ARCHIMANDRITA (dal gr. ἀρχιμανδρίτης, da ἄρχω "comandare, essere a capo", e μάνδρα "ovile", e in senso figurato, nel linguaggio ecclesiastico, "monastero")
Nelle chiese di disciplina bizantina è così detto il superiore di ogni monastero importante, e corrisponde esattamente all'abate dei Latini. È talvolta adoperato come sinonimo di egumeno, specialmente trattandosi di monasteri greci e dell'epoca moderna. In origine l'archimandrita non differisce affatto dall'egumeno, ed è come lui un superiore di monastero, o anche di una federazione monastica; solo dall'epoca di Giustiniano la parola archimandrita venne riservata ai superiori dei monasteri più importanti, mentre quelli dei conventi minori si chiamavano egumeni, senza che vi sia stata tra archimandrita ed egumeno la relazione di superiore ad inferiore nel senso gerarchico, come tra l'abate e il priore dei Latini. Dal sec. XI al XIII questa differenza crebbe: col tempo si disse archimandrita quello che oggi riceverebbe il nome di superiore di congregazione monastica: p. es., l'abate di Montecassino o il presidente della congregazione di Subiaco. Tale era il caso per le federazioni monastiche dell'Olimpo in Bitinia, del monte Athos, del Latros, di Sicilia sotto i Normanni. A fianco dell'archimandritato effettivo, si ebbe poi un archimandritato onorifico. Dal sec. VII al più tardi, l'archimandrita deve sempre aver avuto anche il sacerdozio. I sacerdoti occidentali di rito latino non possono essere nominati archimandriti, essendo questa dignità propria della Chiesa orientale. Non mancano esempî in contrario, ma si tratta di abusi.
Fino al sec. XVIII, questo titolo è stato piuttosto raro. Ma la necessità di affidare a monaci la cura di beni monastici situati in luoghi remoti, e di ospizî o procure, detti metochî (μετόχια), ha contribuito assai a moltiplicarlo. Dal sec. XVIII presso i Greci ed i popoli a contatto molto frequente con Costantinopoli, come Melkiti, Bulgari, Rumeni, si arrivò a conferire l'archimandritato a sacerdoti secolari; gli Slavi invece s'astennero da tale abuso, benché i Ruteni abbiano avuto archimandriti commendatarî sull'esempio dei Latini. Per conseguenza, gli archimandriti che s'incontrano in gran numero in tutto l'Oriente spesse volte non sono affatto dei monaci. Altro abuso è quello di certi sacerdoti secolari di portare, sopra il copricapo detto camelaucio, il velo proprio dei monaci.
Nella gerarchia l'archimandrita è superiore al "protosincello", o primo dei vicarî generali, meno a Costantinopoli, a motivo della grande importanza della carica del cosiddetto grande protosincello. Viene perciò immediatamente dopo il vescovo. Distintivo essenziale dell'archimandrita, quando veste tutti i paramenti sacerdotali, è l'epigonatio, comune del resto a tutti i dignitarî. Soltanto in virtù di un uso inveterato può fregiarsi della croce pettorale e vestire il polistavrio o felonio (pianeta) ornato di molte croci nel tessuto. Il velo, che il vescovo e l'archimandrita soli conservano nell'interno del santuario, non è un distintivo onorifico, ma una parte essenziale della divisa monastica per quei monaci che sono arrivati al grado detto del piccolo abito. Solo l'archimandrita regolare ha diritto al pastorale, semplice bastone in forma di T, o tutt'al più simile a quello del vescovo, ma con i serpenti intrecciati rivolti a terra, per indicare che la sua giurisdizione è limitata al proprio monastero o alla confederazione. Sempre in virtù dell'uso, e soltanto se è monaco, l'archimandrita può vestire il mandia, l'ampio mantello monastico, nero e ornato agli angoli di pezzi quadrati di seta, o di velluto paonazzo o rosso cupo. Abusivamente alcuni archimandriti vestono il mandia episcopale di seta paonazza. E per semplice consuetudine l'archimandrita regolare firma mettendo una croce innanzi al proprio nome: a Costantinopoli gli archimandriti secolari usano fare lo stesso.
L'archimandrita regolare può, senza nessuna delegazione del vescovo, dare ai proprî sudditi, ma a questi soli, l'ordine del lettorato (14° canone del VII concilio ecumenico) e anche il suddiaconato (canone 25 di S. Niceforo di Costantinopoli). L'archimandrita secolare ed onorifico deve ottenere per ciò un espresso permesso del vescovo, permesso che d'altra parte si suol dare per il lettorato soltanto ad ogni sacerdote celibe, o ad un ieromonaco, cioè ad un monaco rivestito del sacerdozio.
Al contrario degli abati latini, l'archimandrita non può celebrare pontificalmente. Si dice che alcuni archimandriti russi dànno la benedizione col dicerio e tricerio, candele intrecciate che simboleggiano, l'una le due nature (divina ed umana) del Salvatore, l'altra le tre Persone della SS. Trinità; ma non fanno ciò mai se il vescovo è presente, perché allora spetta a lui di dare tutte le benedizioni. Presso gli Albanesi di Sicilia il protopapàs, o arciprete effettivo, fa altrettanto, e l'uso potrebbe essere antico. Si è introdotta in Russia e altrove l'usanza, poco canonica ma tollerabile, di conferire ad alcuni archimandriti il privilegio di portare la corona o mitra episcopale; lo stesso fanno alcuni protopopi, o arcipreti secolari.
L'archimandrita regolare, effettivo o titolare, corrisponde esattamente, per rango e prerogative, all'abate benedettino; quindi sarebbe legittimo che questa dignità non venisse più conferita a sacerdoti secolari. A tale scopo si è adoperato di recente l'arcivescovo di Atene, mons. Crisostomo Papadopoulos. In pratica, il sacerdote secolare onorato dall'archimandritato può vestire, in virtù della costumanza, il velo, la croce pettorale e l'epigonatio, ma mai la panagia. L'abito di città e di coro deve essere tutto nero: non anello, né fascia paonazza, e molto meno zucchetto. Di più, l'uso di quei distintivi è ristretto ai confini dell'eparchia (diocesi) in cui è stato conferito: soltanto l'archimandrita nominato da un patriarca ne può usare in tutto l'ambito del patriarcato; chi fosse nominato dal sommo pontefice potrebbe usufruirne ovunque. Riguardo poi all'assimilazione con le dignità del clero occidentale, l'archimandrita secolare nominato da un vescovo non è più di un canonico: quello nominato da un patriarca potrebbe venire equiparato ad un prelato romano di grado medio; ma non vi è regola ben precisa.
Anticamente i Ruteni cattolici avevano archimandriti quali superior dei monasteri più importanti, e un protoarchimandrita per tutta la loro congregazione. Tanto gli uni quanto gli altri celebravano pontificalmente, al pari degli abati latini: pratica non strettamente canonica. Oggi, quelli che hanno ricevuto da Roma una prelatura, non avendo distintivi corrispondenti nella propria chiesa, portano in città l'abito prelatizio latino e in chiesa il pastorale, anche presente il loro vescovo: cosa poco regolare.
L'archimandrita di S. Maria di Grottaferrata, presso Roma, è un vero archimandrita regolare e ne ha tutti i privilegi, ma soltanto quelli. Quando Leone XIII prescrisse il ritorno a un rito puro, doveva scomparire l'uso della corona, del mandia episcopale, del pastorale vescovile e la pratica dei pontificali. Si dice che il pontefice avrebbe concesso questi privilegi all'ultimo archimandrita Arsenio Pellegrini vita durante.
Bibl.: Gli articoli sparsi in molte enciclopedie ecclesiastiche contengono varie inesattezze: si veda N. Milaš (già vescovo di Zara), Dostojanstva u pravoslavnoj Crkvi (Le dignità nella Chiesa ortodossa), Pančevo 1879; G. Pargoire, in Dict. d'archéol. chrét. et de liturgie, I, ii, s. v.