SOFFICI, Ardengo
(Ardengo Amedeo Maria). – Nacque il 7 aprile 1879 al Bombone, frazione del comune di Rignano sull’Arno (Firenze), unico figlio di Egle Zoraide Turchini, proprietaria di una filanda di seta, e di Giovanni, fattore.
Dodicenne, scoprì la pittura utilizzando le tinte e i pennelli lasciati nella sua casa da un decoratore. Nel 1893 la famiglia si trasferì a Firenze, dove il padre commerciava vino all’ingrosso; due anni dopo l’azienda paterna fallì e si dovettero trasferire a Prato da un familiare. Nel 1897, anche a seguito di una malattia del padre, Ardengo insieme con la famiglia tornò a Firenze e si impiegò come garzone di un orefice, poi presso l’avvocato Luigi Remaggi, come giovane di studio. In questo periodo frequentò artisti fiorentini, appassionandosi alla rivista Il Marzocco: da qui la prima conoscenza dell’arte moderna e della letteratura francese. Assiduo frequentatore di mostre d’arte, alla Festa dell’arte e dei fiori ammirò le opere di Giovanni Segantini, maturando di conseguenza l’interesse per Jean-François Millet. Si iscrisse brevemente all’Accademia di belle arti e, nel 1899, alla Scuola libera del nudo, dove insegnavano Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Nel maggio di quell’anno, insieme con un gruppo di amici, fondò una rivista, La Fiamma, di cui uscirono tre numeri. In giugno morì il padre. Ardengo trascorse l’estate a Tutignano, dove la sua inclinazione a dipingere fu favorita dalla realtà campestre, predisponendolo al dettato impressionista. Nel 1900 Soffici e alcuni compagni della Scuola libera del nudo, Umberto Brunelleschi, Giovanni Costetti e Gino Melis, progettarono di visitare l’Esposizione universale a Parigi; lui solo rimase nella capitale francese per sette anni.
In ristrettezze economiche, si mantenne collaborando con riviste satiriche parigine fra cui Le Rire, Gil Blas, L’Assiette au beurre e Le Frou-Frou. Nella redazione della rivista La Plume.conobbe il pittore Charles Guérin, che gli fece apprezzare l’opera di Henri Rousseau, detto il Doganiere. Frequentò il Museo d’arte moderna parigino, il Museo del Lussemburgo, e il Museo del Louvre, avvicinando l’opera dei maestri moderni, Éduard Manet, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Claude-Oscar Monet, Paul Cézanne, Camille Pissarro, Alfred Sisley e Odilon Redon. Nel 1902 divenne membro della Société des artistes indépendants e in marzo, al Salon des indépendants, espose sette opere che risentivano del primitivismo e del simbolismo; Tristan Klingsor ne scrisse favorevolmente su La Plume. Soffici dette allora inizio alla sua attività di critico, pubblicando testi in francese su artisti italiani. L’anno successivo si legò sentimentalmente a Hélène d’Œttingen, donna di origine russo-polacca la cui casa in boulevard Raspail fu luogo d’incontro per letterati e artisti, come Guillaume Apollinaire, Rousseau, Pablo Picasso. In febbraio fu pubblicato, su La Revue blanche, rivista d’avanguardia, un disegno di Soffici e, in marzo, egli espose di nuovo al Salon des indépendants.
Soffici mantenne costanti contatti con l’Italia; nel 1903 iniziò ad avere rapporti con Leonardo, rivista diretta da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini; in estate tornò in Italia insieme con Hélène e il suo fratellastro Serge Jastrebzoff Férat, pittore. Furono anni d’intensa attività: nel 1904 partecipò alla revisione della rivista L’Europe artiste, realizzandone la xilografia per la testata e il frontespizio; illustrò interamente il numero del 1° ottobre de L’Assiette au beurre; sempre su L’Europe artiste pubblicò in ottobre, con lo pseudonimo di Stéphane Cloud, un lungo resoconto sul Salon d’automne, dove definì Medardo Rosso «le plus grand sculpteur de l’Italie moderne» (p. 339).
Negli anni successivi, continuò a passare l’estate a Poggio a Caiano e il resto dell’anno a Parigi, esponendo con gli Indépendents (nel 1905 e nel 1907). Grazie all’interessamento di Hélène, dipinse dei pannelli decorativi per un albergo termale a Roncegno, in Trentino, terminati nel 1906. Papini visitò Parigi, dove Soffici gli fece da guida, presentandolo alla sua cerchia di amici e artisti: Picasso, Juan Gris, Max Jacob, Apollinaire. Il carteggio fra i due toscani divenne costante e la loro amicizia intima. Soffici si avvicinò all’impressionismo e al postimpressionismo frequentando la galleria di Paul Durand-Ruel e la galleria del mercante e scrittore Ambroise Vollard.
Nell’estate del 1907 lasciò Parigi per rientrare a Poggio a Caiano, nella casa dove abitò per il resto della vita. Realizzò un album di studi con disegni e acquarelli, significativo documento della ripresa italiana del suo lavoro, nel quale si riconoscono memorie del postimpressionismo e accensioni di colore caratteristiche dei pittori fauves. La sua pittura continuò a mostrare spiccata personalità e qualità formali nell’elaborazione del paesaggio come soggetto centrale di tutta la sua attività creativa. La decisione di rimanere stabilmente in Italia, presa anche a causa del deteriorarsi del rapporto con Hélène d’Œttingen, costituì una novità nell’ambiente artistico-culturale allora provinciale di Firenze. In ottobre, al Salon d’automne di Parigi, espose la sua opera Mendiants. Nel 1908 collaborò con Papini e Prezzolini alla fondazione della rivista La Voce, oltre a pubblicare su numerose riviste italiane, da Il Rinnovamento, foglio dei cattolici modernisti milanesi, a Vita d’arte, pubblicata a Siena e sulla quale firmò il primo articolo italiano su Paul Cézanne. Proprio ne La Voce pubblicò articoli che ebbero conseguenze importanti per la cultura italiana: su Rosso, sull’impressionismo e, con feroce carica satirica, sui futuristi. Sebbene le sue condizioni economiche rimanessero modeste, nel 1909, a proprie spese, Soffici pubblicò il primo libro, Ignoto toscano, con la sigla della libreria Seeber; qualche mese dopo Il caso Medardo Rosso mise in chiaro la statura culturale del critico-scrittore.
Nel 1910, inviato a Parigi su incarico de La Voce per reperire opere di impressionisti da esporre in una mostra a Firenze, tornò a frequentare la sua cerchia di amici e artisti e conobbe personalmente Rosso, insieme al quale decise di includere nella mostra una sala con le sue sculture (I Esposizione italiana dell’impressionismo francese, Lyceum Club, aprile-maggio del 1910). Negli anni a seguire, tornò a Parigi regolarmente, spinto dalla «disperata necessità di cimenti e di lotte» (A. Soffici, Primavera, in La Voce, III (1911), 22, p. 581). Nel 1911 visitò a Milano la mostra futurista nel Padiglione Ricordi, che criticò aspramente. Ciò dette origine alla spedizione punitiva di Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Filippo Tommaso Marinetti a Firenze, che si risolse in un’intesa, nella determinazione comune a svecchiare la cultura provinciale e accademica dell’Italia umbertina e nella sfida alla società borghese. Lo stesso anno Soffici pubblicò per i Quaderni della Voce la prima monografia italiana su Arthur Rimbaud e l’anno successivo il romanzo Lemmonio Boreo, accolto con attenzione dalla critica e che Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere (Torino 1950, p. 178) definì «[f]iliazione [...] dal Jean-Cristophe di Romain Rolland». Soffici si confermò in questi anni capace di anticipare e orientare il gusto letterario e artistico, pubblicando testi su Picasso, George Braque, Rimbaud, Rousseau e Renoir. Nel 1912, a Parigi, conobbe la pittrice Alexandra Exter, detta Aissa, di Kiev, avvicinandosi alle istanze del cubismo. Tornato a Poggio a Caiano nell’estate, sperimentò le prime scomposizioni plastiche di paesaggi, figure e nature morte.
L’opera di rinnovamento proseguì nel gennaio del 1913 con la nascita di Lacerba, fondata da Soffici e Papini, di cui Soffici suggerì il titolo e disegnò la testata. Lacerba costituì il coagulo delle migliori giovani energie culturali e creative italiane del momento. Soffici vi pubblicò articoli sul cubismo, poi raccolti nel volume Cubismo e oltre per le Edizioni della Libreria della Voce, invitò gli amici parigini a collaborare e iniziò la pubblicazione del suo Giornale di bordo, raccolto in volume nel 1915, modello esemplare dello stile di Soffici: intrecciare critica d’arte, letteratura e filosofia con le esperienze di vita quotidiana. Nel febbraio del 1913 espose nove opere alla I Esposizione di pittura futurista al teatro Costanzi di Roma e, poco dopo, iniziò la collaborazione dei futuristi (Marinetti, Boccioni, Aldo Palazzeschi) con Lacerba. Da questa collaborazione nacque l’Esposizione di pittura futurista di “Lacerba” che venne inaugurata a Firenze nel novembre del 1913 con la partecipazione di Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Gino Severini, Soffici e che ebbe immediato successo specie fra giovani artisti: Ottone Rosai, Achille Lega, Primo Conti. Nello stesso periodo Soffici partecipò a varie mostre organizzate dai futuristi a Roma, Londra e Napoli, ma Papini prima, e poi lo stesso Soffici si allontanarono da Marinetti e Boccioni fino alla rottura definitiva del dicembre del 1914 consumata sulle pagine di Lacerba, ormai rivista interventista e chiusa allo scoppio della guerra. Soffici pubblicò, sempre nel 1914, Arlecchino, raccolta di prose, per le Edizioni Lacerba.
Nel 1915, in attesa di partire volontario per il fronte con il grado di sottotenente, pubblicò BÏF§ZF+18. Simultaneità e chimismi lirici, che si situò nell’area della poesia visiva europea di cui Apollinaire era stato capostipite. Ferito due volte e decorato al valore, dalla guerra trasse materiale per Kobilek. Giornale di battaglia (1918), uno dei libri più belli sulla Grande Guerra; cui seguì La ritirata del Friuli (1919). Nel 1918 uscirono La giostra dei sensi per le Edizioni della Libreria della Voce e il primo numero della rivista Valori plastici, dove espose argomenti impostati sin dal 1908: i primitivi toscani quali elementi fondamentali entrati nelle correnti artistiche moderne tramite Cézanne. L’anno seguente, congedato, Soffici tornò a Poggio a Caiano; sposò Maria Sdrigotti, nata a Udine, conosciuta durante la guerra, dalla quale avrebbe avuto tre figli: Valeria, Laura e Sergio. Lo stesso anno pubblicò Scoperte e massacri. Scritti sull’arte per l’editore Vallecchi, di cui Benedetto Croce scrisse: «libro che [...] si legge con molto piacere, perché vivo ed agile, e perché quest’autore [...] è in fondo un bravo giovane, facile all’entusiasmo e al contro-entusiasmo» (Ardengo Soffici. Scoperte e massacri. Scritti sull’arte, in La Critica, 1919, vol. 17, p. 384); e Statue e fantocci, raccolta di scritti letterari. Nel 1920 redasse integralmente i quattro numeri della rivista Rete mediterranea, da lui fondata e diretta, nei quali tornò a riflettere criticamente sulle esperienze d’avanguardia, orientandosi per il recupero dei valori tradizionali dell’arte. Lo stesso anno a Firenze, presso palazzo Horne, si tenne un’importante esposizione personale con centodiciassette opere; per l’editore Vallecchi, Soffici pubblicò il volume Primi principi di un’estetica futurista. Negli anni seguenti partecipò a numerose mostre e collaborò con Valori plastici, per le cui edizioni, nel 1921, pubblicò la monografia Giovanni Fattori.
Entusiasta per la presa del potere da parte del fascismo, si trasferì a Roma dal dicembre del 1922 all’aprile del 1924 e vi lavorò alle terze pagine del Nuovo Paese, poi del Corriere italiano. Nel 1923 pubblicò Battaglia fra due vittorie per le Edizioni della Libreria della Voce, dove rappresentò lo stato d’animo degli intellettuali fascisti dell’epoca. Nel 1925 si schierò a fianco di Giovanni Gentile e del suo manifesto in supporto alla rivoluzione fascista e l’anno successivo collaborò al settimanale L’Italiano, diretto da Leo Longanesi, e a Il Selvaggio, dove fu fra gli autorevoli sostenitori della poetica di Strapaese che privilegiava le radici contadine dell’arte e della cultura (in opposizione a Stracittà di Massimo Bontempelli e degli artisti di Novecento). In Il Selvaggio apparvero suoi scritti di memorie parigine, poi raccolte in volume nel 1934 dalle edizioni Il Selvaggio con il titolo Ritratto delle cose di Francia. Nel 1926, alla XV Biennale d’arte di Venezia, Soffici espose in una mostra individuale venticinque opere, a riprova della fama raggiunta. Nel 1927 pubblicò Elegia dell’ambra, poemetto di derivazione laurenziana recensito pubblicamente da Benito Mussolini; si dedicò anche alla stesura di un programma per il sindacato corporativo degli artisti, discutendone in vari articoli su Il Selvaggio; programma che si realizzò nel Sindacato regionale toscano delle arti del disegno. Oltre alla pittura, tornò a dedicarsi all’incisione e partecipò a Firenze alla II Esposizione internazionale dell’incisione moderna. Nel 1928 pubblicò da Vallecchi Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine e per Hoepli una breve monografia, Carlo Carrà, seguita l’anno successivo da un libro su Medardo Rosso, edito ancora da Vallecchi.
Nonostante l’impegno profuso, Soffici era deluso dall’insieme della cultura italiana. In una lettera a Prezzolini dichiarò: «Tutto quello che succede qui [...] mi disgusta. L’Italia non ha mai vissuto una vita intellettuale così cafona. Mussolini ha più volte promesso [...] di imprimere una seria direttiva a tali faccende; ma per ora siamo sempre in balia del ciarlatanismo, del provincialismo, del confusionismo ecc.» (Prezzolini - Soffici, 1982, p. 83). Nel 1930 fu organizzata a Milano una mostra con Carrà alla galleria Bardi; l’anno seguente a Roma, alla I Quadriennale, Soffici espose trentuno opere a olio e ventiquattro fra acquarelli, disegni e incisioni. Nel 1932 gli venne conferito il premio Mussolini e realizzò un affresco per il Comune di Montale (Pistoia), a compimento dell’acquedotto, unica commissione pubblica portata a conclusione. Negli anni seguenti, fu fitta la collaborazione con riviste e quotidiani; con la Gazzetta del popolo di Torino pubblicò regolarmente articoli che andarono poi a costituire alcuni libri come Ricordi di vita artistica e letteraria (1931) e Taccuino di Arno Borghi (1933). Nel 1937 Giuseppe De Robertis curò per Vallecchi una scelta critica della sua opera letteraria, Fior fiore, e nel 1938, da Vallecchi, Soffici pubblicò Marsia e Apollo, raccolta della sua opera poetica. Nel 1939 fu edito sempre dallo stesso editore Salti nel tempo. Da quest’anno, egli iniziò a tenere un diario, Sull’orlo dell’abisso, sulla seconda guerra mondiale, pubblicato a più riprese sul Corriere della sera, sul Corriere d’informazione e su Il Borghese, e raccolto in volume nel 1962 all’interno dei Diari, per le edizioni Il Borghese, che riunirono scritti autonomi di Soffici e Prezzolini. Nel 1939, su proposta di Mussolini, fu nominato accademico d’Italia. Se in precedenza la scrittura e la pittura avevano proceduto in parallelo, a partire dal 1940 la pittura prevalse, anche per quantità di opere. Negli anni di guerra, Soffici continuò a lavorare ed esporre: a Milano nel 1941 presso la galleria Barbaroux e nel 1942 alla galleria il Milione; nel 1943 a Firenze alla galleria Michelangiolo. Nel luglio del 1943, alla caduta del regime fascista, scrisse a Papini: «Tu sai quel che pensavo [...] del passato regime, quale era ridotto; ma l’idea era sublime» (Papini - Soffici, 2002b, p. 243). Lo stesso anno uscì per Vallecchi Selva. Arte, raccolta di brani e riflessioni sull’arte.
Nel 1944, dopo l’uccisione di Giovanni Gentile e prima dell’arrivo a Firenze delle forze alleate, Soffici abbandonò la casa di Poggio a Caiano per rifugiarsi in una villa sulle colline fiorentine. Fu arrestato in dicembre e trasferito prima al carcere delle Murate di Firenze e poi al campo di concentramento di Collescipoli (Terni), dove rimase fino al luglio 1945. Anche qui riuscì a dipingere su cartoni ricavati da scatole di biscotti con colori diluiti a nafta. Nel 1946 fu denunciato per collaborazionismo alla corte di assise straordinaria, ma venne assolto per insufficienza di prove. Tornò, lo stesso anno, a Poggio a Caiano, dove riprese il lavoro artistico e letterario, nonostante la sua casa fosse stata bombardata e saccheggiata.
Nel 1948 espose alla galleria Il Fiore di Firenze venticinque opere in una personale con presentazione di Raoul Diddi e pubblicò, per le edizioni L’Arco, Itinerario inglese. Nel 1950 diede alle stampe per Vallecchi Trenta artisti moderni italiani e stranieri e nel 1951 iniziò la pubblicazione di Autoritratto di artista italiano nel quadro del suo tempo, terminata quattro anni dopo, per la quale ricevette il premio Marzotto 1955. Nel 1952, alla galleria San Fedele di Milano, una mostra antologica con centoquattro opere di Soffici segnò il suo pieno ritorno in pubblico dopo le vicende di guerra e dopoguerra. Dal 1952 al 1955 si susseguirono mostre e personali in tutta la penisola e dal 1954 egli riprese la collaborazione con il Corriere della sera. Sempre nel 1954 realizzò le scene per La fanciulla del West al Maggio musicale fiorentino; e nel 1959 le scene per un’altra opera di Giacomo Puccini, Suor Angelica, presentata al teatro della Scala. Presso Vallecchi curò la pubblicazione delle proprie Opere, i cui primi due volumi (dei sette totali) apparvero nel novembre del 1959. Nonostante l’età, non smise né di sperimentare (nel 1960 furono pubblicate da Il Bisonte, Firenze, le sue prime litografie), né di criticare lo stato della cultura italiana (nel luglio del 1961 sul Corriere d’informazione firmò una feroce requisitoria contro i critici d’arte italiani). Nel giugno del 1964 gli furono dedicate due sale della Mostra nazionale premio del Fiorino a Firenze, con trentasette opere.
Il 19 agosto 1964 morì nella sua casa di Vittoria Apuana presso Forte dei Marmi, per una trombosi cerebrale. Venne sepolto nel cimitero di Poggio a Caiano.
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