APULEIO (Apuleius o Appuleius, forme ambedue attestate da manoscritti e iscrizioni; il prenome Lucius si dubita sia nato da identificazione col protagonista del suo romanzo)
Di questo singolare scrittore latino, che fu il più versatile e fecondo del secolo degli Antonini (II d. C.), i dati biografici si ricavano pressoché per intero dalle sue stesse opere, più o meno copiosi a seconda che si attribuisca o no valore autobiografico al racconto delle Metamorfosi. Nacque verso il 125 in una "splendidissima colonia", com'egli dice, dell'Africa romana: la quale fu certo Madaura (oggi Mdauruch nel dipartimento di Costantina) sul confine tra Numidia e Getulia (ond'egli si chiama seminumida et semigetulus), com'è provato dall'appellativo di Madaurensis e confermato ora da una dedica, ivi scoperta nel 1918, dei Madauresi a un "filosofo platonico ornamento della loro città", senza dubbio il nostro, benché manchi la parte superiore che conteneva il nome e certo anche il prenome, che così rimane incerto. Apparteneva ad agiata famiglia, e suo padre, che fu uno dei duumviri iuri dicundo, lasciò ai suoi due figli circa due milioni di sesterzî. Compiuti gli studî grammaticali e retorici in Cartagine, capoluogo della provincia e centro di fiorente cultura, passò ad Atene, che in quel periodo di rinascita dell'ellenismo andava ripigliando l'antico splendore: e là diede opera soprattutto alla filosofia platonica, ma si occupò anche di scienze naturali, di matematica, di astronomia, di musica, di poesia, tanto che l'udiamo vantarsi, con ingenua vanità, di possedere nelle cose dello spirito la stessa versatilità che ebbe il sofista Ippia nelle cose manuali. Viaggiò anche per l'Asia greca (in Frigia, a Samo), tratto dalla sua brama di sapere e ancor più dal fascino dei culti orientali; fu poi a Roma, dove esercitò l'awocatura, anche per risarcire le perdite subite, e contrasse relazioni cospicue, acquistandosi fama di oratore geniale. Ritornato in Africa, era sui trent'anni quando, messosi in cammino per Alessandria e costretto da malattia a fermarsi in Oea (Tripoli), v'incontrava l'avventura più notevole e clamorosa della sua vita. Avendogli il giovine Ponziano, stato già suo condiscepolo in Atene, offerta ospitalità nella propria casa, vi conobbe la madre di lui, Emilia Pudentilla, molto ricca e da circa tre lustri vedova; e per suggestione dello stesso amico entrò nell'idea di sposarla. Ella contava qualche anno più di lui, ma ormai desiderosa di nuove nozze si era presto invaghita dell'ospite pieno d'ingegno e bello della persona. Invano si opposero i parenti di lei, per tema di perdere la pingue eredità: il matrimonio fu celebrato in una casa di campagna. Poi mutò parere anche Ponziano; e lui morto di lì a poco, i parenti medesimi, dopo aver propalato atroci calunnie sul conto di A., istigarono il minor fratello dell'estinto, Sicinio Pudente, giovine pervertito, a denunziare il patrigno come reo di magia e in particolare d'aver adescata con sortilegi la donna per appropriarsene i beni. L'accusa era gravissima, e la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, invocata al caso, equiparava i malefizî magici (mala medicamenta) all'avvelenamento, comminando le pene più severe. Il processo si tenne a Sabratha, davanti al proconsole Claudio Massimo, circa l'anno 158: A. si difese con abilità ed energia (della sua Apologia o De magia liber diremo poi) e, se anche non fu del tutto assolto, ma solamente, come opina il Cocchia, prosciolto con la formula del non liquei, cioè di non provata reità, è certo in ogni modo che non fu condannato e che il processo non fu riaperto. È dubbio se dalle nozze con Pudentilla avesse quel figlio Faustino, al quale vediamo intitolati due scritti filosofici, il trattato De mundo e il libro secondo De Platone eiusque dogmate. Pare che per il rimanente della vita fissasse la sua dimora in Cartagine, ove tenne applaudite conferenze nel teatro, ebbe l'onore di due statue e rivestì anche la carica di sacerdos provinciae con la soprintendenza ai pubblici spettacoli e l'amministrazione dei fondi per il culto. Sconosciuto è l'anno della sua morte, che alcuni pongono verso la fine del regno di Marco Aurelio (180).
Qualora si accetti come dato storico e riferibile alla persona dello scrittore quel che narra di sé Lucio sul principio delle Metamorfosi, A. sarebbe disceso per parte di madre (chiamata Salvia) dal famoso Plutarco e dal nipote di lui Sesto, anch'egli filosofo. Ma può questo particolare, con più altri, essere derivato dalla fonte greca dell'opera, o anche frutto d'invenzione, come l'esser giunto Lucio a Roma affatto ignaro della lingua latina, che dové apprender da sé con gran fatica, e povero in canna da non poter sostenere le spese dell'iniziazione ai misteri d'Osiride, se non impegnava il proprio mantello. D'altra parte il nome di lui fa pensare all'Apulia come luogo d'origine della sua famiglia, e Roma ebbe più consoli e tribuni di tal nome. Comunque sia, se anche non ebbe sangue greco nelle vene, e poche stille gli avanzavano di sangue italico, fatto sta che questo africano alla sottigliezza d'ingegno propria dei suoi conterranei univa il senso artistico e l'agilità dello spirito greco avido di conoscere e di novellare, e molto al tempo stesso della gravitas e della pietas caratteristiche dei Romani. Come la sua cultura apparisce vasta e peregrina, se non profonda, e la tendenza della sua mente è enciclopedica, così molteplice fu la sua attività, ed egli stesso dichiara che può comporre poemi in tutt'i generi, adatti alla verga epica e alla lira, al socco e al coturno; e inoltre satire ed enigmi, storie varie, discorsi oratorî, dialoghi filosofici, egualmente in greco e in latino (Flor., IX, 27). Egli è insieme Empedocle, Platone, Socrate, Epicarmo, Senofonte, Cratete, e coltiva con eguale zelo le nove Muse (Flor., XX, 5). E invero, benché più della metà dei suoi scritti sia andata perduta, quello che di lui ci avanza non è poco: due opere retoriche, un romanzo in undici libri, tre trattati filosofici.
Opere retoriche. - Le due opere retoriche superstiti di A. sono:
a) l'Apologia o Pro se de Magia liber (questo secondo titolo nell'explicit dei manoscritti.). È l'orazione tenuta per discolparsi dall'accusa di magia nel processo di Sabratha, più tardi evidentemente rimaneggiata dall'autore, che non aveva avuto più di tre o quattro giorni per apparecchiare la propria difesa. Dopo aver respinto insinuazioni e dileggi degli avversarî, che incominciavano la loro requisitoria col dire accusamus... philosophum formonsum et tam Graece quam Latine disertissimum, prima si scagiona degli addebiti di minor conto, che miravano a screditarlo come uomo di frivoli e corrotti costumi, e quindi viene a dimostrare l'insussistenza e l'inverosimiglianza delle più gravi accuse di magia e di captazione. Non può negare di aver preso interesse a scienze occulte (imprecisi erano infatti allora i confini tra certa filosofia religiosa e le dottrine magiche); ma insiste a dire che non ha mai praticato sortilegi a danno d'alcuno, e d'altronde quella che tacciano di magia è in realtà, se intesa e praticata a dovere, una più alta filosofia, è religione, è scienza. Rifà poi la storia del fidanzamento e delle nozze con Pudentilla, ritorcendo contro gli avversarî le accuse di mala fede e di cupidigia e comprovando infine il proprio disinteresse col produrre le tavole che assicuravano ai figliastri la successione di tutt'i beni materni. Benché quasi in ogni parte dell'orazione sia mescolata l'invettiva al sarcasmo, vi predomina il tono scherzevole e beffardo, abbondano aneddoti briosi, motti di spirito, giuochi di parole: tutto è pretesto a digressioni e amplificazioni d'ogni sorta. Copiosissima et disertissima oratio a giudizio di S. Agostino, per noi è documento quasi unico dell'eloquenza giudiziaria sotto l'impero romano; e oltre al pregio letterario ha quello di fornirci preziose notizie sugli usi giudiziarî come sui riti magici e sulle superstizioni in genere di quell'età.
b) Florida. È una specie di antologia (e questo sembra dire il nome, che altri vuole derivato dal genus floridum), una scelta di fiori dal lussureggiante giardino dell'eloquenza apuleiana. Sono 23 estratti di varia lunghezza, alcuni di poche righe, altri di più pagine: divisi in quattro libri, mentre corrispondono ad appena un libro e mezzo di dimensioni normali. Si ritiene perciò trattarsi di un compendio di più ampia raccolta, probabilmente data in luce da A.; il raccoglitore, forse suo scolaro o ammiratore, vi avrebbe conservata la partizione originaria. Il contenuto è quanto mai vario: vi si ragiona di filosofia, di meraviglie dell'arte o della natura, di uomini illustri della Grecia, si sfoggiano descrizioni e comparazioni luculente (celebre la descrizione dell'aquila che si affisa nel sole, c. II), si raccontano curiosi aneddoti, si porgono ringraziamenti a magistrati e se ne tesse l'elogio in discorsi ufficiali. Eloquenza di parata, insomma, o epidittica, come si dice in greco; dove l'oratore, al modo dei nuovi sofisti greci d'allora, conferenzieri girovaghi come lui, fa pompa della sua abilità oratoria e stilistica. Lavoro di cesello che riuscirebbe a lungo andare stucchevole, se in quei periodi di ampie volute e ben cadenzati, con un cumulo incalzante di voci sinonime, non apparisse la più gran varietà di motivi e d'immagini. Da allusioni a personaggi del tempo si arguisce che queste orazioni furono tenute imperanti M. Aurelio e L. Vero, quindi dopo il processo di magia; le più, pare, nel teatro di Cartagine.
Metamorfosi o asino d'oro. - L'opera principale di A. è il romanzo intitolato Metamorphoses o Asinus aureus ("asino d'oro", forse perché dotato di ragione; questo secondo titolo, al dire di S. Agostino, viene dall'autore), opera che tutto fa credere posteriore di tempo all'Apologia: la maggiore elaborazione dello stile, qualche indizio avvertibile qua e là, e segnatamente il fatto che, se fosse stata composta in Roma da A. prima del ritorno in Africa (così pensano alcuni), mal s'intenderebbe come i suoi accusatori a Sabratha non traessero partito da quest'opera, licenziosa nella più gran parte e piena di portenti magici da capo a fondo. Il romanzo consta di undici libri, l'ultimo dei quali differisce notevolmente dai dieci precedenti: in tutti, fin dall'esordio, il protagonista narra in prima persona i casi straordinarî occorsigli.
Un giovine greco, di nome Lucio, recatosi in Tessaglia, la patria delle streghe, per affari e per desiderio di apprendere l'arte magica, diviene ospite ad Ipata d'un tale la cui moglie è una famosa maliarda, capace di tramutare sé e altri in tutto che le piaccia. Entrato nelle buone grazie dell'ancella, vede per le fessure della porta come la padrona, spalmandosi d'un certo unguento, si trasformi in barbagianni e voli via dalla finestra. Subito vuole anch'egli divenire uecello, ma la fantesca per isbaglio prende un vasetto in cambio d'un altro, cosicché il malcapitato si trova mutato in asino, conservando però giudizio e sentimento umano. La donna promette di cogliere per lui delle rose, mangiando le quali potrà ritornare uomo. Senonché di notte la casa è presa d'assalto da una masnada di ladroni, che se lo menano via, con altre due bestie e col bottino, alla caverna ove dimorano. Qui il giorno dopo vede condurre una bellissima giovane che i briganti han rapita al promesso sposo e affidano ad una vecchia fantesca, la quale per confortarla racconta la storia di Amore e Psiche (v. sotto), ascoltata anche da Lucio-asino con grande diletto. Poi, mosso a pietà dell'infelice fanciulla e spaventato dalle minacce di quei tristi, fugge con lei in groppa; ma sono ripresi e corrono pericolo di morte. Dopo varie altre disavventure è venduto a una turba di gaglioffi sacerdoti della dea Sira, e passa quindi di luogo in luogo e dall'uno all'altro padrone, essendo testimone e in parte attore d'ogni sorta di laidezze e bricconate, finché un ricco signore di Corinto, meravigliato della sua intelligenza e di certi gusti singolari in un asino, annunzia che l'esporrà sulla piazza perché dia di sé spettacolo osceno e ripugnante con una donna delinquente che farà da Pasifae. Fugge allora inorridito a Cencrea (sul golfo Saronico), e addormentatosi sulla riva del mare vede in sogno la dea Iside, che già da lui invocata con fervorosa preghiera lo avverte che il giorno dipoi mangi la corona di rose che vedrà portata in mano, insieme col sistro, dal suo sacerdote in una solenne processione. Così infatti avviene, e Lucio, ripigliata la forma umana tra lo stupore degli astanti, si affretta ad entrare nella milizia santa della dea liberatrice dai molti nomi, come indi a poco, recatosi a Roma, si fa iniziare ai misteri di Osiride. Infine, dopo una terza iniziazione di perfezionamento, per invito dello stesso dio, che lo elegge nel collegio dei suoi pastofori, si dà alla nobile e lucrosa professione di avvocato, senza curare le dicerie dei malevoli né dissimulare la propria divozione.
La perla del romanzo è senza dubbio la bella fabella di Amore e Psiche, che troviamo al centro di esso, dall'ultimo tratto del libro quarto al principio del sesto, e in cui affiorano tanti leggiadri motivi delle novelline popolari di Cenerentola, di Bellinda e il mostro e così via. Psiche è la figlia d'un re, tanto bella da eccitare la gelosia di Venere, che ordina al figlio Amore di fare le sue vendette. Invece l'alato iddio s'innamora della fanciulla, e va di notte a trovarla in un palazzo incantato; ma Psiche, nonostante il suo divieto, vinta dalla curiosità e istigata dalle perfide sorelle, accende una lucerna per mirarlo in volto, e il dio sparisce gridandole che non lo vedrà mai più. Ella quindi vaga per il mondo in cerca dell'amato, sottoposta da Venere alle più dure prove, che riesce a superare in virtù di aiuti pietosi e miracolosi; finché la ritrova Amore e le ottiene da Giove l'immortalità col consenso alle nozze, dalle quali nasce poi la Voluttà. La novella conserva una deliziosa freschezza e grazia fiabesca, sebbene con gli elementi d'origine popolare s'intreccino reminiscenze letterarie e vi sia innestato un senso allegorico, già fatto palese dai nomi dei due protagonisti: onde i molteplici vaneggiamenti della bellissima fanciulla di regale prosapia sembrano adombrare il faticoso cammino dell'anima umana, che attraverso tormenti e prove, assistita dal favore celeste e redenta da amore, si acquista l'immortale felicità. Non se ne conosce altro esempio nelle letterature antiche; sì nelle arti figurative dell'età ellenistica e romana è dato d'incontrare qualche modesto prodromo alle squisite opere d'arte di Raffaello e dei suoi discepoli (nei 32 affreschi della Farnesina), di Fr. Gérard e d'altri per la pittura, del Canova, del Tenerani, del Thorwaldsen per la scultura. S'ispirarono al mito anche molti poeti, come dei francesi il La Fontaine, il Corneille, il Laprade, dei nostri il Marino (nell'Adone) e il Pascoli (Poemi di Psiche). In Germania la leggenda di Lohengrin, col simbolismo che ha in Riccardo Wagner, offre un insigne parallelo.
Anche la favola dell'uomo-asino mette capo a lontane scaturigini popolari, e se ne hanno tracce in più parti d'Europa e nell'India. Ed anch'essa nel racconto apuleiano assume un valore allegorico, che per lo più dissimulato dall'abilità tecnica del narratore, artista vero e scaltrito, culmina nell'epilogo della redenzione e consacrazione mistica. Già negli scritti dei platonici era spesso indotto l'asino a simboleggiare il corpo, per la sua sensualità; di più nei misteri di Iside il mostro Tifone, lo spirito del male, identificato con l'egizio Seth, veniva rappresentato con testa d'asino. Le parole che nel libro XI, tutto pieno d'unzione mistica, il sacerdote d'Iside rivolge a Lucio ritornato uomo e giunto al porto della Quiete, al riparo dai colpi della Fortuna, ci illuminano sul significato della metamorfosi asinina con le conseguenti peregrinazioni e tribolazioni. Ed è che l'uomo asservitosi per temeraria curiosità alle volgari superstizioni magiche finisce col cadere in balìa della cieca Fortuna, che se ne fa zimbello precipitandolo nell'abiezione, donde non può risorgere, espiata la colpa, altrimenti che per grazia della Fortuna veggente (Isityche), cioè della Provvidenza che governa il mondo. Qui vien fatto di pensare a Dante, che smarritosi nella selva del vizio, dopo esser passato per tutt'i gradi del peccato e dell'espiazione, è tratto in salvo dalla fede e dalla grazia divina.
Si deve escludere che un finale di tal genere fosse già nella fonte greca del romanzo, sulla quale molto si è discusso. Nel breve esordio ex abrupto (forse in origine preceduto da alcuni versi greci?) A. dice di scrivere una fabula graecanica e di voler contessere varias fabulas sermone Milesio, cioè novelle erotiche del tipo piccante ch'ebbe sì gran voga in Grecia a datare dalle Milesie di Aristide (sec. II a. C.). La narrazione principale, e non essa sola, presenta una stretta concordanza anche verbale col Lucio o L'asino attribuito a Luciano: e oggi la critica ritiene che fonte comune alle due opere fossero le Metamorfosi di Lucio di Patre conosciute da Fozio (Bibl., cod. 129). Il quale Lucio di Patre non fu punto l'autore del libro, ma soltanto il protagonista (anche nello Pseudo-Luciano è chiamato così): forse il libro mirava a berteggiare la credulità superstiziosa della gente romana e fu perciò pubblicato anonimo (Wilamowitz). Per alcuni sarebbe stato l'originale stesso di Luciano, surrogato dipoi nella silloge degli scritti lucianei dal magro estratto che ci avanza col suo nome (Perry): ipotesi più attendibile dell'altra che vuole invece ravvisarvi la prima stesura in lingua greca dell'opera di Lucio Apuleio da Madaura, figlio di Lucio di Patre e pronipote di Plutarco (Cocchia).
È singolare che il Lucio apuleiano, che sul principio si dà per un greco, da ultimo si riveli come Madaurensem (XI, 17). Secondo l'Amatucci (St. d. lett. rom., II, p. 182) "Lucio è il medesimo Apuleio, che sempre più travagliato, a mano a mano che cresce il suo sapere attinto alle scuole greche, finché cioè è un uomo greco, raggiunge a un tratto la pace.... quando torna Madaurensis, ossia quando si spoglia dell'aurea asinità della vana dottrina appresa": e in modo analogo molti altri si studiarono di eliminare la contraddizione. Quanto poi al contrasto tra quel finale edificante, anzi mistico, e la grossa sensualità delle lubriche narrazioni precedenti, dalle quali sembra esulare ogni intendimento serio e ogni scrupolo morale, come già in Petronio e più tardi nei nostri novellieri dal Boccaccio in poi, fu bene osservato che sensualità e misticismo erano di regola associati nei culti orientali allora dilaganti per l'Impero. Che se i due elementi in A. sono dissociati e non organicamente fusi, sarà questa un'imperfezione dell'opera d'arte; forse in parte giustificata dal riscontro con l'ultimo libro delle Metamorfosi ovidiane, tutto filosofico e che intende essere la chiave di volta dell'intero poema. E a spiegazione del numero insolito di undici libri si pensò ai dieci giorni prima della iniziazione (XI, 23), la quale si compieva quindi nell'undecimo (Lavagnini). In ogni modo la rara bravura dello scrittore e per noi l'attrattiva maggiore del romanzo sta proprio in quei racconti di stravaganti avventure che nel loro realismo così crudo e a volte picaresco attestano insieme una prepotente immaginazione e uno spirito d'acuto osservatore della realtà vivente. Grande è inoltre il valore storico che ha l'efficace dipintura dei costumi del tempo e della corruzione largamente diffusa in tutte le classi sociali; mentre l'ultimo libro viene tesoreggiato dagli storici della religione. Dal lato letterario è anche notevole che le Metamorfosi sono l'unico romanzo latino pervenutoci per intero.
Opere filosofiche. - Tre opere filosofiche ci restano di A.:
a) De deo Socratis, un trattatello di demonologia, in cui si distinguono più classi di demoni, spiriti che per natura, per soggiorno e per ufficio stanno in mezzo tra gli dei e gli uomini: più vicini però alcuni agli uomini, altri agli dei; di quest'ultima categoria era il noto demone socratico. Il prologo consta d'una serie di frammenti slegati che ricordano i Florida, tanto che da qualche editore fu trasportato in detta raccolta.
b) De Platone eiusque dogmate, ch'è come un'introduzione esegetica alla filosofia di Platone; divisa in due libri, il primo di ontologia, il secondo di etica. Doveva seguirne un terzo per la dialettica, che forse non fu scritto mai; in suo luogo si trova nei manoscritti un abbozzo di logica formale, col titolo Περί ἑρμηνείας, da molti ritenuto spurio.
c) De mundo, libero rifacimento piuttosto che traduzione dello scritto pseudo-aristotelico che abbiamo con lo stesso titolo.
Come scrittore di filosofia A. non è un pensatore originale e profondo, e nemmeno un espositore fedele del pensiero altrui: si arresta spesso alla superficie, difetta di spirito critico, cade in fraintendimenti e omissioni. Tuttavia ha importanza in quanto ci rappresenta le nuove correnti di pensiero, con tendenze mistiche, prossime a sboccare nel neoplatonismo di Plotino e Porfirio. Anche va collocato tra quelli che si studiavano allora di render popolare la filosofia.
Scritti perduti o apocrifi. - Opere di divulgazione dovettero essere, forse interessanti pel rispetto ora accennato, le perdute seguenti compilazioni scientifiche: Naturales Quaestiones, De piscibus, De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica. Di A. si citano anche una traduzione del Fedone platonico, il romanzo Hermagoras (di cui avanzano scarsi frammenti), una Epitome historiarum, discorsi e poesie (ludicra, carmina amatoria, hymni in Aesculapium, ecc.). Del pari perduto è quanto egli dettava in lingua greca.
Si considerano opere apocrife l'Asclepius (dialogo interessante, e spesso ristampato, tra Ermete Trismegisto e Asclepio sulle relazioni tra Dio, il mondo e l'uomo) e gli scritti De herbarum virtutibus, De remediis salutaribus, Physiognomonia.
Personalità e stile. - In A. vediamo fedelmente rispecchiarsi lo spirito del tempo suo, irrequieto e ondeggiante nella ricerca affannosa di nuovi ideali. Egli non è un puro retore, come ad es. il suo coetaneo e conterraneo Frontone, vuoto di pensiero e quasi unicamente sollecito della scelta e collocazione delle parole. Oltre all'immaginazione vivida e feconda, ha una sete di sapere che lo infervora allo studio amoroso della filosofia e delle scienze, lo attrae verso la magia e le dottrine dei misteri; e ha l'animo aperto a tutto che agisce sulla fantasia e sulla coscienza popolare. Non capì il cristianesimo, certo perché partecipe ai pregiudizî del volgo (uno sdegnoso accenno si crede vedere in Metam., IX, 14); e forsanco dové parergli una fede troppo semplice per la sua anima scrutatrice e settatrice appassionata di multiiuga sacra (Apol., 55). Raffinato e primitivo, vanitoso e sincero, amante di lascivie e devoto, pur nelle sue contraddizioni rivela sempre una natura esuberante, capace di slanci e di entusiasmi. Anche lo scrivere egualmente in greco e in latino non è mera virtuosità, ma corrisponde al fatto che le due letterature allora in realtà ne formavano una sola bilingue. Il suo stile, per quanto artificioso e barocco, sovrabbondante di figure retoriche, di costrutti poetici, di tortuose perifrasi, è tuttavia vivace e personale, non di rado vigoroso e potente; come il suo latino versicolore, carico di arcaismi e di neologismi e a volte, come disse Eugenio Camerini, incartocciato, ha un'evidenza plastica e pittorica ammirevole. Anche in ciò l'arte sua attiene la promessa (fatta nell'esordio delle Metam.) di divertire il lettore, pur essendo strumento di propaganda filosofica e religiosa.
La sua fama perdurò viva a lungo. Nel Medioevo, al pari di Virgilio, e certo a maggior ragione, passò per mago e taumaturgo; e come tale già nei Padri della Chiesa (Lattanzio, Girolamo, Agostino) lo vediamo associato con Apollonio di Tiana. Di ambedue aggiunge anzi S. Agostino che certi pagani ancora al tempo suo osavano contrapporli e perfino anteporli a Cristo. Oggi il Cocchia, forse a buon diritto, sospetta nelle Metamorfosi apuleiane il deliberato proposito di opporre alla predicazione del Vangelo di Cristo la fede dei misteri.
Codice fondamentale per l'Apol., le Metam. e i Florida è il laurenziano 68, 2 (codice F, oppure Mediceo II) del sec. XI, risalente a un archetipo emendato da un certo Sallustio sulla fine del sec. IV. Per gli altri scritti i codici principali sono il Bruxellensis 10054 del sec. XI e il Monacensis 621 del sec. XII. - L'edizione principe fu pubblicata da Sweynheim e Pannharz a Roma nel 1469 (ristampata a Venezia nel 1488 e 1493); il primo commento è dovuto al Beroaldo, Bologna 1500. Tra le posteriori edizioni, notevoli le due del Hildebrandt, la maggiore del 1842 e la minore del 1843, seguite da quelle dell'Eyssenhardt (Berlino 1869), del Van der Vliet (Lipsia 1897: solo Apologia e Florida), di R. Helm e P. Thomas (2ª ed., Lipsia 1921) e di P. Vallette (Parigi 1924: solo Apologia e Florida).
Di traduzioni italiane delle Metam., dopo le antiche di Matteo M. Boiardo (Venezia 1517), di Agnolo Firenzuola (Venezia 1548: ch'è un totale rifacimento, con soppressione del libro XI, e noto testo di lingua) e di Pompeo Vizzani (Bologna 1607 e 1700), se ne ha ora una veramente egregia di Felice Martini (Roma 1927).
Per il probabile ritratto di A. qui riprodotto, cfr. Museo capitolino, Roma 1750, I, e Bernoulli, Römische Ikonographie, I, 204.
Bibl.: Principali opere illustrative (dopo il vecchio Oudendorp, Ap. opera omnia, Leida 1788; riedito a cura di J. Bosscha nel 1823); per il De Magia, Abt, Die Apol. des Apuleius u. die antike Zauberei, Giessen 1908; P. Vallette, L'Apol. d'Ap., Parigi 1908; e le due edizioni commentate da C. Marchesi (Città di Castello 1914 l'ed. maggiore, ibid. 1915 la minore). Per le Metam., oltre gli scritti del De Jong, De Apuleio myster. Isiac. teste, Leida 1900; di P. Monceaux, Apulée, roman et magie, Parigi 1910; di R. Reitzenstein, Hellenist. Wundererzählungen, Lipsia 1921, si possono citare più lavori, spec. italiani, recenti: C. Morelli, Apuleiana, in Studi ital. di filologia class., XX (1914) e XXI (1915); E. Cocchia, Romanzo e realtà nella vita e nell'attività letteraria di L. Apuleio, Catania 1915: B. E. Perry, The Metam. ascribed to Lucius of Patrae ecc., Lancaster 1920; C. Landi, Apuleio o Luciano? (a proposito di Lucio di P.), in Atene e Roma, 1922; B. Lavagnini, Il significato e il valore del romanzo di Ap., in Annali d. R. Sc. Norm. Sup. di Pisa, 1923; B. E. Perry, An interpretation of Ap. Metam., in Proceed. of the Amer. Phil. Assoc., 1926; E. Paratore, La novella in Ap., Palermo-Roma 1928. Circa la favola di Amore e Psiche: M. Collignon, Le mythe de Ps., Parigi 1878; U. De Maria, la favola di Am. e Ps. nella letter. e nell'arte ital., Bologna 1899. Per gli scritti filosofici: Th. Sinko, De Ap. doctrinae platonicae adumbratione, Cracovia 1905; I. Norreri, Sugli opusc. filosofici di Ap., in Rendic. Acc. Lincei, XXVIII; V. Ussani, Magia, misticismo e arte in Apuleio, in Nuova Antologia, 1929 (Vedi anche Bibl. alla voce amore e psiche).