alla loro nazionalità, che in Europa non aveva base né potere politico. Se in questo ambiente sociale gli italiani ebbero influenza, questa fu solo d'ordine individuale. Dati più concreti risalgono al periodo di B. Rivadavia, che inviato in Europa per ottenere il riconoscimento dell'indipendenza delle Province Unite del Río de la Plata, entrò in contatto a Londra e Parigi con esuli politici italiani, uomini di scienza e di lettere, che chiamò a Buenos Aires a svolgere la loro attività. Al tempo in cui l'Italia era una mera 'espressione geografica', il pensiero scientifico italiano penetrava nell'università di Buenos Aires, attraverso l'opera, per es., dello scienziato P.C. Molina, che occupò la cattedra di fisica sperimentale, o di C. Ferraris. Durante la dittatura di Rosas, quando furono proibite l'immigrazione e la libera navigazione dei fiumi, numerosi italiani si stabilirono egualmente a Buenos Aires, mentre molti altri si rifugiarono a Montevideo, dove fu costituita, insieme a emigrati politici guidati da Garibaldi, la legione italiana contro Rosas. Successivamente, nel periodo dell'organizzazione nazionale, l'immigrazione dall'Italia si fece sempre più intensa, includendo tutta la gamma delle forze sociali. L'attività degli italiani, dal commercio e dall'agricoltura si estese alle industrie, assumendo forma collettiva con la fondazione di importanti imprese commerciali, società di mutuo soccorso, banche, gruppi editoriali, associazioni culturali.