ARENGO
. Questa parola fece la sua apparizione in Italia nel sec. XII, e servì dapprima a indicare il luogo, dove le cittadinanze insorgenti contro i feudatarî laici ed ecclesiastici si riunivano per deliberare, e poi la stessa assemblea deliberante, detta anche concio o parlamentum. Insieme con la forma arengus s'incontrano anche quelle di aringus, arringus e arenga, senza che sia facile dire quale di esse possa ritenersi come più antica. Gli statuti pistoiesi del sec. XII hanno sempre arringus; e il Varchi (Ercolano, 64) attestava che le voci arringare e arringa con doppia r, corrispondevano meglio al modo più antico di pronunziarle. In altri luoghi invece prevalse la forma arengus o arengum, che, ad esempio, s'incontra a Milano (in Muratori, Rer. Italic. Script., V, 501, 1117), a Verona (Statuti, 1228, c. 58 e c. 143), a Venezia, a San Marino, dove la parola e l'istituzione sono tuttora in vita. Ma accanto a ciò parrebbe che anche la forma arenga avesse avuto non poca diffusione; e forse un'eco di ciò si potrebbe vedere in quello che, anacronisticamente bensì, ma con chiaro riflesso della pratica del tempo, è detto in un Casus inserito nella Glossa accursiana ad Instit., I, 2, e attribuito a Francesco d'Arezzo. Vi si parla delle leges e dei plebiscita in Roma antica, e si fa invitare il popolo cum campana ad arengam, ad arengam, ad arengam, e la plebe cum quadam alia campana, che diceva anch'essa ad arengam, ad arengam, ad arengam. Le due immaginarie campane di Roma repubblicana non erano altro che quelle delle città italiane dopo che accanto al comune del podestà era sorto il comune delle corporazioni.
Sull'etimologia della parola le opinioni sono varie. Etimo probabile è il germanico *hring (ted. moderno Ring) "cerchio, luogo d'adunanza". Di recente il Mayer (Ital. Verfassungsgesch., II, p. 528), rigettato il collegamento col Ring germanico e senza neanche ricordare l'ipotesi di chi vi aveva scorta un'alterazione della parola area, ha pensato dover essere arenga la forma primitiva, derivata - egli dice - con facile alterazione da arena; e ha ricordato che a Verona l'anfiteatro ancora nel Medioevo si chiamava arena, e che a Milano si ha memoria di assemblee popolari tenutesi nel vecchio circo. Però, se si osserva che tanto a Verona quanto a Milano si legge usata la forma maschile (arengo) e non la femminile (arenga), forse anche per questo si deve dubitare della ipotesi del Mayer.
L'indagine però sull'origine della parola è naturalmente collegata con quella sull'origine dell'istituto, e sui primordî della costituzione comunale. E a tale proposito è da ricordare che, certo, neanche prima dell'anno 1000 erano mancati, sia nelle città sia nelle campagne, assembramenti e moti insurrezionali delle classi soggette contro i loro oppressori, dei vassalli minori contro i maggiori, dei borghesi e contadini contro i feudatarî. Non sembra però che con siffatte adunate possano essere messi in relazione, come pure si suol fare, il conventus ante ecclesiam di Rot. 343, e la fabula quae inter vicinos est dello stesso Rot. 346 e 344, che non parlano affatto di assemblee; e nemmeno taluni altri vaghi ricordi di assembramenti popolari.
Fu solo dopo superato il fatidico anno 1000, che i moti rivolti a scuotere il giogo feudale diventarono più frequenti, più intensi e più numerosi. Nel generale vigoroso intensificarsi della vita politica e sociale, gli aspiranti a migliori condizioni di vita non si ritennero più soddisfatti, dopo gli accordi fatti in segreto (le coniurationes ricordate sin dall'età carolingia), di prorompere in atti di passeggera rivolta, ma cominciarono a riunirsi in pubblico e a discutere e deliberare su tutto quanto poteva riguardarli. E nel sec. XI non sono rari i ricordi di queste assemblee popolari. Così a Pisa è ricordato il commune colloquium; a Milano si parla dell'assemblatorium, ossia del luogo dove per solito si tenevano le adunanze; e altrove comincia a diventare frequente la menzione della concio, del parlamentum e dell'arengum.
Data l'ipotesi della derivazione dell'ultima voce dal tedesco Ring, questa voce potrebbe essere stata importata in Italia soltanto con l'avvento degli Ottoni. Allora in Germania si parlava tuttavia del Ring, ossia del luogo dove si tenevano i placiti e si rendeva giustizia; e forse non è inverosimile la supposizione che i nuovi conquistatori del regno italico abbiano introdotto il vocabolo. Da noi infatti esso fu adoperato solo colà dove si estese la signoria germanica, mentre rimase estraneo alle contrade che non furono soggette alla medesima. Questo però non pare possa legittimare lo sforzo di quegli scrittori, che vogliono derivate le assemblee iniziatrici della libera vita comunale o dai placiti medievali o dalla curia municipale romana. Quelli erano cosa troppo diversa, e questa era ormai solo un ricordo. E nemmeno se fosse vera la supposta origine della parola arengo, ciò basterebbe a far ammettere la derivazione di un istituto dall'altro. Arengo significò dapprima soltanto il luogo dove si riunivano le assemblee popolari, e ancorché quel luogo stesso fosse già stato adoperato per i placiti, ciò non può autorizzare la derivazione di quelle da questi. L'arengo, concione, parlamento, dei comuni italiani fu lo spontaneo e specifico prodotto di quel generale e largo movimento, che nel sec. XI si manifestò in tutto l'Occidente, fra quelle classi sociali che sino allora erano state tenute in soggezione. Lo stato politico d'Italia e i ricordi antichi in essa sempre vivaci diedero a quei movimenti indirizzi e fini speciali. E quando le cittadinanze ritennero di averli raggiunti, non fecero più adunanze improvvise e occasionali, né adunanze convocate e presiedute dalle autorità prima riconosciute e ora costrette a venire a patti, o debellate, ma, rivoltesi a creare un ordinamento nuovo, anzitutto si scelsero dei capi, e ad essi affidarono il potere esecutivo, e poi regolarono le proprie adunanze, avendo ritenuto per sé il potere costituente e deliberativo. Pare che dapprima ne fissassero quattro, nei mesi di marzo, maggio, luglio e settembre, lasciando però alla magistratura cittadina la facoltà di stabilire il giorno, acciocché essa potesse scegliere quello in cui - come dice lo statuto pistoiese, c. 56 - videbitur plenius posse habere populum. Ma quelle quattro furono le adunanze ordinarie; le straordinarie avevano luogo sempre che se ne sentisse il bisogno. L'assemblea era indetta dal magistrato cittadino, e deliberava non con veri e proprî scrutinî, ma per acclamazioni espresse di solito con le parole fiat fiat. Né le minoranze erano prese in alcuna considerazione. Regole determinanti la capacità di partecipare all'arengo, non pare che in origine ce ne siano state. Intervenivano tutti gli appartenenti a quelle classi sociali che s'erano collegate per abbattere il vecchio e creare il nuovo ordine di cose. Ma, dopo, le regole vennero, e lo statuto di S. Marino, ad es., stabiliva I, 1: Est arengum congregatio universi populi terrae S. Marini, scil. unius homini pro domo. E nemmeno sulla competenza dell'arengo c'erano regole fisse. Si può dire in generale che si occupava delle faccende più importanti; e talora anche di questioni giudiziarie, specialmente penali. Organo sovrano nel comune, ne regolava la costituzione, cambiandola continuamente, decideva della pace e della guerra e delle alleanze, disponeva del territorio, legiferava, eleggeva i consoli e gli altri pubblici ufficiali, ricevendone il giuramento alla loro entrata in carica.
L'arengo del comune medievale fu un organo assai imperfetto, e costituì forse la manifestazione più evidente della deficiente vita politica delle città italiane.
Bibl.: C. Hegel, Gesch. der Städtverfassung von Italien, II, Lipsia 1847, p. 249; A. Pertile, Storia del Diritto Italiano, 2ª edizione, II, Torino 1892, pp. 1, 50; VI, Torino 1899, pp. 2, 256; E. Mayer, Ital. Verfassungsgesch., II, Lipsia 1909, p. 528; A. Solmi, in Encicl. Giur. Italiana, III, parte 2ª (1922), nn. 39, 67 e 75; E. Ruffini Avondo, I sistemi di deliberazione collettiva nel Medioevo italiano, Torino 1927, cap. II.
Architettura. - Sulla piazza maggiore, e per lo più in cospetto della cattedrale, l'arengo o arengario spesso era l'unica costruzione che avesse importanza e decoro. Naturalmente l'impianto era limitato alle forme essenziali, e l'aspetto era rude, perché l'edificio doveva incutere timore, e, all'occorrenza, servire da baluardo, non soltamo signoreggiare sulle costruzioni circostanti.
Nei secoli XI-XIV fu tutto un fiorire, in ogni città italiana, di queste fabbriche che hanno nomi diversi, ma che si possono chiaramente raggruppare per espressioni stilistiche regionali. Soprattutto tipica è la produzione dei comuni lombardi e della Val Padana, i quali giunsero subito a risolvere più prontamente e praticamente il problema: creare, cioè, un luogo di riunioni pubbliche, un luogo di riunioni segrete, un luogo da cui i magnati e i reggitori potessero dominare il popolo e arringarlo e concionare.
Ecco, quindi, un'aula porticata, aperta, a pianterreno; una grande sala, al piano superiore; e, volta verso la piazza, simile ad un pulpito pensile, una loggetta per gli oratori. Spesso un giro di merlature corona il palazzo, spesso una torre lo domina: ai locali superiori si accede attraverso un cavalcavia o per una scaletta di legno, da potersi facilmente distruggere in caso di pericoli. Queste sono le canoniche e tassative disposizioni generalmente fissate. Muta, invece, come accennammo, il nome dell'edificio in ogni città: o almeno s'usò dar nomi diversi nei diversi luoghi, benché il nome tipico e più noto sia quello di Palazzo del Comune. Monza lo chiamò addirittura Arengario, consacrando e fissando la parola nel suo significato tipico. Cosicché noi descriveremo con una certa larghezza questo fra i palazzi comunali lombardi.
Esso venne eretto nella metà del sec. XIII, e a buon diritto è considerato una derivazione del preesistente consimile palazzo di Milano. Sostanziale differenza porta la torre, che solo a Monza si eleva da un angolo, merlata e cuspidata, sino all'altezza di circa quaranta metri.
L'impianto è il solito: a pianterreno corre un arioso porticato (di circa m. 30 × 12) a due navate longitudinali su robusti pilastri a sesto acuto; copertura in legname a travature piane, che portano il pavimento del salone superiore, il quale però non ha grandezza uguale a quella dell'aula aperta di pianterreno. Verso il fondo sono ricavate una stanzetta di circa m. 6 × 6, e, accanto, la gabbia per la scala della torre. Il salone è illuminato da ampie finestre trifore, le quali all'esterno costituiscono il tradizionale elemento decorativo, a ricche ghiere concentriche in terracotta. La copertura dell'edificio (costruito in mattoni a vista, eccezion fatta per i pilastri in pietra viva) è un tetto a due spioventi, le cui capriate sono visibili dall'interno degli ambienti superiori. Caratteristica doveva essere, in origine, la disposizione adottata per accedere a questi locali: v'erano cioè due rampe di scale di legno, addossate esternamente al fianco destro e conducenti ad una piccola porta del grande salone. Tali rampe andarono poi distrutte, cosicché si dovette ricorrere all'impianto di un cavalcavia tra l'arengario e una costruzione prospiciente il suo fianco sinistro. Demolendosi, in epoca recente, anche il cavalcavia, or sono venticinque anni si escogitò il partito di sistemare una scala a chiocciola nell'angolo sottostante alla torre, ottenendo in tal modo di migliorarne le precarie condizioni statiche.
La fronte principale dell'Arengario, che è la minore, rivolta verso la piazza, porta, in alto, il caratteristico balconcino a pulpito, la parlera, cui gli oratori accedevano dal salone superiore dopo aver prese le deliberazioni di governo. La parlera è propriamente un balconcino di mudeste proporzioni, su tre mensoloni in pietra, e pare nient'altro che una scatola, la copre un tettuccio a padiglione su due colonnine; e questa, che è la parte più fragile, rappresenta l'essenza e la ragion d'essere di tutto il poderoso edificio. Ecco il vero e proprio arengo, così come l'aula terrena porticata può chiamarsi il foro della vita medievale lombarda.
L'Arengario di Monza non ha merlature che coronino i fianchi maggiori; le testate son racchiuse, invece, tra due frontoni triangolari che seguono la pendenza del tetto. La torre ha merli a coda di rondine, cioè alla ghibellina, e in cima s'innalza la cella per le campane che dovevano sonare a raccolta.
Come ognun vede, tali disposizioni sono rigidamente logiche, e nulla più. Ogni superfluo è abbandonato; lo schema è strettamente comenuto nei bisogni. Altri palazzi analoghi avranno dovizia di ornamentazioni, qualcun altro avrà mutamenti di sistemi costruttivi. A Milano, ad esempio, l'aula terrena è coperta da vòlte, manca la torre, manca la parlera; ma queste, anziché essere intimamente legate col palazzo, gli stanno attorno: la torre si erge di fronte, la parlera sta nel mezzo di una loggia innalzata apposta lì accanto. La loggia toglie allora al palazzo comunale l'ufficio vero e proprio di arengo, e tende così a sostituirglisi. Ed ecco appunto quest'altra interpretazione del classico comitium, ecco la loggia degli Osî a Milano e quella dei Mercanti a Bologna.
Tuttavia predomina sempre il palazzo come l'abbiamo descritto; e tante altre città dell'Italia Settentrionale, che hanno avuto una storia comunale, posseggono, benché alterati da rifacimenti, degli arengarî: Bergamo, Como, Cremona, la quale ne vanta addirittura due, giacché le vicende storiche la tennero divisa a lungo in quartieri irreconciliabili; abbiamo citato a caso fra i più importanti. Famosissimo fra tutti e splendido è certo il palazzo di Piacenza, dai meravigliosi finestroni polifori ornati di terrecotte. Questo edificio, provvisto di parlera, è coevo dell'arengario monzese.