arbitrio
. È assunto sempre in D. nel significato di libero a., o libero voler (Pg XVI 76), anche quando non è preceduto dall'aggettivo, come in Pg VIII 113 Se la lucerna che ti mena in alto / truovi nel tuo arbitrio tanta cera / quant' è mestiere in fino al sommo smalto, e in Pd V 56 Ma non trasmuti carco a la sua spalla / per suo arbitrio alcun, sanza la volta / e de la chiave bianca e de la gialla. Senza usare il termine, D. accenna al libero a. anche nel Convivio, dove parla della podestade... di mio consiglio (III I 4) e della podestà di fare o di non fare (IV 6). Di libero a. D. parla in Rime CXI 10 e, più diffusamente, in Pg XVI 67-83, XVIII 55-75, XXVII 140-141, e in Mn I XII 1-7. Cfr. anche Ep IV 4, XIII 25 e 34, XI 4 e Mn III VI 5; VE I IX 11, II X 5, Ep I 8, VI 3.
Nelle Rime (CXI 10) D. dice che nel cerchio de la sua palestra, cioè nell'ambito della passione amorosa, liber arbitrio già mai non fu franco, ossia il libero a. non è veramente libero, sì che è inutile cercar di deliberare (sì che consiglio invan vi si balestra). Sembra dunque che in questo sonetto D., forse più vicino all'esperienza della passione e non ancora adusato alla riflessione filosofica, ammetta l'impotenza della ragione sulle passioni, almeno sulla passione d'amore. Diversa era l'opinione dei teologi e diversa sarà l'opinione di D. in altre opere. Per l'opinione dei teologi ricordiamo che s. Tommaso aveva distinto due casi: o la passione riduce l'uomo in uno stato infraumano, e allora è sospeso anche l'uso del libero a., o la passione non toglie l'uso della ragione, e allora resta un certo spazio per il libero a.: " Huiusmodi autem immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Uno modo, sic quod totaliter ratio ligatur, ita quod homo usum rationis non habet: sicut contingit in his qui propter vehementem iram vel concupiscentiam furiosi vel amentes fiunt... Aliquando autem ratio non totaliter absorbetur a passione, sed remanet quantum ad aliquid iudicium rationis liberum " (I II 10 3 a).
Una vera e propria dottrina sul libero a. si trova in Pg XVI dove, a D. che gli aveva chiesto quale fosse la cagione della malizia del mondo, Marco Lombardo risponde che la causa non è il moto del cielo; infatti se il cielo, ossia gli astri, muovessero tutto necessariamente, sarebbe distrutto negli uomini il libero arbitrio (v. 71). Ma non è così: il cielo inizia i primi moti dell'animo (cfr. APPETITO) che sono legati alla natura animale dell'uomo; nell'uomo c'è però un'anima spirituale, una mente (mens è il termine agostiniano per indicare lo spirito, la parte spirituale dell'uomo) che non dipende dai moti degli astri (che 'l ciel non ha in sua cura) ma solo da Dio, dal quale si dipende senza perdere la libertà (liberi soggiacete, vv. 81-82). Come osserva G. Roatta (Libero arbitrio..., p. 29), questi versi hanno notevole affinità con la risposta che Tommaso d'Aquino dà alla domanda " Utrum corpora caelestia sint causa humanorum actuum " (Sum. theol. I 115 4): " Respondeo dicendum quod corpora caelestia in corpora quidem imprimunt directe et per se... In vires autem animae quae sunt actus organorum corporeorum, directe quidem, sed per accidens... Unde si intellectus et voluntas essent vires corporeis organis alligatae... ex necessitate sequeretur quod corpora caelestia essent causa electionum et actuum humanorum... Et ita sequeretur quod homo non esset liberi arbitrii... Quia ergo constat intellectum et voluntatem non esse actus organorum corporeorum, impossibile est quod corpora caelestia sint causa humanorum actuum ". E ad secundum osserva: " multiformitas actuum qui sunt ab intellectu et voluntate, reducitur in principium uniforme quod est intellectus et voluntas divina ". A proposito del liberi soggiacete, si può ricordare " sic Deus ipsam [voluntatem] movet, quod non ex necessitate ad unum determinat, sed remanet motus eius contingens et non necessarius " (I II 10 4 a).
Che cosa sia il libero a. è spiegato in Pg XVIII. C'è nell'uomo, come in ogni altro ente, una tendenza naturale al bene (de' primi appetibili l'affetto), tendenza necessaria, come quella che spinge l'ape a fare il miele, e quindi al di qua del bene e del male morale (merto di lode o di biasmo non cape, vv. 57-60), non imputabile. Ora, affinché alla tendenza profonda della natura umana, a questa prima voglia, si conformi (si raccoglia) ogni singola volizione, ogni scelta, è data all'uomo la capacità di deliberare (la virtù che consiglia) e di orientare la decisione (l'assenso, vv. 61-63) a questo o a quest'altro partito. Perciò gli atti coi quali la volontà aderisce a questo o a quest'altro oggetto possono dirsi buoni o cattivi moralmente (buoni e rei amori, vv. 64-66) e per questo l'uomo è capace di meritare. La nobile virtù per la quale l'uomo ha il potere di dominare anche le tendenze istintive, che nascono naturalmente, necessariamente, è lo libero arbitrio (vv. 73-74).
Sembra dunque che nel Purgatorio D. ammetta che il libero a. non è mai necessariamente sopraffatto dalla passione, diversamente da quel che aveva detto nel sonetto citato sopra (Rime CXI 8-10).
La dottrina esposta da D. nel Purgatorio - dottrina comune alla scolastica - ha come prima fonte Aristotele nel iri libro dell'Etica Nicomachea 111 b 4 ss. C'è a fondamento di ogni nostra scelta o decisione (προαἰρεσις) una volontà o desiderio (βούλησις) del bene in genere o del fine (de' primi appetibili l'affetto). Ma l'uomo non realizza i fini che desidera senza una consapevolezza del modo per realizzarli, senza domandarsi quali siano i mezzi migliori per ottenerli: la scelta esige quindi un ragionamento (ἠ γἀρ προαἰρεσις μετἀ λόγου χαἰ διανοἰας, 1112 a 15-16) e questo ragionamento è la deliberazione (βούλησις o βουλἠ. Si sceglie ciò che è stato giudicato adatto a conseguire il fine: τὁ γἀρ έχ τἦς βουλἦς προχριθἑν προαιρετόν έστιν, 1113 a 4. Nelle traduzioni medievali βούλησις era tradotto con voluntas, βούληυσις e βουλἠ con consilium, προαἰρεσις con electio. Ma, prima ancora di conoscere direttamente l'Etica Nicomachea, gli scolastici latini conobbero, nella traduzione di Burgundio Pisano, il De Fide orthodoxa di s. Giovanni Damasceno, il quale riprendeva la dottrina aristotelica sulla genesi dell'atto di scelta, opera del libero a., ma distingueva un numero maggiore di momenti nell'atto libero; tra l'altro poneva la γνὠμη (sententia) fra la conclusione della deliberazione e la scelta; l'uomo che ha da scegliere, dopo aver deliberato " amat quod ex consilio iudicatum est, et vocatur sententia" (cit. da O. Lottin, Libre arbitre..., p. 938). Tommaso d'Aquino si serve di questa nozione del Damasceno per integrare la nozione agostiniana di consensus nella descrizione aristotelica: egli identifica infatti il consensus con la sententia (I II 15 2 c) e ammette che, quando si trovi un solo oggetto che risponda al fine voluto, il consensus coincide con la electio. Si capisce quindi che D. chiami assenso l'atto col quale si sceglie un oggetto o ci si decide per una determinata azione, atto che dipende (e di cui de' tener la soglia) dalla ragione in quanto capacità di deliberare (Pg XVIII 63).
Ma sul rapporto di volontà e ragione nel libero a. nascevano problemi, e qui occorre rifarsi al passo di Mn I XII, dove D. afferma che il primo principio della nostra libertà è la libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci; dicono infatti che il libero a. è liberum de voluntate iudicium, ma non sanno spiegare cosa vogliano dire queste parole (§ 2). D. le spiega così: il giudizio sta fra la conoscenza (apprehensio) e l'appetito; prima infatti si apprende una cosa, se ne ha la nozione, poi la si giudica buona o cattiva, e l'ultimo giudizio è seguito da una scelta positiva o negativa (et ultimo iudicans prosequitur sive fugit, § 3). Ora, se il giudizio determina l'appetito, e non è da questo determinato, esso è libero, mentre non è libero il giudizio determinato da un appetito, ossia da una tendenza (ab appetitu... praeveniente iudicium, § 4) che, proprio per essere anteriore al giudizio, è cieca. E perciò non hanno libero giudizio, ossia libero a., gli animali bruti, perché i loro giudizi (le loro valutazioni) sono determinati dall'appetito, ossia dall'impulso (§ 5).
La definizione del libero a. come liberum de voluntate iudicium è di Boezio (Herm. sec. III 9): " nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in id, quod nobis faciendum vel non faciendum iudicantibus perpendentibusque videatur, ad quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam venimus, ut id quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo extrinsecus aut violenter cogente aut impediente violenter ". Boezio polemizza con gli stoici, i quali ritengono di salvare la libertà dicendo che quello che facciamo dipende da noi, dalla nostra natura; ma questo non basta: " nos autem liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit, sed quod quisque iudicio et examinatione collegerit... quotiescumque enim imaginationes quaedam concurrunt animo et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his iudicat, et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit, facit... Ideo non in voluntate, sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium... atque ideo quarundam actionum nos ipsi principia, non sequaces sumus... Melius igitur peripatetici nostri... liberum arbitrium in electione iudicationis et voluntatis examinatione posuere ". Benché il problema del libero a. si ponga per Boezio in polemica con gli stoici, e quindi in un contesto che non era presente al tempo di Aristotele, Boezio crede di trovare in Aristotele una dottrina del libero a. grazie, forse, ai commentatori aristotelici dai quali dipende. Alla libertà dedica infatti una lunga trattazione Plotino (Enn. VI 8 1 ss.) che riprende i termini aristotelici del problema, ma va oltre. Plotino si domanda in che cosa consista quel dipendere da noi di un'azione (τὁ εφ'ἡμι̃̃ν) di cui aveva parlato Aristotele nel libro ili dell'Etica Nicomachea, e adopera anche il termine αὐτεξιούσιον (Enn. VI 8 3) per indicare l'esser padroni di sé, termine che i latini, p. es. s. Girolamo (adv. Pelag. III 7) tradurranno con liberum arbitrium (Gauthier - Jolif, Comm. à Arist., L'Ethique, II 217). Certo Plotino afferma recisamente che l'esser padroni di sé, che egli identifica con l'essere liberi (τὁ ἐλεὐθερον ἔχειν χαἱ τὁ ὲπ᾽αὐτῳ̃, Enn. VI 8 4; τὁ εφ'ἡμι̃̃ν χαἱ τὁ ἐλεὐθερον, VI 8 6; αὐτεξιούσιον χαἱ τὁ εφ'ἡμι̃̃ν, IV 8 6) dipende dall'intelligenza (ἐν νῳ̃ μόνῳ νοου̃ντι τὁ αὐτεξιούσιον χαἱ τὁ ὲπ᾽αὐτῳ̃, Enn. VI 8 5; cfr. anche 8 6). Di origine neoplatonica è pure la trattazione di s. Agostino sul libero a. - ora Agostino e Boezio sono i due autori che dominano il Medioevo - ma, a differenza di Boezio, Agostino mette l'accento sulla volontà: spesso compare l'espressione liberum voluntatis arbitrium (Lib. arb. II I 1; III XIII 47; XVIII 52; Grat. et lib. arb. II 2; Corr. et gratia XIII 42). Si deve poi tener presente che la dottrina agostiniana sul libero a. ha due aspetti, che coincidono anche con due periodi dell'attività letteraria di Agostino: l'aspetto antimanicheo, per cui del libero a. si sottolinea l'indipendenza della volontà umana dalla necessità cosmica e la responsabilità dell'uomo che commette il male, e l'aspetto antipelagiano per cui si sottolinea l'insufficienza della volontà umana a liberarsi dal peccato. Nel primo momento il libero a. è l' αὐτεξιούσιον plotiniano, nel secondo momento il libero a. è visto come capacità di liberazione dal peccato; nel primo momento la nozione neoplatonica di libero a. aiuta Agostino a risolvere il problema del male e a confutare la dottrina manichea, nel secondo momento il libero a., vulnerato dal peccato originale, non dà all'uomo la libertà dal peccato se non è aiutato dalla grazia. Contro la nozione di libero a. come potestas peccandi et non peccandi, che era la nozione pelagiana, combattuta da Agostino, anche se citata dai medievali come agostiniana (cfr. Huftier, Libre arbitre..., p. 188), s. Anselmo definisce il libero a. potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem (Lib. arb. III; ed. Schmitt, I 212), s. Bernardo distingue una triplice libertà: libertas a necessitate o liberum arbitrium, libertas a peccato o liberum consilium e libertas a miseria o liberum complacitum (Grat. et lib. arb. III 6-7). Nel sec. XIII, accanto alla definizione boeziana del libero a. si fa sentire l'influsso di Pietro Lombardo che, dopo aver citato come definizione dei philosophi quella di Boezio (Seni. II XXV 1), torna a quella che aveva proposto inizialmente, la facultas rationis et voluntatis: " Et dicitur liberum quantum ad voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest; arbitrium vero quantum ad rationem, cuius est facultas vel potentia illa, cuius etiam est discernere inter bonum et malum " (Sent. II XXIV 3). Le dottrine del sec. XIII sul libero a. si differenziano per il diverso peso dato alla ratio o alla voluntas. Fra le molte passate in rassegna dal Lottin ricorderemo quelle di s. Bonaventura e s. Tommaso. Nonostante il termine facultas che entra nella definizione di Pietro Lombardo, Bonaventura non ritiene che il libero a. sia una speciale facoltà, come aveva pensato Alberto Magno nel Commento alle Sentenze (Sent. II 24 5), ma una faciitas, cioè un habitus che nasce dall'unione di ragione e volontà, ma che risiede principalmente nella volontà (II 25 6). S. Tommaso nega che il libero a. sia un habitus, lo identifica con la volontà stessa e afferma che è la vis electiva (Sum. theol. I 83 4; I II 13 2). Quando, specialmente nell'ultimo terzo del sec. XIII, si pone il problema dei rapporti fra intelletto e volontà nella electio, che è l'atto del libero a., Tommaso d'Aquino sottolinea il parallelismo fra intelletto e volontà: a una conoscenza evidente del vero, come quella che si ha nei primi principȋ, corrisponde una volontà necessaria del bene: " necesse est quod, sicut intellectus ex necessitate inhaeret primis principiis, ita voluntas ex necessitate inhaereat ultimo fine, qui est beatitudo " (Sum. theol. I 82 1 a). Ma alla conoscenza di un bene particolare, che presenta sempre la mancanza di qualche aspetto di bene, corrisponde una scelta libera (I II 10 2; 13 7). Il giudizio di scelta (iudicium electionis) è frutto di una considerazione nella quale la volontà stessa interviene (I 83 3), ma Tommaso afferma ripetutamente che " ille actus quo voluntas tendit in aliquid quod proponitur ut bonum... materialiter quidem est voluntatis, formaliter autem rationis " (I Il 13 1a), che " radix libertatis est voluntas sicut subiectum: sed sicut causa, est ratio " (17 1 ad 2). La stessa accentuazione del contributo della ragione nell'atto di scelta fa sì che, come D., Tommaso sottolinei che negli animali bruti non può esserci libero a. (Verit. XXIV 2; Sum. theol. I II 13 2). Ma tale accentuazione è caratteristica anche di quella corrente che si chiama comunemente averroismo (v.), contro la quale sono rivolte le condanne da parte del vescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1270 e nel 1277. Fra le tredici tesi condannate nel 1270 si leggono: " 3. Quod voluntas hominis ex necessitate vult vel eligit ", " 9. Quod liberum arbitrium est potentia passiva, non activa, et quod necessitate movetur ab appetibili " (Chartularium Universitatis Parisiensis, a c. di H. Denifle e É. Chatelain, I, Parigi 1889, 487). Sigieri di Brabante afferma: " libertas voluntatis in suis operibus non sic est intelligenda, quod voluntas ipsa sit prima causa sui velle et sui operari... Voluntas enim non movetur ad volendum nisi ex aliqua apprehensione... sed in hoc consistit libertas voluntatis quod... voluntas vult ex iudicio rationis, quae se habet ad opposita. Sed appetitus sensitivus ex iudicio sensus " (Tractatus de necessitate et contingentia causarum, in P. Mandonnet, Siger de Brabant, II, Lovanio 1908, 118). Era questa una negazione del libero arbitrio? Ad alcuni doveva sembrare.
O. Lottin (pp. 253 ss.) ritiene che s. Tommaso, proprio per eliminare le accuse di eccessivo razionalismo mosse alla sua dottrina da parte degli agostiniani, e per ribadire la differenza fra la sua tesi e quella degli averroisti, sentisse il bisogno di riesporla nella VI Mal., scritta verso il 1270, nella quale, pur senza modificare quanto aveva detto precedentemente, sottolinea con più forza la distinzione fra motivo della volontà ex parte obiecti specificantis actum (motivo per voler questo o quest'altro), e motivo ex parte exercitii actus (motivo per volere o non volere) e afferma che, quanto all'esercizio, " voluntas movetur a se ipsa ". Ma le discussioni continuarono, e nel 1277, fra le 219 tesi condannate dal Vescovo di Parigi, ci sono le seguenti: " 159. Quod voluntas hominis necessitatur per suam cognitionem, sicut appetitus bruti ", " 163. Quod voluntas necessario prosequitur quod firmiter creditum est a ratione; et quod non potest abstinere ab eo quod ratio dictat. Haec autem necessitatio non est coactio, sed natura voluntatis " (Chart. Univ. Par. I 552).
Le discussioni sul libero a. continuarono anche dopo il 1277 e i fautori del primato della volontà facevano un solo fascio delle tesi tomistiche e di quelle averroistiche, mentre i seguaci di s. Tommaso, come Goffredo di Fontaines, Tommaso di Sutton, Nicola Trevet (tra la fine del sec. XIII e l'inizio del XIV) sostenevano che le tesi tomistiche lasciavano intatto il libero arbitrio. Tra i volontaristi ricordiamo Enrico di Gand, il quale afferma che la libertà esige che si possa seguire o non seguire il giudizio della ragione (cfr. Lottin, p. 277) e il francescano Guglielmo de la Mare, autore del Correctorium fratris Thomae.
È dubbio se si possa vedere un'allusione alle dispute sul libero a. nella frase di Mn I XII 2 libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci. Certo è che per D. la radice del libero a. sta nella ragione, nel giudizio. B. Nardi (Nel mondo di D., p. 302) afferma che D. segue Boezio e gli averroisti: certo D. sottolinea l'apporto della conoscenza piuttosto che quello della volontà nel libero a., ma le sfumature fra Boezio e gli averroisti sono molte e non è forse possibile stabilire se D. ne preferisce una, e quale.
Dall'affermazione che fondamento della libertà è la ragione, D. trae la conseguenza che la libertà di a. non è incompatibile con l'immutabilità del volere; ossia che il potersi volgere al bene o al male non è condizione essenziale del libero a.: ché, anzi, le sostanze intellettuali, ossia gli angeli, e le anime degli uomini che sono morti in grazia di Dio - anime che ormai non possono più peccare - non solo non perdono la libertà di a. ma l'hanno in modo più perfetto. Et hinc etiam patere potest quod substantiae intellectuales, quarum sunt inmutabiles voluntates, necnon animae separatae bene hinc abeuntes, libertatem arbitrii ob inmutabilitatem voluntatis non amictunt, sed perfectissime atque potissime hoc retinent, Mn I XII 5. Qui D. trae da una premessa aristotelico-boeziana, e cioè che fondamento del libero a. sia la ragione, una conclusione che è tipica della tradizione agostiniana, ripresa con particolare vigore da s. Anselmo. Parlando infatti dei beati s. Agostino dice: " Nec ideo liberum arbitrium non habebunt, quia peccata eos delectare non poterunt. Magis quippe erit liberum a delectatione peccandi usque ad delectationem non peccandi indeclinabilem liberatum. Nam primum liberum arbitrium, quod homini datum est, quando primo creatus est rectus, potuit non peccare, sed potuit et peccare; hoc autem novissimum eo potentius erit, quo peccare non poterit " (Agost. Civ. XXII 30).
Sembra dunque che nella concezione dantesca del libero a. riecheggi la dottrina scolastica nelle sue diverse voci: sia quella aristotelico-boeziana che vede nella ragione la radice della libertà, sia quella agostiniana che vede nella volontà orientata immutabilmente al bene, la forma più alta di libertà.
Bibl. - B. Nardi, Il libero arbitrio e la storiella dell'asino di Buridano, in Nel mondo di D., Roma 1944, 287-303; G. Roatta, Libero arbitrio, grazia, predestinazione, fondamento unitario della D. C., Alba 1947; R.A. Gauthier, Trois Commentaires " averroistes " sur l'Ethique à Nicomaque, in " Arch. d'hist. doctr. littér. du Moyen Age" XVI (1947-48) 187-336; O. Lottin, Libre arbitre et liberté depuis Saint Anselme jusqu'à la fin du XIIIe siècle, e La psychologie de l'arte humain chez Saint Jean Damascène, in Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, I, Gembloux 1957, 1-424; Gauthier - Jolif, Commentaire à Aristote, L'Ethique à Nicomaque, Lovanio 1958-59; M. Huftier, Libre arbitre, liberté et péché chez Saint Augustin, in " Recherches de théol. ancienne et médiev. " XXXIII (1966) 187-281; B. Nardi, Filosofia e teologia ai tempi di D., in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 3-109.