APPELLO
(lat. appellatio, da appellare "invocare, reclamare"; fr. appel; sp. apelación; ted. Berufung; ingl. appeal). L'appello è un reclamo al giudice superiore contro la sentenza del giudice inferiore, dalla quale l'appellante si sente gravato.
È di origine schiettamente romana.
Appello civile.
Nel periodo dell'ordo iudiciorum, la appellatio è il mezzo per invocare, non contro la sentenza del giudice ma contro il decreto reso dal magistrato in iure, allo scopo puramente negativo di paralizzarne gli effetti, la intercessio di una par maiorve potestas; solo nel processo extra ordinem, in seguito alla trasformazione in senso burocratico operatasi coll'Impero anche nell'amministrazione della giustizia, l'appellatio assume il carattere di un ricorso gerarchico portato al funzionario superiore (in origine immediatamente all'imperatore), contro la decisione del funzionario inferiore, allo scopo positivo di ottenere in luogo di essa una decisione più favorevole: con la possibilità di rinnovare tale ricorso più di una volta, risalendo ad uno ad uno i gradi della gerarchia fino a giungere ai suprema auditoria principis.
L'appellatio romana, pur essendo una lagnanza contro l'ingiustizia della sentenza appellata (iniquitatis sententiae querellam, la chiama Ulpiano, Dig., IV, 4, de minoribus, 17), non ha il carattere di un attacco personale contro il primo giudice, com'è sovrattutto dimostrato dalla facoltà che hanno le parti (almeno nel diritto postclassico) di sottoporre al giudice di appello, nella nuova trattazione della stessa controversia che ha luogo dinanzi a lui, nuovi elementi di giudizio (lius novorum) della cui trascuranza il primo giudice non è imputabile, perché gli furono ignoti; con ciò l'appellatio romana si differenzia nettamente dalla "disapprovazione della sentenza" degli antichi processi germanici (Urtheilsschelte: onde la blasphematio iudicii di alcune leggi barbariche e la faussation de jugement del diritto feudale francese), la quale, essendo un'accusa di aver mal giudicato diretta personalmente contro l'Urtheiler, prima che la sentenza da questo "trovata" venisse proclamata dal Richter, dava origine a una nuova controversia tra l'Urtheiler e l'attaccante.
Nel diritto statutario e nel diritto comune l'appello conserva nelle sue grandi linee l'impronta romana: nell'intreccio di giurisdizioni e nella conseguente incertezza di competenze che distingue il periodo intermedio, si nota nelle legislazioni una comune tendenza a limitare il numero degli appelli, prescrivendo che la conformità di due o di tre sentenze rese nella causa stessa da due o da tre giudici di diverso grado (principio della doppia conforme o, in altre legislazioni, della tripla conforme) escluda ogni ulteriore appello; e altresì a istituire e a disciplinare apposite magistrature permanenti in appello, quasi sempre in più gradi, culminanti in un supremo tribunale di ultima istanza (di terza istanza, nella sua forma più semplice), istituito presso il sovrano.
Un'ulteriore semplificazione nell'ordinamento delle magistrature d'appello è introdotta dalla rivoluzione francese, col principio del doppio grado di giurisdizione (il y aurait deux degrés de jurisdiction en matière civile; decr. 1 maggio 1790), in forza del quale, dopo il primo giudizio, è ammesso un unico riesame totale (in facto e in iure) della controversia dinnanzi a un giudice superiore: le sentenze dei giudici di appello sono perciò inappellabili e solo soggette al parziale controllo della corte di cassazione (limitato alla quaestio iuris e indirizzato a uno scopo diverso da quello dell'appello: v. cassazione e corte di cassazione).
Così nella legislazione processuale civile italiana (artt. 465-493 cod. proc. civ.; r. decr. 31 agosto 1901, n. 413, artt. 50-54; legge 15 settembre 1922, n. 1287, che modifica la competenza dei pretori e conciliatori, art. 4) passa, attraverso i codici degli stati anteriori all'unificazione, l'appello d'origine romana, elaborato dalla dottrina del diritto comune, limitato secondo il sistema francese del doppio grado di giurisdizione: né molto si differenzia da questo schema generale (qualche divergenza di particolari sarà notata in seguito) l'istituto analogo accolto dalle altre legislazioni processuali del continente europeo.
La giustificazione logica dell'appello viene comunemente trovata nella possibilità di errore che è insita in ogni umano giudizio, e nella probabilità che gli errori del primo giudice possano esser corretti attraverso un secondo esame fatto da un giudice diverso. Ma chi garantisce che il secondo giudice decida meglio del primo? Neque enim utique melius pronuntiat qui novissimus sententias laturus est (Ulpiano, Dig., XLIX,1, de appellationibus, 1 pr.).
La risposta a questo dubbio fu cercata un tempo nella reiterazione degli appelli, allo scopo di ottenere quella conformità di due o più sentenze, che sembrava garanzia suprema di giustizia. Ma nel sistema del doppio grado la garanzia della conformità viene a mancare, se il giudice d'appello decide diversamente dal primo giudice, né può esser cercata in ulteriori istanze: resta da spiegare, in tal caso, perché la seconda sentenza debba razionalmente prevalere sulla prima disforme (sistema della posteriore prevalente: Carnelutti). La ragione di tale prevalenza non sta nel vincolo di subordinazione gerarchica tra magistrati di diverso grado, inconciliabile col principio moderno dell'indipendenza dei giudici; ma soltanto nella minor probabilità di errori che è insita nel giudizio di secondo grado, sia perché le maggiori garanzie offerte dalla costituzione personale delle magistrature d'appello (collegialità, anzianità, selezione, ecc.) rendono il loro responso più autorevole di quello dei primi giudici, sia perché è più facile per il secondo giudice, che può giovarsi dell'insegnamento del primo grado e valutarne oggettivamente i risultati, guardarsi dal ricadere negli stessi errori. Il giudice di appello giudica bene non tanto benché, quanto perché il primo giudice ha giudicato male: anche l'errore è infatti una tappa verso la verità. Non vale quindi obiettare che, se il giudice di appello offre maggiori garanzie di retta sentenza, sarebbe più semplice risparmiare il primo grado e portare senz'altro la causa alla decisione del secondo: si dimentica con ciò che la sparizione del primo grado toglierebbe al giudice d'appello tutti i vantaggi che gli derivano dalla sua odierna funzione di controllo e di riesame.
Si aggiunga che quando nel giudizio di appello è riconosciuto il ius novorum, il secondo grado permette alle parti d'integrare e di perfezionare la loro difesa attraverso l'esperienza delle manchevolezze del primo grado: con che però si rischia di spostare il centro di gravità del processo dal prm o al secondo grado (Wach) e di trasformare il giudizio di primo grado in una specie d'introduzione, diremmo quasi di prova generale, del giudizio di appello.
Il rimedio processuale dell'appello trova il suo indispensabile complemento nell'ordinamento giudiziario: il principio del doppio grado di giurisdizione non significa soltanto che, di regola, ogni sentenza di primo grado è appellabile, ma significa altresì che, al disopra di ogni giudice di primo grado, dev'essere istituito un giudice superiore (eccezionalmente si ebbe in Francia per pochi anni il sistema dell'appello reciproco îra tribunali dello stesso grado; decr. 16-24 agosto 1790), al quale possa esser chiesto, mediante l'appello, il riesame della controversia. Di quì la contrapposizione tra giudici di primo grado (o di prima istanza) e giudici di secondo grado (o di seconda istanza o di appello).
Invece di adottare una gerarchia giudiziaria, teoricamente concepibile, composta di un unico tipo di giudici di primo grado e di un unico tipo di giudici di appello al disopra dei primi, il nostro ordinamento ha posto l'appello in armonia col sistema della tripartizione della competenza di primo grado. Stabilito che la competenza di primo grado spetta, secondo il valore delle controversie, a tre diversi tipi di giudici (conciliatori, pretori, tribunali: artt. 70, 71, 84 cod. proc. civ., modificati dalla legge 15 settembre 1922, n. 1287; legge sull'ordinamento giudiziario, testo unico 30 dicembre 1923, n. 2786, art. 1), si sono parallelamente istituiti tre diversi tipi di giudici di appello, determinati in modo che per ciascun giudice di primo grado funzioni da giudice di appello, in quanto sia possibile, il giudice di primo grado competente per le controversie di valore superiore; così per i conciliatori sono giudici di secondo grado i pretori, e per questi i tribunali. Al disopra dei tribunali, non essendovi altri giudici di primo grado, si sono istituite, con funzioni di secondo grado, le corti d'appello (v. corte d'appello): in tal modo, mentre il conciliatore è sempre giudice di primo grado, e la corte d'appello è sempre, di regola, giudice di secondo grado, nei pretori e nei tribunali alla competenza di primo grado per certe controversie va unita la competenza di secondo grado per le controversie di valore inferiore (artt. 83, 84, n. 2, 87 cod. proc. civ.). Giudice di appello contro le sentenze pronunciate da pretori e da tribunali su controversie individuali del lavoro è la magistratura del lavoro (r. decr. 26 febb. 1928, n. 471, art. 17); contro le sentenze dei tribunali regionali delle acque pubbliche si appella al tribunale superiore delle acque pubbliche (r. decr. 9 ottobre 1919, n. 2161, art. 69). Contro i lodi arbitrali, si appella al tribunale o alla corte d'appello (art. 29 cod. proc. civ.), o alla magistratura del lavoro nel caso previsto dall'articolo 3 regio decreto 26 febbraio 1928, n. 471.
La competenza per grado ha carattere funzionale, ed è perciò inderogabile: non solamente in relazione al grado, ma altresi in relazione alla sede del giudice di secondo grado (l'appello non può esser portato che al giudice di secondo grado nella cui circoscrizione è compreso il giudice di primo grado). Non è ammessa la rinuncia preventiva all'appello (eccezioni: art. 28, n. 3, cod. proc. civ.; art. 21 r. decr. 26 marzo 1911, n. 331), ed è vietato di proporre in appello domande non proposte in primo grado (art. 490 cod. proc. civ.), o d'investire direttamente della decisione il giudice di appello, saltando il primo grado (appello omisso medio, frequente nel diritto comune, eccezionalmente ammesso dagli artt. 3 legge 15 settembre 1922, n. 1287; 12 r. decr. 20 settembre 1922, n. 1316; r. decr. 2 dicembre 1923, n. 2595), o di ricorrere direttamente in cassazione contro la sentenza di primo grado, saltando il giudizio di appello (com'è ammesso, dopo le novelle del 1924, dalla proc. civ. germanica, § 566 a, che, sull'accordo delle parti, permette la revisio per saltum sull'esempio del procedimento inglese di statement of a special case).
L'appello, insieme con l'opposizione contumaciale, costituisce il gruppo dei mezzi ordinarî per impugnare le sentenze (art. 465 cod. proc. civ.). La distinzione adottata dalla nostra legge, tra mezzi ordinarî e mezzi straordinarî, ha il suo fondamento razionale nella diversa funzione che questi due gruppi di rimedî esercitano nella formazione del giudicato. Mentre i mezzi d'impugnativa straordinarî partono dal concetto (comune anche alle azioni d'impugnativa ammesse dal diritto sostanziale contro i negozî giuridici difettosi) che anche il giudicato già formatosi possa esser rescisso quando sia affetto da determinati vizî, i mezzi ordinarî (o mezzi di gravame in senso stretto) si basano sull'idea che, prima della formazione del giudicato, si possa procedere a uno o più riesami della controversia, in modo che, tra più sentenze emanate in queste diverse fasi dello stesso processo, solo l'ultima passi in giudicato. Nel primo caso il diritto alla rescissione della sentenza viziata esiste solo in quanto si dimostri l'esistenza del vizio, sicché il giudice d'impugnativa deve innanzi tutto esaminare se il motivo d'impugnativa è fondato (iudicium rescindens), e solo in caso affermativo passare al riesame del merito (iudicium rescissorium); nel secondo caso il diritto al riesame della controversia esiste per il solo fatto che la prima sentenza è stata pronunciata in una fase del processo che può per legge esser seguita, a richiesta del soccombente, da una fase ulteriore, nella quale il giudice d'impugnativa decide ex novo sul merito, come se la sentenza precedente, anche se immune da vizî, non fosse stata emanata.
I mezzi d'impugnativa possono essere raggruppati anche in base a criterî estrinseci, diversi da quello fondamentale ora esaminato: così possono esser distinti secondo che siano portati allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, o a giudice diverso (gravami di riparazione e gravami di rinnovazione, nella terminologia del Carnelutti). L'appello appartiene alla seconda categoria; esso è il mezzo ordinario per passare dal primo al secondo grado di giurisdizione, ossia per provocare dinnanzi al giudice superiore il riesame della controversia già decisa dal giudice di primo grado.
Il diritto di appello non è dato, dunque, in quanto la sentenza appellata sia difettosa, ma in quanto la sentenza appellata è di primo grado; esso non è il diritto a ottenere una sentenza più favorevole di quella appellata, ma il diritto a ottenere dal giudice superiore una nuova sentenza di merito (che può anche avere lo stesso contenuto della prima). Oggetto del giudizio di appello non è la sentenza del primo giudice, ma direttamente il rapporto controverso: e, anche se il giudice di appello dà torto in merito all'appellante, confermando (come inesattamente si dice) la sentenza appellata, non nega con ciò il diritto di gravame, il quale, con la pronuncia di una nuova sentenza in merito, è senz'altro riconosciuto e soddisfatto. S'intende come i motivi dell'impugnativa abbiano nell'appello importanza del tutto secondaria: mentre per i mezzi straordinarî l'infondatezza dei motivi vuol dire inesistenza del diritto d'impugnativa, per l'appello hinfondatezza dei motivi può produrre una sentenza di merito sfavorevole all'appellante, ma non distrugge il diritto di gravame. Il diritto di appello è; negato soltanto quando il giudice di secondo grado si rifiuta preliminarmente (perché mancano le speciali condizioni del diritto di appello; cfr. oltre) di proeedere al riesame della controversia.
Della struttura dell'appello la dottrina del diritto comune ha messo in luce soprattutto due aspetti: quelli che anche oggi si sogliono designare con le espressioni tradizionali di effetto sospensivo ed effetto devolutivo dell'appello.
a) La sentenza soggetta ad appello non passa in giudicato e, normalmente, non è titolo esecutivo: essa non acquista i caratteri d'irrevocabilità e di esecutività fino a quando non sia giuridicamente certo che il soccombente non voglia o non possa valersi del suo diritto di provocare il passaggio della controversia al giudice superiore. Si parla, per questo, di effetto sospensivo dell'appello: per il nostro diritto l'espressione è però inesatta, perché la sospensione non deriva (com'era nel diritto romano e com'è oggi in parte nel diritto francese) dall'effettiva proposizione dell'appello, ma dalla pendenza del termine per appellare, o, qualora il gravame sia stato proposto nel termine, dalla pendenza del giudizio di appello (art. 482 cod. proc. civile). Ma la proposizione dell'appello non fa cadere nel nulla la sentenza appellata (come fu sostenuto nel diritto comune in cui s'insegnava che l'appello riportava la controversia ad terminos litis contestatae), poiché essa, anche dopo la proposizione del gravame, non perde, ove questo non porti alla pronuncia di una nuova sentenza di merito, la possibilità di passare in giudicato. La dottrina è divisa nel definire la condizione giuridica della sentenza soggetta a gravame: alcuni la considerano come soggetta a condizione legale risolutiva (Mortara), altri come soggetta a condizione legale sospensiva (Vassalli), altri ancora una mera situazione giuridica, che può diventare una sentenza solo col sopraggiungere di ulteriori elementi (Chiovenda).
In casi tassativamente stabiliti dalla legge (art. 363 cod. proc. civ.), la sentenza soggetta ad appello, pur non avendo autorità di giudicato, può dallo stesso giudice di primo grado essere accompagnata dalla clausola di provvisoria esecuzione: la quale dà diritto alla parte vincitrice in primo grado di procedere all'esecuzione forzata, mentre è ancora aperto il termine per appellare, o mentre pende il giudizio d'appello. L'esecuzione provvisoria, domandata in primo grado e non concessa, può esser chiesta in via incidentale al giudice d'appello (art. 483 cod. proc. civ.); al quale d'altro lato la parte ai cui danni la esecuzione provvisoria sia stata ordinata fuori dai casi dalla legge indicati, può chiedere l'inibitoria (art. 484 cod. proc. civ.; art. 53 r. decr. 31 agosto 1901, n. 413).
b) Si parla d'effetto devolutivo per indicare che l'interposizione dell'appello fa passare nel giudice di secondo grado la cognizione piena e immediata della controversia già decisa dal primo giudice: ciò corrisponde alla natura del giudizio d'appello, che è, come si è detto, un riesame del merito, non un iudicium rescindens sull'esistenza dei motivi d'impugnativa.
Perché si abbia il diritto d'appello occorrono le seguenti speciali condizioni (tra le quali, per le ragioni già dette, non è la fondatezza dei motivi di appello):
a) Sentenza appellabile. - Per l'art. 481 cod. proc. civile sono appellabili tutte le sentenze di primo grado, definitive o interlocutorie, salvo che la legge le abbia dichiarate inappellabili per la tenuità del valore, o per la natura del procedimento, o perché emesse in unico grado da un giudice che non ha un secondo grado al disopra di sé, o per altre ragioni (cfr. legge 15 sett. 1922, n. 1287, art.1, capov. ultimo; r. decr. 26 febb. 1928, n. 471, art. 17; artt. 655, 702, 738 cod. proc. civ.; art. 913 cod. comm.; artt. 128, 257 cod. proc. civ.; r. decr. 2 dicembre 1923, n. 2595; art. 88 r. decr. 1 luglio 1926, n. 1130; art. 941 cod. proc. civ., ecc.). Sono appellabili anche le sentenze contumaciali (art. 467 capov.; art. 481 capov. cod. proc. civ.). L'appellabilità delle interlocutore contraddice ai principî del processo romano, seguiti dalle più moderne legislazioni processuali (cfr. art. 485 cod. proc. pen., e r. decr. 26 febbraio 1928, n. 471, art. 17, secondo il quale le interlocutorie sono appellabili soltanto insieme con la sentenza definitiva, conformemente al § 519 proc. civ. germanica e § 462 proc. civ. austriaca).
b) Legittimazione ad appellare. - Il diritto di appello spetta solo a chi fu parte nel primo giudizio (compreso il sostituto processuale e l'interveniente), non ai terzi (diversamente nel diritto romano e comune). Eccezioni a questo principio: artt. 841 e 842 cod. proc civ.; art. 23 legge 24 maggio 1903, n. 197, sul concordato preventivo. In caso di pluralità di parti soccombenti in primo grado e quindi interessate ad appellare, cfr. artt. 470 e 471 cod. proc. civ.; in caso di pluralità di parti vincitrici, cfr., per la legittimazione passiva, l'art. 469 cod. proc. civ. (integrazione del giudizio).
c) Soccombenza. - Condizione del diritto d'appello è che l'appellante si senta gravato dalla sentenza contro la quale appella: in caso di soccombenza reciproca, ciascuna parte può appellare contro i capi della sentenza che le hanno dato torto.
d) Termine per appellare. - Il diritto di appello può essere esercitato prima dell'inizio, ma non oltre la scadenza del termine perentorio (art. 466 cod. proc. civ.), decorrente dalla notificazione della sentenza (art. 467 cod. proc. civ.), che si fa a istanza di parte (diversamente per l'art. 102 r. decr. 9 ottobre 1919, n. 2161). Il termine d'appello dura trenta giorni (art. 485 cod. proc. civ. modificato dall'art. 4 legge 15 settembre 1922), se non è stabilita dalla legge per casi speciali una durata minore (quindici giorni per gli artt. 656 e 703 cod. proc. civ., art. 17 r. decr. 26 febb. 1928; dieci giorni per l'art. 2 legge 28 luglio 1895, n. 455, sui conciliatori, ecc.). Possono essere proposti anche dopo scaduto il termine: l'appello incidentale (art. 485 capov. ultimo) e l'appello per adesione (art. 488).
Il diritto d'appello si perde per rinuncia esplicita, o implicitamente derivante da accettazione espressa o tacita della sentenza di primo grado (art. 465, capov. ultimo, cod. proc. civ.).
L'appello principale (contrapposto all'appello incidentale e adesivo) si propone al giudice ad quem (diversamente nella proc. civ. austriaca § 465 nella quale è proposto al giudice a quo, come avveniva nel processo romano: cfr. art. 129 cod. proc. pen.), con atto di citazione (art. 486 cod. proc. civ.) o, in alcuni procedimenti speciali, con ricorso (r. decr. 9 ott. 1919, n. 2161, art. 102; r. decr. 10 luglio 1926, n. 1130, art. 74; r. decr. 26 febbraio 1928, n. 471, art. 17).
Nel giudizio di appello si segue lo stesso procedimento dei giudizî di prima istanza (r. decr. 31 agosto 1901, n. 413, art. 50 segg.). Speciali disposizioni concernono l'appello incidentale (gravame riconvenzionale, con cui l'appellato, sui capi in cui sia restato soccombente, appella a sua volta contro l'appellante principale) e l'appello adesivo (gravame del litisconsorte che ha interesse comune all'accoglimento dell'appello principale), i quali si propongono con comparsa alla prima udienza in cui si tratta la causa (artt. 485 e 488 cod. proc. civ.; 54 r. decr. 31 agosto 1901, n. 413). Sugli effetti dell'inefficacia dell'appello principale, o della rinuncia al medesimo, sull'appello incidentale, cfr. art. 487 capov. ultimo.
Conseguenze particolarmente rigorose ha la contumacia dell'appellante: la quale dà origine al rigetto dell'appello senza esame (art. 489 cod. proc. civ.; art. 51 r. decr. 31 agosto 1901, n. 413), che si può considerare o come un caso eccezionale di soccombenza in merito basata sul solo fatto della contumacia (Chiovenda), o come una preclusione del diritto di appello, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza in primo grado. Per l'intervento nel giudizio di appello, cfr. art. 491 cod. proc. civ.
Oggetto del giudizio di appello non è, come del giudizio di cassazione, il diritto d'impugnativa, ma immediatamente il rapporto sostanziale controverso (effetto devolutivo) il quale, per il principio del doppio grado, dev'essere lo stesso rapporto già deciso dal primo giudice; altrimenti, mancherebbe al giudizio di appello la giustificazione razionale, già notata, derivante dalla reiterazione dell'esame sulla stessa controversia. Da ciò il divieto, la cui trasgressione è rilevabile d'ufficio, di proporre domande nuove in appello, anche in forma di riconvenzione, e di variare gli elementi della domanda iniziale (art. 490 cod. proc. civ.: disposizione intesa con una certa larghezza dalla giurisprudenza, specialmente per quanto attiene alla variazione in appello della causa petendi).
La controversia già decisa in primo grado passa intera alla cognizione del giudice di secondo grado solamente in quanto l'appello investa l'intera sentenza di primo grado: se questa ha più capi, e l'appello è diretto solo contro alcuni di essi, sugli altri si forma il giudicato (art. 486 capov. ultimo), e la cognizione del giudice d'appello è ristretta ai soli capi impugnati (tantum devolutum quantum appellatum); i capi favorevoli all'appellante, non investiti dal suo gravame, possono esser ripresi in esame dal giudice di appello solo in quanto vi sia appello incidentale da parte dell'appellato. Dal principio che l'effetto devolutivo dell'appello opera nei limiti della iniziativa delle parti, la quale, a sua volta, opera nei limiti della soccombenza, la dottrina tradizionalmente desume (non senza qualche recente dissenso: Delitala) la conseguenza che, in mancanza di appello incidentale, la sentenza di secondo grado non può in nessun caso essere più sfavorevole all'appellante della sentenza di primo grado (divieto della reformatio in peius).
Entro questi limiti oggettivi, il giudizio d'appello non si limita, come avviene nel diritto austriaco (proc. civ. § 462) e come avveniva nel diritto comune tedesco, a un riesame dei materiali istruttorî già raccolti in prima istanza (revisio prioris instantiae); nel nostro diritto l'appello dà origini a un novum iudicium, in cui si riapre non solo la fase decisoria, ma altresì la fase istruttoria, con illimitata facoltà nelle parti di proporre nuove eccezioni e nuove prove (ius novorum, art. 490 cod. proc. civ., capov. ultimo), e quindi con la possibilità che in appello, pur nei limiti della domanda iniziale, si trattino questioni di diritto e di fatto non trattate in primo grado. Questa riapertura dell'istruttoria non deve però far credere che in seguito all'appello il giudizio di primo grado cada senz'altro nel nulla, sicché il processo si possa ricominciare ex novo: se in primo grado, al momento della chiusura della discussione, si erano verificate preclusioni e si erano raccolte prove, queste valgono anche nel giudizio di appello, il quale non può esser quindi considerato, com'è stato detto, quale un "secondo primo grado", ma come "la prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nella condizione in cui si trovava prima della chiusura della discussione" (Chiovenda). Dal principio che l'appello devolve al giudice superiore la piena cognizione della controversia, e che quindi esso è, nei limiti suesposti, un beneficium commune di ambedue le parti, si desume (ma in pratica è materia assai dibattuta) che in secondo grado s'intendano implicitamente riproposte a favore dell'appellato, senza bisogno di appello incidentale, tutte le eccezioni e questioni dedotte in primo grado, sempre che, qualora si tratti di questioni di fatto, siano prodotti in appello gli atti o documenti su cui esse si basano (cfr., per casi speciali, art. 239 reg. gen. giud.; art. 52 r. decr. 31 agosto 1901, n. 413).
Quanto si è detto finora dà ragione della qualifica di rimedio generale tradizionalmente attribuita all'appello (verbum appello est generale): nel novum iudicium che si svolge in secondo grado, il giudice di appello non solo può correggere gli errores in iudicando, di diritto e di fatto, del primo giudice, non solo riparare gli errores in procedendo intervenuti nella prima fase, ma altresì prendere in esame, nei limiti del gravame, questioni giuridiche ed elementi di fatto non dedotti in prima istanza. Data questa latitudine dei poteri del giudice di appello, il principio del doppio grado di giurisdizione dev'essere inteso non nel senso di doppia pronuncia su questioni identiche, e neppure nel senso di doppia pronuncia in merito, ma nel senso di doppio invito a conoscere della medesima domanda (Zanzucchi).
Le ragioni per le quali è da scartarsi la prima formula risultano già da quanto si è detto sopra, intorno alla facoltà che ha il giudice di appello di conoscere questioni non proposte in primo grado; ma anche la seconda formula è insufficiente di fronte agli articoli 492-493 del codice di procedura civile. Se, infatti, l'esigenza della doppia pronuncia in merito è rispettata nei casi in cui il giudice di appello, confermando o riformando una sentenza interlocutoria o incidentale, rinvii la causa per il corso ulteriore al giudice di primo grado (art. 492), o in cui faccia questo dopo aver riformato una sentenza definitiva e aver ordinato ulteriori atti d'istruzione (art. 492, capov.), doppia pronuncia in merito può non aversi negli altri casi contemplati da questo articolo, e specialmente nel caso in cui il giudice di appello riformi una sentenza interlocutoria o incidentale e insieme decida definitivamente, senza rinvio, il merito della causa. Il principio del doppio grado, inteso come doppia pronuncia in merito, è salvato anche dall'articolo 493 secondo il quale: a) quando in prima istanza siasi pronunziato soltanto sulla competenza (o, dicono gl'interpreti, su altro presupposto processuale), anche in appello si pronuncia solo su questa; b) quando in appello si annulli la sentenza del primo giudice per incompetenza, non può il giudice d'appello conoscere il merito (nel qual caso l'appello, che a ciò si presta per il suo carattere generale, esercita la funzione di una vera querela nullitatis).
Ma questa seconda regola, che logicamente dovrebbe estendersi, come la prima, a tutti i casi in cui in appello si riconosca la nullità del primo giudizio, considerando che, se il procedimento di primo grado è annullato, il primo grado di giurisdizione viene a mancare, viene interpretata restrittivamente soprattutto dalla giurisprudenza, e limitata, secondo la lettera della legge, al solo caso di incompetenza; cosicché in ogni altro caso in cui il giudice di appello riconosca la nullità del rapporto processuale di primo grado, lo stesso giudice di appello avrebbe il dovere di decidere sul merito. Con che si resuscita una delle forme che nel diritto comune poteva assumere la querela di nullità, della quale si diceva che devolvit negotium ad cognitionem iudicis superioris ad instar appellationis (Vantius); ma si viene logicamente a ferire il principio del doppio grado.
Se la sentenza di secondo grado (impugnabile, secondo i casi, con l'opposizione contumaciale, art. 474; con la revocazione, art. 494; con la opposizione di terzo, artt. 510 e 512; col ricorso in cassazione, art. 517 cod. proc. civ.) decide interlocutoriamente o definitivamente il merito, la sentenza di primo grado perde la possibilità di passare in giudicato; ma può darsi che la sentenza di secondo grado si limiti a dichiarare l'inammissibilità dell'appello o l'irregolare costituzione del giudizio di secondo grado; nel qual caso (salva la possibilid di riproporre il gravame, se il termine non sia ancora decorso) la sentenza di primo grado passa in giudicato. Lo stesso accade, se il giudizio di appello si perime (art. 341 capov. cod. proc. civ.), o se l'appellante rinunzia all'appello (art. 345 cod. proc. civ.; cfr. però art. 487 capov. ultimo), prima che nel giudizio di secondo grado sia stata pronunciata altra sentenza.
L'istituto dell'appello, quale è regolato attualmente dalla legislazione italiana, non è destinato a essere profondamente riformato in un prossimo avvenire: tutti i recenti progetti di riforma del nostro processo civile si sono infatti limitati a proporre il divieto della impugnazione isolata delle interlocutorie e qualche modificazione al modo d'introduzione del gravame; ma per il resto hanno mantenuto intatte le grandi linee dell'istituto, soprattutto in ciò che si riferisce al ius novorum in seconda istanza. Se la storia dell'appello sembra segnare negli ultimi due secoli una lenta ma costante tendenza alla sua progressiva riduzione (non solo nel limitare il numero degli appelli, ma anche nel restringere l'ambito dell'unico giudizio di appello), non sembra prevedibile che questa tendenza possa spingersi fino all'abolizione dell'istituto, il quale in tutte le legislazioni processuali si mantiene come riconosciuta garanzia di giustizia. È significativo che, mentre in uno dei progetti che prepararono la legislazione processuale germanica del 1879 (erster Entwurj der civ. proz. ord., 1871) si era giunti a proporre addirittura l'abolizione dell'appello, ritenuto inconciliabile col sistema dell'oralità, e la sua sostituzione con una revisio in iure di secondo grado, oggi si delinea nella stessa Austria e soprattutto nella Cecoslovacchia, ov'è in vigore il processo orale, un movimento per trasformare l'appello limitato, che non ammette l'ius novorum, in un appello totale (volle Berufung), in cui la facoltà delle parti di dedurre in secondo grado nuove prove e nuove difese sia soltanto temperata, com'è attualmente in Germania (§ 529 proc. civ., nella nuova formula in vigore dal 1924) dal potere del giudice di non tener conto delle deduzioni volutamente o colposamente tardive (in questo senso anche l'art. 349 del progetto italiano 1926).
Bibl.: Ampia bibliografia sull'appello, e in generale sui mezzi di impugnativa in L. Mortara, Appello civile, in Digesto italiano, III, Torino 1890, parte 2ª, p. 380 segg.; P. Calamandrei, La Cassazione civile, Torino 1920 (specialmente in testa ai varî capi del primo volume e all'inizio del secondo volume). Lavori monografici recenti sull'appello civile nel diritto italiano sono (oltre quanto è detto nei trattati e commentarî generali: cfr. specialmente G. Chiovenda, Principii di dir. proc. civile, 4ª ed., Napoli 1928, p. 84; F. Carnelutti, Lezioni di dir. processuale civile, IV, Padova 1925, n. 309 segg.); M. T. Zanzucchi, Nuove domande, nuove eccezioni e nuove prove in appello, Modena 1915; G. Delitala, Il divieto della reformatio in peius, Milano 1927.
Per la storia dell'appello e per la legislazione comparata, indicazioni bibliografiche nei lavori sopra citati del Mortara e del Calamandrei; alle quali si può aggiungere, per il periodo più recente: G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, I, Milano 1925, p. 333 segg.; II, ibidem 1927, p. 555 segg.; M. Pagenstecher, Die Berufung im neuen Zivilprozessrecht, Mannheim 1924 (per il dir. germanico); F. Kleine, F. Engel, Der Zivilprozess Österreichs, Mannheim 1927, p. 403 segg. (per il diritto austriaco); A. Heusler, Der Zivilprozess der Schweiz, Mannheim 1923, p. 167 segg. (per il diritto svizzero); R. A. Wrede, Das Zivilprozessrecht Schwedens und Finnlands, Mannheim 1924, p. 271 segg. (per il diritto svedese e finlandese).
Appello penale.
Il diritto romano conosceva, fin dai tempi più remoti, uno speciale rimedio contro le sentenze penali: la provocatio ad populum. La prima legge che regola questo istituto è la lex Valeria de provocatione dell'anno 245 di Roma. Ma esso esisteva anche nel periodo regio, vuoi come un mezzo diretto a porre un argine all'usurpazione dei poteri da parte del re, mettendo a disposizione del Cittadino un ricorso per incompetenza il cui effetto era quello di annullare il giudizio regio (Jehring); vuoi come un mezzo di sindacare l'opera del re, che l'assemblea popolare si sarebbe riservato nell'atto di delegargli il potere di giudicare anche dei reati comuni (Fadda). Certo si è che il rimedio esisteva ed era costituito da un richiamo fatto al popolo, autorità che in Roma sovrastava su tutte le altre. Se poi la provocatio desse luogo a un vero e proprio giudizio di appello è questione ancora insoluta, come sono insoluti molti altri problemi relativi a questo istituto. Così si discute a chi spettasse tale diritto (se ai patrizî soltanto, o anche ai plebei, e in virtù di quali leggi sia stato concesso anche ai Latini, ecc.), quali sentenze fossero soggette alla provocatio e quali no, quale fosse l'autorità comiziale competente a giudicarne, quali infine le leggi che regolavano l'istituto. Fra tanta incertezza possiamo dire che di sicuro non vi sia null'altro all'infuori dell'esistenza del rimedio, ritenuto dai Romani il più sicuro presidio della loro libertà. Altro rimedio che poteva influire sulle sentenze penali, ma la cui natura è sicuramente differente da quella dell'appello, fu poi, nel periodo repubblicano, la intercessio dei magistrati e dei tribuni. Se l'azione dei singoli magistrati è individuale, tuttavia, in virtù di un principio base del diritto costituzionale romano (quello stesso che per evitare il pericolo di un ritorno alla forma monarchica portò alla bipartizione di tutti i poteri), tale azione non poteva esplicarsi senza il consenso, espresso o tacito, dei magistrati pari o superiori. Su questo fondamento, anche contro le sentenze penali si ammise l'appellatio ad parem o ad maiorem potestatem, diretta a provocare, mediante l'intercessio del magistrato, la sospensione del procedimento o dell'esecuzione della condanna. L'effetto dell'intercessio è dunque puramente negativo, laddove quello della provocatio sembra essere stato positivo, e analogo in sostanza allo appello moderno. Nel periodo imperiale alla provocatio ad populum succede l'appellatio ad imperatorem, nel quale ormai si assommano tutti i poteri della civitas. Civem romanum antea ad populum nunc ad imperatorem appellantem, scrive Paolo; e che l'appellatio ad imperatorem derivi dall'antico rimedio della provocatio, e non da quello più recente dell'intercessio s'intende agevolmente, ove si pensi che l'effetto di quest'ultimo era, come si è detto, puramente negativo. L'appellatio ad imperatorem aveva, invece, un effetto veramente positivo: al principe spettava il diritto di conoscere in ultima istanza di tutte le cause giudicate dai suoi magistrati. Poi, per l'impossibilità di attendere personalmente al disbrigo di tutti i reclami, egli cominciò a delegare la sua potestà, e così venne a mano a mano creandosi tutto un sistema di organi giurisdizionali fra i quali fu divisa la competenza d'appello. Giunti a questo punto, l'appello romano s'identifica sostanzialmente con quello moderno, poiché le differenze che ancora sussistono (forma del procedimento, inappellabilità di talune sentenze, ammissibilità d'una reformatio in peius, ecc.) non toccano la sostanza del rimedio. Dal diritto romano l'istituto dell'appello passa nelle legislazioni medievali, favorito dalle monarchie che ravvisano in esso uno dei più efficaci mezzi di lotta contro il feudalismo. Ma la commistione con le concezioni germaniche rompe in un primo tempo l'armonia dello sviluppo dell'istituto: alla cognizione dei giudici si sostituisce il duello giudiziario. Il rimedio si dirige adesso direttamente contro il giudice che ha pronunziato la sentenza con una querela di falsità e di ingiustizia, e tale dichiarazione impegna chi l'ha fatta a sostenerla con le armi alla mano. La lotta cruenta decide del torto e del diritto. Poi questa usanza barbarica, in uso fino al sec. XII, viene col volgere dei tempi a modificarsi, in parte per l'influenza non mai spenta del tutto del diritto romano, in parte per l'opera delle monarchie che tendono ad affermare con questo mezzo l'autorità del loro potere giurisdizionale, in parte ancora per opera del diritto canonico che aveva ereditato e perfezionato il nostro istituto. Il favore che l'appello incontra va anzi sempre aumentando, così che i nostri pratici del sec. XV e del XVI ne parlano come di un istituto di diritto naturale, che non potrebbe negarsi neppure al diavolo. Ma la realtà è molto spesso diversa, e un rapido sguardo alle legislazioni del tempo ci ammonisce come vi fossero molte cause nelle quali l'imputato non poteva appellare. Così, in genere, non si poteva appellare dalle condanne per lesa maestà, per ribellione, ecc., né potevano appellare i confessi o i banditi, né infine tutti coloro contro i quali. si procedeva ex abrupto. Limitazioni analoghe valgono persino nel diritto canonico. Per converso altre legislazioni - ma sono poche e dei tempi più tardi - accanto all'ordinario rimedio dell'appello, del quale il condannato è libero di giovarsi o meno, conoscono, per le condanne più gravi, una sorta di appello obbligatorio, disponendo che siano trasmesse d'ufficio al magistrato superiore, che deve sottoporle a riesame. Così, ad es., la legislazione piemontese. La rivoluzione francese apporta un profondo mutamento nell'amministrazione punitiva. Il procedimento da scritto e segreto diviene orale e pubblico, e al sistema delle prove legali si sostituisce il principio del libero convincimento. In tale trasformazione si ravvisa la migliore garanzia per la verità e la giustizia delle sentenze, ma si mantiene in vita, ciò nonostante, l'istituto dell'appello. Poiché, se sono venute a mancare le ragioni contingenti, giuridiche o politiche, che in determinati periodi storici hanno concorso a dare una particolare ragione di essere all'istituto, non è venuta a mancare la base sulla quale esso si asside, e che consiste, come si è detto, nella possibilità di errore da parte del giudice. Vero è che tale possibilità sussiste anche per il giudizio di appello, onde a essere conseguenti si dovrebbe ammettere - ciò che in pratica è impossibile - un numero infinito di riesami; ma è pur vero che la possibilità di errore diminuisce a ogni riesame come la possibilità di errore di un'operazione aritmetica diminuisce quando se ne faccia la riprova. Conservato come regola, l'appello fu però abolito per una numerosa e importante specie di sentenze: quelle pronunciate dalla giuria. L'entusiasmo suscitato dal nuovo magistrato, che fu un portato della concezione politica dominante (sovranità popolare), ci dà la spiegazione di questa deroga. L'esperienza di tutti i giorni ci insegna però quanto falsa fosse la credenza dell'impossibilità di errori giudiziali per parte del nuovo magistrato.
Dal diritto francese i principi sopra enunciati passarono più o meno completamente negli ex codici degli stati italiani, e poi nei codici patrî. Nel sistema oggi vigente l'appello è un mezzo di impugnazione che compete sia contro le decisioni istruttorie, sia contro le sentenze. Delle decisioni istruttorie l'imputato però non può appellare che le ordinanze sulla libertà personale e sulle perizie; laddove il pubblico ministero può appellare ogni ordinanza e anche le sentenze istruttorie di primo grado con le quali fu dichiarato di non farsi luogo a procedere. Delle decisioni giudiziali sono appellabili le sentenze del pretore sia di condanna che di proscioglimento, si tratti di delitti o di contravvenzioni, e quelle del tribunale, a meno che la pena inflitta nella sentenza o preveduta nella legge non sia una pena pecuniaria di minima entità. Possono impugnarsi anche le pronunzie civili connesse alla decisione penale, e quanto alle ordinanze pronunciate nel corso del giudizio, esse sono tutte appellabili, ma il loro appello non sospende il corso del processo: il giudice dell'impugnazione ne tratterà insieme all'appello della sentenza.
I soggetti cui compete la facoltà di appellare sono: nella fase istruttoria il pubblico ministero, e, limitatamente a una determinata categoria di pronunzie, l'imputato; nella fase giudiziaria, il pubblico ministero, l'imputato, la parte civile e il civilmente responsabile. Il pubblico ministero può interporre appello contro tutte le sentenze, così di proscioglimento come di condanna, poiché lo stato, che egli rappresenta, non ha interesse alla condanna dell'imputato, se questi non sia effettivamente colpevole. Invece l'imputato (e nel suo interesse i prossimi congiunti e il difensore) non può appellare se non abbia interesse a farlo, e per quanto riguarda la pronunzia penale tale interesse viene dalla legge ritenuto sussistente solo nei casi di condanna o di proscioglimento per non provata reità. Nell'ambito degl'interessi civili la facoltà d'appello spetta a tutti i soggetti sopra nominati.
Colui cui compete la facoltà di appellare, se vuole farne uso, deve farne dichiarazione, entro il termine stabilito dalla legge, presso la cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza. L'appello consiste dunque in un atto di volontà del soggetto processuale competente, con il quale egli dichiara di opporsi a una sentenza, affermandola viziata da un errore di giudizio (error in iudicando) o di attività (error in procedendo). E a sostegno dell'appello debbono venire presentati appositi motivi di gravame. Per contro, nel diritto intermedio l'appello era diretto soltanto contro i vizî della prima specie, allo scopo di riparare all'ingiustizia della sentenza attraverso un'ulteriore cognizione del rapporto controverso. Contro i vizî della seconda specie si concedeva invece un rimedio di diversa natura, una vera e propria azione d'impugnativa, diretta a porre nel nulla la pronunzia radicalmente invalida. Di qui la distinzione fra mezzo di gravame e querela di nullità. Ma, in seguito, una ragione di convenienza indusse a utilizzare anche la sentenza viziata da un errore di procedimento, in quanto non fosse contraria a giustizia. Al sistema della nullità succedette quello dell'annullabilità, e le azioni di impugnativa furono assorbite nel mezzo di gravame. Così oggi il mezzo di gravame tipico, l'appello, serve indifferentemente tanto a far valere un vizio di procedimento, quanto a far valere un errore di giudizio. Possiamo per ciò definire l'atto di appello come la dichiarazione del soggetto processuale competente diretta a fare annullare o riformare una decisione giurisdizionale, attraverso il riesame totale o parziale della causa da parte di un giudice superiore. L'effetto principale dell'appello consiste quindi nella devoluzione della causa da uno a un altro giudice (superiore), ond'è che la dottrina considera l'appello precisamente come la prosecuzione del procedimento di primo grado, ripreso nelle condizioni in cui si trovava prima della chiusura della discussione. È una configurazione che discende logica dal principio del doppio grado di giurisdizione, cui s'inspira la nostra legge e che consiste appunto nel concedere che ogni causa - salve le eccezioni appositamente stabilite - possa passare successivamente per la piena cognizione di due tribunali. Perciò i poteri del giudice d'appello non si limitano all'accertamento della fondatezza o dell'infondatezza delle proteste dell'appellante: l'ambito del giudizio è più vasto, e il giudice di appello giudica del rapporto controverso che continua fra le parti, non solo nella fase decisoria, ma anche in quella istruttoria. Le parti possono quindi fare nuove istruzioni, istanze e deduzioni, e il giudice, se lo ritiene opportuno, può ordinare persino la rinnovazione in tutto o in parte del dibattimento. La sua cognizione cade direttamente sul rapporto controverso sul quale egli statuisce ex novo secondo il suo libero apprezzamento. Ma a tale principio la legge porta una deroga a favore dell'imputato: in difetto di gravame del pubblico ministero, il giudice di appello non può mutare a danno dell'imputato la quantità e la qualità della pena inflitta in precedenza (divieto della reformatio in peius). Oltre all'effetto devolutivo ora indicato, l'appello, a differenza di altri rimedî, ha anche un effetto sospensivo in ordine all'esecuzione della pena. La dottrina più recente considera però la sentenza, contro cui è esperibile, o contro cui è già stato esperito il rimedio dell'appello, come una sentenza per sua natura sottoposta a condizione (conditio iuris) sospensiva, e in questo caso sarebbe evidentemente improprio parlare di effetto sospensivo dell'appello. Altro effetto del rimedio è poi quello estensivo, poiché nelle cause cosiddette individue l'interposizione dell'appello da parte di un coimputato giova anche agli altri, dando a essi il diritto d'intervenire nel giudizio d'impugnazione, di far proprî i motivi dell'impugnante e di aggiungerne eventualmente degli altri.
Il procedimento si apre normalmente con la relazione di un giudice, che legge o riassume i verbali delle testimonianze del primo giudizio: questa lettura tiene il posto dell'audizione dei testi. Segue l'interrogatorio dell'imputato, poi la discussione. Di regole pertanto non si sentono i vecchi testi, né se ne citano di nuovi, ma se il giudice lo ritiene necessario può ordinare o ammettere nuove prove. La sentenza è deliberata e pubblicata nelle forme ordinarie. Questa organizzazione del procedimento, per la quale normalmente non si dà luogo all'escussione diretta delle prove, è stata fatta oggetto a critiche vivaci. Si è detto che nel procedimento di appello fanno difetto tanto l'oralità come l'immediatezza del dibattito, e poiché in questi due principî si è soliti vedere la migliore garanzia della giustizia delle pronunzie penali, molti ne hanno tratto ragione per propugnare la soppressione dell'istituto. La maggioranza dei teorici e dei pratici non è però di quest'avviso. Gl'inconvenienti lamentati in parte sussistono, ma sarebbe ancora più grande inconveniente quello cui si andrebbe incontro con l'abolizione dell'istituto, che in un buon numero di casi serve veramente a correggere le ingiustizie commesse dal primo giudice. D'altra parte, l'abolizione dell'appello ripugna alla coscienza popolare, che seguita a ravvisare in esso una provvida garanzia di giustizia. Ciò che generalmente si consiglia è invece un uso più largo della facoltà di rinnovare il giudizio, ed eventualmente l'introduzione di riforme particolari, come l'abolizione del divieto della reformatio in peius, che vincola irrazionalmente il giudice d'appello alla sentenza di primo grado. E questa sembra essere la via che sarà seguita dalla prossima riforma.
Bibl.: Intorno all'appello penale non c'è alcuna trattazione monografica veramente pregevole. La bibliografia si restringe perciò ai trattati e alle opere generali, tra le quali possono consultarsi con maggio profitto, quelle di Borsani e Casorati, Saluto, Manzini, Stoppato, Longhi, Mortara, Florian, Zerboglio.- Per l'appello nel diritto romano v. poi, oltre alle opere generali, la voce di C. Fadda, Appello penale romano, in Digesto ital., IV, e gli autori ivi citati. Per gli svolgimenti successivi quelle del Saredo e del Casorati, comprese nello stesso volume. Nella dottrina francese v. E. Rohée, De l'appel en matière correctionelle, Caen 1897, e per l atedesca cfr. J. Merkel, Über die Geschichte der klassischen Appellation, Halle 1883, e F. O. Schwarze, Die zweite Instanz im mündlichen Strafverfahren, Vienna 1862, oltre alle opere generali e ai trattati.