APRONIANO ASTERIO, Flavio Turcio Rufio
Visse a Roma verso la fine del sec. V; discendeva da una famiglia i cui membri avevano ricoperto alte cariche politiche: L. Turcio Secondo aveva avuta la dignità consolare nei primi decenni del sec. IV e il figlio L. Turcio Aproniano era stato prefetto di Roma nel 339; dei suoi due figli, L. Turcio Aproniano Asterio avrà anche lui la prefettura di Roma nel 363, mentre L. Turcio Secondo Asterio percorrerà tra il 339 e il 350 un intenso "curriculum" di onori per avere infine il consolato. Loro avo si ritiene, con sufficiente fondamento, il console L. Turcio Fesasio Aproniano, venuto a Roma durante il secolo III, probabilmente dal Samnium, dove certo conservava delle proprietà. Di A. tuttavia non conosciamo se non questi ascendenti indiretti, e sappiamo che partecipò con successo alla vita pubblica, forse aiutato da questa consolidata tradizione famigliare, raggiungendo i più alti onori.
Di questa sua partecipazione ci rimane un solo riferimento cronologico, l'anno del suo consolato, ottenuto per il 494 assieme a Flavio Presidio; in una situazione quindi di instabilità politica - Teodorico è da solo un anno signore in Italia -, così che non è certo se la nomina dei due consoli debba risalire al re ostrogoto o ad Anastasio I, imperatore in Oriente (cfr. i divergenti pareri di De Rossi e Bertolini). Il consolato era il punto di arrivo di una serie di incarichi e di onori: A. era stato, prima di quell'anno, capo della guardia del corpo dell'imperatore ("comes domesticorum protectorum"), direttore delle elargizioni private nel ministero del tesoro ("comes privatarum largitionum"), prefetto di Roma, e poteva ornarsi del titolo di patrizio. Del suo consolato egli stesso ha voluto ricordare la cura avuta nell'organizzare splendidamente gli spettacoli e i giuochi durante le feste Palilie, che terminavano il 21 aprile; in quell'occasione gli riuscì di sollecitare positivamente l'entusiasmo del popolo, che lo acclamò per tre giorni, ma il patrimonio, "modesto per la dignità consolare" sono le sue parole -, andò in rovina.
Queste poche notizie sono contenute nella soscrizione che A. inserì nel codice di Virgilio, ora a Firenze, il celebre "Virgilio mediceo (Laurenziano, Pl. XXXIX, 1).
Oltre che affrontare i pubblici incarichi, A. svolse un'attività di letterato e filologo, da cui ebbe una fama meritatamente più duratura: così gli compete un rilievo particolare nella tradizione dei filologi romani dei sec. V e VI, il cui merito è di aver sottoposto a revisione molti testi della letteratura latina e di averci dato in tal modo, con la collazione su almeno due esemplari e talvolta con le loro congetture, edizioni che costituiscono un passaggio obbligato e fondamentale nella ricostituzione delle tradizioni letterarie dell'antichità. Per quanto riguarda l'attività di A:, abbiamo sicura notizia di due edizioni, quella di Sedulio e quella di Virgilio: nei due casi ci sono infatti pervenuti una sua soscrizione e un suo epigramma, in cui A. espressamente dichiara il proprio intervento di filologo.
In alcuni codici del Paschale carmen è conservata dunque una soscrizione di A., che afferma di aver procurato l'edizione del poema, che Sedulio "inter chartulas dispersum reliquit". Vero o falso che sia l'accenno all'oblio in cui il Carmen sarebbe caduto durante il sec. V, per volontà dello stesso autore, pare indubbio che A. ne rivide il testo, permettendone così, probabilmente, una più larga conoscenza e diffusione. La soscrizione, accompagnata da un epigramma che è certo di A. e in cui si è voluta leggere, ma pare a torto, una sua dedica a papa Gelasio, reca anche un elemento cronologico: il periodo del consolato sarebbe già finito, e perciò A. avrebbe compiuto il suo lavoro dopo il 494.
Del tutto straordinaria appare invece la testimonianza del Virgilio mediceo. Il Laurenziano, un codice in scrittura capitale rustica del sec. V, è l'esemplare stesso che A. ebbe tra le mani e su cui lavorò: la soscrizione, forse l'epigranuna che anche qui vi è unito, certo la punteggiatura e le correzioni, sono autografe. È qunque possibile rendersi conto con bastevole sicurezza della natura e qualità del suo esercizio filologico. Il codice gli era stato affidato da Macario, un alto dignitario suo amico; egli si era messo al lavoro nell'anno stesso del suo consolato (494) e il 21 aprile era forse giunto a rivedere solo le Bucoliche,c on le quali il volume ha inizio.
La famosa soscrizione si trova alla fine delle egloghe virgiliane, e la critica recente (Pratesi) ne ha indotto la necessità di distinguere in due momenti l'opera di A.: il giorno del natale di Roma, al chiudersi degli spettacoli che aveva con tanto splendore organizzati e che tanto consenso popolare gli arrecavano, A. vuole notare questi fatti e li unisce, perciò, in un unico motivo di vanto e gloria, alla sua impresa di letterato. Si potrebbe così datare ante 494 la stesura e correzione delle Bucolichee solo post 494 quella delle Georgiche e dell'Eneide. La natura del suo intervento è da A. stesso precisata: "distinxi emendans". Si prese cura cioè di indicare l'interpunzione, distinguendo anche, con un apice, la sottolineatura enfatica di alcuni termini come il diverso valore semantico o la differente quantità di uno stesso segno linguistico. Oltre a ciò, l'opera vera e propria di emendatore, che risulta piuttosto vasta, evidentemente sulla scorta di un altro esemplare, mentre più rari sono i suoi interventi personali, in cui si limita di solito a riportare la grafia all'uso del suo tempo e al livello della sua cultura; e una sola sarebbe (Sabbadini) una sua interpolazione, a Eneide X, 727. Non è certo, ma non è da escludere, che di A. siano anche le glosse marghiali, numerose soprattutto nei primi fogli del codice, e che confermerebbero in lui un interesse di erudito e di letterato, come le sue qualità di scrittore, invero non alte, mostrano i due epigrammi. Il codice di Virgilio, rimasto per lunghi secoli nel monastero di Bobbio, venne ben presto notato e riscoperto dal fervore filologico dell'umanesimo italiano (Pomponio Leto lo chiamerà semplicemente l'"aproniano") e costituì da allora in poi un testimone indispensabile nella tradizione manoscritta virgiliana.
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