BUONAFEDE, Appiano (al secolo, Tito Benvenuto)
Nacque a Comacchio il 4 genn. 1716 da Fausto, appartenente a famiglia patrizia, e da Nicolina Cinti. Fece i primi studi nella città natale sotto la guida di Niccolò Antonio Guidi, mentre G. B. Zappata, suo cugino, lo incoraggiava a dedicarsi agli studi letterari, consigliandolo anche a tradurre i Dialoghi di Luciano. Rimasto orfano di padre, per continuare gli studi dovette entrare nel 1734 nella Congregazione dei benedettini celestini, di cui vestì l'abito nella cappella dei conti Tomasi in Comacchio. Fu inviato, quindi, a Bologna ove seguì il triennio di filosofia, avversando quella peripatetica e accogliendo invece con interesse le dottrine newtoniane. Nel 1737 si trasferì a Roma per compiervi il triennio teologico. Conseguita la laurea, nel 1740 fu trasferito come lettore di teologia a Napoli, dove si dedicò all'insegnamento e alla predicazione recitando oltre quaranta orazioni: circostanza quest'ultima che ebbe fondamentali riflessi in tutta la sua opera di scrittore, che nei contenuti e nelle forme segue in genere gli argomenti e gli schemi tipici dell'oratoria sacra settecentesca. Di formazione prevalentemente umanistica, il B. iniziò in questi anni la sua attività pubblicistica con i Ritratti poetici storici e critici (Napoli 1745), stampati sotto il nome di Appio Anneo de Faba Cromaziano.
La prima edizione, che ebbe largo successo nei salotti napoletani assiduamente frequentati dal B., conteneva sessanta sonetti, dedicati ognuno al "ritratto" di un uomo illustre (nelle successive edizioni se ne aggiunsero altri fino al numero di ottantasette nell'edizione postuma veneziana del 1796), corredati di numerose e ampie note storico-critiche. L'opera è sostanzialmente pervasa da una valutazione negativa del pensiero moderno (sono condannati senza riserve Machiavelli, Spinoza, Valla, Milton, ecc., e perfino il sistema copernicano), non senza però una significativa indulgenza nei confronti dei suoi aspetti più innocui, rivelando un chiaro tentativo di assimilazione di alcune delle nuove idee alla tradizionale dottrina cattolica (vengono salvati in parte Cartesio e Locke, ed esaltati Genovesi e Vico). Da un punto di vista letterario i Ritratti rappresentano un miscuglio di varie tendenze letterarie e culturali con notevoli residui barocchi e apporti arcadici, che si avvertono nello stesso schema del sonetto figurativo e nella presenza del contenuto didattico-enciclopedico tipicamente settecentesco, a cui si aggiunge l'intenzione di utilizzare i modi della satira volteriana con obbiettivi e contenuti opposti a quelli combattuti da Voltaire; ma i risultati non furono certo validi o servirono soltanto a far stimare l'autore negli ambienti mondani come letterato capace di trattare superficialmente, ma con brio ed arguzia, temi alla moda.
Dopo pochi anni e probabilmente nel 1749, procedendo nella carriera ecclesiastica, fu creato abate del monastero della SS. Trinità a San Severino di Puglia, dove fu costretto - contro le sue abitudini - a trascurare gli studi e i salotti per occuparsi di concreti problemi di economia agricola ("ab equis ad boves", si lamentò lui stesso scherzosamente con un amico). Nel 1752 fu trasferito prima presso il monastero di Bergamo e dopo pochi mesi alla badia di S. Niccolò di Rimini, dove poté riprendere la vita prediletta: qui scrisse quella epistola satirica in versi sdruccioli (Lettera del sig. A. A. medico socratico al sig. G. Bianchi medico riminese in occasione delle nozze del sig. duca di * * * colla signora principessa di * * * celebrate in Napoli nel 1753, Pesaro 1753), già concepita in Puglia, con la quale s'inserì scherzosamente nella polemica del Bianchi con Antonio Cocchi, sostenitore del vitto pitagorico, consigliando a sua volta - almeno per i poetastri - il vitto anassimenico consistente nel pascersi d'aria. L'anno dopo pubblicò a Faenza un'elegante commemorazione latina di Celestino Galiani (De Coelestini Galiani archiepiscopi Thessalonicensis vita commentarius)e il Saggio dicommedie filosofiche, che conteneva in effetti una sola commedia in endecasillabi sdruccioli e corredata di molte annotazioni, I filosofi fanciulli, che esternamente si richiamava all'esempio delle commedie ariostesche.
L'intento che stava alla base del saggio del B. era quello di porre il teatro nella sua forma più popolare, quella comica, al servizio della polemica antifilosofica: nei Filosofi fanciulli, infatti, venivano presi di mira Mercurio Trimegisto, Zoroastro, Orfeo e infine Talete, Socrate, Anassagora e Democrito, mediante la presentazione di alcune loro affermazioni avulse dal proprio contesto e pronunciate in situazioni atte a suscitare il riso. Pur lodata da contemporanei, tra i quali il Lami (Novelle letterarie di Firenze, XV [1754], coll. 360-363), la commedia del B. fu dieci anni dopo criticata da Giuseppe Baretti (Frusta letteraria, 15 giugno 1764), il quale ne negava ogni reale valore, giudicandola priva di vis comica, di quella qualità, cioè, che è essenziale a questo genere letterario. Il Baretti si riprometteva un vantaggio da un'eventuale polemica e cioè una buona occasione per acquistare nuova fama presso un pubblico sensibile a tali scontri pseudoletterari. Ma il B. rispose con un violentissimo libello (Il bue pedagogo. Novelle menippee di Luciano da Firenzuola contro una certa Frusta letteraria pseudoepigrafa di Aristarco Scannabue, s.l. [ma Lucca] 1764), che mirava non solo a discutere e a controbattere, ma anche ad ingiuriare e, se possibile, a nuocere. Infatti, dopo la replica dell'avversario - i Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo, apparsi sugli ultimi sette numeri stampati con la falsa data di Trento (vedili ora in La Frusta letteraria, II, Bari 1932, pp. 281-405) -, il B., pur negando di essere l'autore del libello, si adoperò in ogni modo con varie accuse e maneggi presso gli inquisitori di Stato di Venezia prima perché i Discorsi fossero bruciati per mano del boia, quindi perché il governo della Serenissima ottenesse l'espulsione del Baretti dallo Stato pontificio (egli si era frattanto rifugiato ad Ancona: la documentazione è stata pubblicata dal Masi): il critico piemontese, benché tali istanze non fossero accolte, preferì rifugiarsi in Inghilterra, ove fu ancora rincorso dalle accuse di protestantesimo lanciategli dal frate di Comacchio. La polemica, una delle più vivaci del secolo in Italia, anche se priva di vero interesse letterario, è molto significativa come documento di costume e indiretta testimonianza della varia assimilazione della nuova cultura da parte dei due contendenti: dei quali l'uno, il Baretti, pur dichiarandosene severamente alieno, ne accettava sostanzialmente le principali esigenze; l'altro, il B., pur avverso nella sostanza, ne accoglieva le forme strumentalizzandole.
Frattanto, il B., nel 1754, era stato accolto tra gli arcadi col nome di Agatopisto Cromaziano e, trasferito a Bologna nel 1755 come abate del monastero di S. Stefano, poté frequentare a suo agio i circoli letterari, stringendo amicizia con i fratelli Zanotti. Anzi, proprio per difendere il più noto dei due, Francesco Maria, reo di avere esaltato la dottrina morale degli stoici, dalle accuse di due noti rigoristi, il domenicano Ansaldi e il canonico Guerreri, il B. scrisse in quegli anni alcuni altri libelli (Sermone apologetico di T.B.B. per la gioventù italiana contro le accuse contenute in un libro intitolato: Della necessità e verità della Religione naturale e rivelata, Lucca 1758; Dell'apparizione di alcune ombre. Seconda novella letteraria di T.B.B., Cosmopoli 1760). Contemporaneamente si batteva in favore delle tesi controriformistiche della Curia romana contro la diffusione delle teorie sarpiane (Della malignità istorica discorsi tre di A. B. ... contro Pier Francesco le Courayer nuovo interprete della istoria del Concilio di Trento di Pietro Soave, Bologna 1757; e in risposta alla replica del massone Griselini: Della impudenza letteraria. Sermone parenetico di A. C. contro un libro intitolato: Memorie anedote spettanti alla vita e agli studi di F. Paolo Servita raccolte e ordinate da Francesco Griselini, s.n. t. [ma Lucca 1761 o 1762]).
A Bologna il B., dal 1758 abate di S. Giovanni Battista (riconfermato più volte), rimase per molti anni, e fu questo il periodo più fecondo della sua attività di scrittore. Ormai dedicatosi alla diffusione di temi filosofico-moraleggianti, compose l'Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato (Lucca 1761), una lunga e divagante disamina aneddotica sul suicidio nel costume dei popoli antichi e moderni, vista dall'angolo visuale della morale cattolica; ma c'è da notare che il libro - che non mancò di essere criticato per l'insistenza con cui indugia nell'esemplificazione - vuole essere anche un'opera narrativa con la pretesa di attirare l'interesse del lettore e rendere così più efficace il fine edificante. In seguito il B. pubblicò Delle conquiste celebri esaminate col naturale diritto delle genti (Lucca 1763).
Nella prima parte egli vuole esporre le opinioni dei giuristi antichi e moderni e degli uomini politici di maggiore fama su tale tema e quindi giudicarle al lume del diritto naturale delle genti; la seconda parte invece esamina le narrazioni storiche con il fine di approvare o respingere le lodi tributate in esse ai conquistatori più celebri. L'opera nelle sue incoerenze e contraddizioni non è priva di concetti che nell'ambito della teoria giusnaturalistica cristiana riecheggiano temi propri del pensiero più avanzato del tempo, come nel rifiuto di considerare la guerra il naturale mezzo di risoluzione dei conflitti d'interesse tra le nazioni e nella definizione dei doveri della sovranità come diretti a procurare la pace, la tranquillità sociale e la felicità ai sudditi.
Nel 1766 vedeva la luce a Lucca il primo volume di quella che egli e i suoi estimatori consideravano la più importante delle sue opere: Della istoria e della indole di ogni filosofia. Completata in sette volumi (il secondo e il terzo pubblicati nel 1767, il quarto nel 1768, il quinto nel 1772, il sesto nel 1780, il settimo nel 1781, tutti a Lucca), l'Istoria seguiva in gran parte l'Historia critica philosophiae a mundi incunabulis (Lipsiae 1742-1767) di J. J. Brucker, che è considerata la prima storia della filosofia apparsa in Europa. Ma, a differenza che nel Brucker, troppo spesso prevale nel B. l'esaltazione della verità del pensiero dei Padri della Chiesa nei confronti degli "errori" dei filosofi.
I meriti acquistati presso le gerarchie ecclesiastiche con questi scritti gli procurarono nel 1771 l'elezione a procuratore generale della Congregazione dei celestini e il trasferimento a Roma, ove fu caro a Clemente XIV e applauditissimo in Arcadia e nei salotti letterari. Nel 1777 fu eletto prefetto generale e costretto a risiedere nel monastero di Morrone presso Sulmona, alla cui solitudine (il Salfi scrive che notoriamente "gli piaceva di vivere lautamente e che era nel suo monastero tanto uomo di mondo quanto sembra ascetico nella sua opera") cercò di sfuggire con un viaggio a Napoli ove gli furono tributate onorevoli accoglienze a corte. Nel 1780, cessato il triennio del generalato, fu rieletto procuratore generale, ma egli, insofferente di gravi impegni, si dimise nel 1782, ottenendo tre anni dopo da Pio VI la dignità di abate perpetuo di S. Eusebio, carica che gli attribuiva una ricca prebenda e ben pochi fastidi. Il B. ne approfittò per comporre in tre volumi il seguito dell'opera precedente Della restaurazione di ogni filosofia nei secc. XVI,XVII e XVIII (Venezia 1786-1789), dedicata a Pio VI, che più che un trattato di storia della filosofia rappresenta una violenta requisitoria contro il pensiero moderno, reo di non aver accettato supinamente la tutela della dottrina cattolica.
Su questa, come sulle altre opere del B., è valido senz'altro il giudizio del Croce, secondo cui esse sarebbero il prodotto di "un ingegno da predicatore e da predicatore mestierante, che ha un impegno da assolvere, un sentimento da inculcare, un nemico da abbattere, e a questo unicamente intende e ogni mezzo che a ciò conduca gli par buono, e non mai lo distraggono, attirandolo a sé, né la ricerca della verità delle cose né l'ammirazione di quel che è bello" (Laletteratura..., p. 229); ma non bisogna trascurare proprio sul piano pratico il loro valore "propagandistico" in una società nel complesso culturalmente arretrata come quella italiana alla fine del Settecento (né va dimenticato che anche in Germania l'opera Della restaurazione ebbe ampia fortuna, tanto da essere tradotta - sia pure con correzioni e aggiunte - da K. H. Heydenreich a Lipsia nel 1791; e ancora in Italia, nel 1833, G. D. Romagnosi apprezzava le due opere storico-filosofiche [Bibl. italiana, n. 207, maggio 1833, p. 280], spingendo gli editori della Società tipografica dei classici italiani a farne una ristampa in quattro volumi a Milano nel 1837-38: Della istoria e della indole di ogni filosofia,e della restaurazione di ogni filosofia nei secc. XVI,XVII e XVIII).
In realtà, negli ultimi anni, il B. svolse con piena coscienza un'attività pubblicistica al servizio della politica propagandistico-culturale della Curia romana come appare nelle Epistole Tusculane di un solitario ad un uomo di città (Gerapoli 1789), ove le argomentazioni piane e chiare, condite da arguzie e motti brillanti, servivano esplicitamente ("se i nostri avversarj svegliano i loro leggitori e noi gli addormentiamo, la giostra è perduta per noi": p. 7) a rendere più penetrante l'apologia della teocrazia papale, dell'unità della Chiesa sotto il primato di Roma, e della intolleranza. In questa direzione il B. partecipò anche alla lotta antigiansenistica, tanto che in ambienti vicini al vescovo di Pistoia gli si attribuì la paternità della Lettera consolatoria e consultiva di Gelasio Irone al vescovo di Pistoia mons. D. Scipione Ricci alla quale siegue altra Lettera di D. Calogero Eufemiano diretta allo stesso scrivente per la salute spirituale di detto prelato (Filadelfia 1789), che il B. sicuramente leggeva nei circoli romani alla presenza dei cardinali Garampi, Valenti, Antinori e Antonelli (E. Codignola, Carteggi di giansenisti liguri, II, Firenze 1941, pp. 193 s.). Frattanto preparava un'altra opera polemica, le Lettere tiburtine, ma i continui attacchi di gotta e la caduta in piazza Navona del 7 maggio 1791, che aggravò la sua invalidità, gli impedirono di portarla a termine; tuttavia nello stesso 1791 fu nominato vicario apostolico dei celestini dello Stato pontificio, carica che aveva già declinato nel 1788.
Il B. morì a Roma il 17 dic. 1793.
Egli ebbe inoltre un'attività poetica, che si svolse sostanzialmente sotto il segno della moda arcadica: nel 1766 vide la luce a Cesena una raccolta (Versi liberi di Agatopisto messi in luce da Timoleonte Corintio), cui siaggiungeva una Epistola della libertà poetica, in cui il B. esprimeva la sua avversione ai precetti dell'Arspoetica di Orazio, sui generi fissi e la preferenza ai versi liberi dalla rima. Seguono lo stile arcadico i due poemetti del B. che portano lo stesso titolo, Il Genio Borbonico, tipiche opere d'occasione, composte l'una (Parma 1769) per le nozze di Ferdinando di Borbone duca di Parma con l'arciduchessa Maria Amalia d'Asburgo-Lorena, l'altra (Roma 1782) per la nascita del delfino di Francia.
Fonti e Bibl.: Novelle letterarie di Firenze, XIV (1753), col.519; XV(1754), coll. 360-363, 498;XIX (1758), col. 314; XX (1759), coll. 422 ss., 441 ss., 470 ss.;XXI (1760), coll. 420 ss.; G. Baretti, Scelta delle lettere famliari, a cura di L. Piccioni, Bari 1912, pp. 296-299;Id., La Frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, Bari 1932, II, pp. 72 s., 281-405;G. M. Mazzuchelli, GliScrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 2305-2308;G. A. Cavalieri, Lettera famigliare... sopra la persona e le opere del P. abate D. A. B., Comacchio 1782;F. Caetani, Adunanza tenuta dagli arcadi… in lode del defunto Agatopisto Cromaziano, Roma 1794;A. Cromaziano giuniore, Elogio storico,letterario di Agatopisto Cromaziano, Ferrara 1794; C. Ugoni, Della letteratura ital. del sec. XVIII, II, Brescia 1821, pp. 270-309; E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani ilustri..., I, Venezia 1834, pp. 402-406; E. Salfi, Ristretto della storia della letteratura italiana, Firenze 1848, p. 366; M. Scherillo. Una fonte del "Socrate immaginario", in Giorn. stor. della lett. ital., V (1885), pp. 187-205; E. Masi, Dalla Frusta letteraria al Bue pedagogo, in Parrucche e sanculotti nel sec. XVIII, Milano 1886, pp. 97-117; Id., La vita,i tempi,gli amici di F. Albergati, Bologna 1888, pp. 161-167; G. Natali, Il Settecento, Milano 1936, pp. 1147-1154 e ad Indicem;B. Croce, La lett. ital. del Settecento, Bari 1949, pp. 225-240; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, ad Indicem.