Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XIX secolo e fino all’inizio del successivo l’estensione delle funzioni statali nelle nazioni più avanzate d’Europa avviene con tempi e modalità così rapide che il problema dell’effettivo potere delle burocrazie tradizionali e dei nuovi apparati, e del loro rapporto con una società in continua evoluzione, si pone in termini differenti rispetto al passato.
Il significato e l’importanza della burocrazia
Il termine “burocrazia” evoca di solito un mondo polveroso, fatto di vecchie carte, di lente procedure, di intricati grovigli di regolamenti e tristi penombre di uffici con interminabili labirinti di competenze e gerarchie. È un’immagine – in parte veridica, in parte deformata – fissata sulle pagine da vari scrittori nel corso dell’Ottocento e fino ai primi del Novecento: le lotte tra gli Impiegati di Balzac per salire di grado, la forza della corruzione nell’Ispettore generale di Gogol’, le ritualità delle procedure in Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, la tremenda presenza della macchina amministrativa nel Kafka del Processo concorrono a formare questa immagine. Attraverso i personaggi letterari la burocrazia viene accusata o ridicolizzata, esorcizzata o temuta, in ogni caso è sempre rappresentata come un fenomeno quotidiano. Così del resto la considerava, già a metà Settecento, l’intendente di commercio francese Vincent de Gournay – a cui dobbiamo la paternità del termine – che, paragonandola a forme di governo quali l’aristocrazia, la monarchia e la democrazia, ne prefigura uno sviluppo abnorme. Accanto all’accezione negativa del termine bureaucratie e dei suoi omologhi stranieri (Bürokratie in tedesco, bureaucracy in inglese, burocrazia in italiano) di derivazione colta, entrati poi nell’uso comune, nell’Ottocento si affianca anche un diverso significato. Questo indica il “governo mediante uffici”, tramite cioè un apparato statale costituito di funzionari nominati e non eletti, organizzati gerarchicamente e dipendenti da un’autorità sovrana, ai quali è affidata la tutela amministrativa dell’ordinamento complessivo. Tale qualificazione concettuale è il riflesso di una vicenda istituzionale che accompagna la genesi dello Stato contemporaneo e che inizia proprio con l’epoca d’oro del pensiero liberale, successivamente alla Rivoluzione francese. Per il liberalismo lo Stato ideale è quello che osserva una stretta neutralità nei confronti di tutti gli agenti della vita economica e delle categorie sociali, che è capace di far sentire la sua presenza senza interferire con l’esistenza dei cittadini. Eppure è proprio per garantire l’attività legislativa e la sua applicazione, per mantenere l’ordine pubblico all’interno e assicurare gli interessi esterni del Paese, per convogliare e ridistribuire le somme necessarie a svolgere questi limitati compiti che l’apparato statale è protagonista di una duplice tendenza: espansiva e razionalizzatrice. I ministeri, che ancora negli anni successivi al 1870 non arrivano a dieci, nell’ultimo quarto del secolo aumentano di numero e di competenze, mentre già dai primi decenni dell’Ottocento il personale, non più di provenienza ereditaria, vede l’irresistibile ascesa delle specializzazioni professionali. Si tratta di un fenomeno che, pur attraverso specifici percorsi nazionali, al volgere del XIX secolo conosce itinerari simili nell’intera Europa occidentale: in Francia, dove vi è una consolidata tradizione centralizzatrice; in Germania e in parte anche in Italia, due Paesi che hanno appena raggiunto l’unità nazionale ma che possiedono una burocrazia consolidatasi attorno all’antica società cetuale; perfino in Inghilterra, dove l’assetto costituzionale, fondato sull’unione di parlamentarismo e self-government, si amplia a includere l’intervento dello Stato tramite le accresciute schiere dei funzionari pubblici. I risultati di questa evoluzione, che i contemporanei percepiscono in forme amplificate e distorte – si parla insistentemente di “elefantiasi burocratica” e di “progressione dei bilanci” – non sono soltanto quantitativi.
L’estensione delle prerogative statali traduce anche un mutamento di attitudini concettuali che prende atto della crisi dello Stato di diritto, caro al liberalismo. Al suo posto emerge uno Stato che, definito alternativamente “sociale” o “amministrativo”, è chiamato comunque a ridurre le ineguaglianze di condizione, a regolare gli scambi e a garantire ai cittadini le prestazioni indispensabili per il raggiungimento di quel minimo livello di benessere che ormai, alle soglie del XX secolo, rappresenta la sola garanzia di ordine sociale.
I casi nazionali
In Francia il corpo degli impiegati pubblici che, al termine degli anni Trenta, comprende meno di 50 mila unità, si espande fino a raggiungere quasi gli 800 mila effettivi alla vigilia della prima guerra mondiale. Se la crescita dell’apparato centrale e dei suoi gangli periferici segna un incremento decisivo, soprattutto a partire dal Secondo Impero, è altresì vero che in quel momento essa può contare su una macchina amministrativa già consolidata da diversi decenni.
Formatosi nella seconda metà del XVIII secolo, il corpo burocratico recluta numerosi esponenti della nascente borghesia nelle fila degli intendenti e nell’esercito, negli uffici del segretario di Stato, del controllore generale e delle finanze, nei parlamenti provinciali e in quello di Parigi. A questo stato di cose il periodo rivoluzionario e napoleonico aggiunge l’intervento livellatore di uno Stato il cui precoce irradiarsi in forma di moderna amministrazione pubblica rappresenta un unicum nell’Ottocento europeo. Questa politica, che tende a limitare i privilegi sociali e i poteri dei notabili nelle periferie, viene sistematicamente perseguita dagli apparati statali nel corso del XIX secolo, trovando la sua più tipica incarnazione nella figura del prefetto, istituita da Napoleone nel 1800. Certo, buona parte dei funzionari dislocati nelle province – e con il progredire del secolo ai prefetti si aggiunge una nuova burocrazia tecnica e finanziaria – si integra nel vecchio universo notabilare; tuttavia, pur afflitta da tali incoerenze e da alchimie di corpo dalle ricorrenti venature ideologiche sansimoniane, l’amministrazione pubblica transalpina sembra realizzare l’aspirazione comune alla terza Repubblica: stabilire le gerarchie in base ai meriti dei singoli, indipendentemente dalla loro estrazione sociale.
In Germania, una vera e propria organizzazione burocratica inizia con l’organica attività del barone Carl von Stein, funzionario dell’amministrazione prussiana, di cui percorre i gradini dal 1780 fino a diventare ministro nel 1804. L’opera riformatrice trasforma i sudditi del re in cittadini dello Stato, chiama il ceto cittadino a esercitare in prima persona il governo dei comuni urbani e riorganizza il governo centrale, a scapito della prerogativa reale, istituendo un gabinetto di ministri indipendenti e responsabili. Tuttavia il decennio delle riforme, protrattosi fino al 1815, lascia intatto il prestigio sociale dell’aristocrazia anche all’interno dell’apparato statale.
Durante il trentennio bismarckiano, gli Junker prussiani non solo continuano a formare i ranghi direttivi dell’esercito e dei ministeri berlinesi, ma impongono il loro controllo anche laddove – soprattutto nei ginnasi e nelle università – si è affermato un embrione di borghesia amministrativa; e anche nell’epoca guglielmina, sebbene con andamento meno lineare, l’aristocrazia continua a godere di un evidente prestigio. In effetti, soprattutto agli inizi del Novecento, nei confronti dei problemi sindacali del pubblico impiego, che costituisce il 4 percento della popolazione dell’impero, vi è una maggiore attenzione, testimoniata dalla legge del 1908 che riconosce il diritto di organizzazione a tutti gli impiegati.
Tuttavia, la generale resistenza dei pubblici poteri a una democratizzazione delle funzioni e a un riconoscimento di competenze tecniche che infrangano il monopolio giuridico – più della metà di tutti i funzionari superiori sono giuristi – rimanda a un giudizio del giovane Marx: “lo status quo tedesco costituisce l’aperto compimento dell’ancien régime, e l’ancien régime è la tara occulta dello Stato moderno”.
L’Inghilterra e il suo sistema costituzionale rappresentano un’eccezione rispetto al panorama continentale e ciò è testimoniato dalla difficoltà con cui il vocabolo bureaucracy si fa strada nel linguaggio corrente durante l’Ottocento. Del resto, gli autori inglesi che nel corso del XIX secolo si occupano di burocrazia sottolineano, spesso con eccessiva enfasi, tale diversità. Tutti, da Carlyle a Spencer, passando per Mill e Bagehot, nelle loro esposizioni teoriche e nei loro commenti sull’evoluzione istituzionale del continente europeo esprimono una sorta di compiacimento per la “diversità” britannica. Grazie a essa il parlamento, i tribunali e le libertà municipali fanno sì che amministrazione e comunità si identifichino e rendano inutile la burocrazia. In realtà, impiantatosi saldamente soltanto dopo la riforma del 1870, l’apparato amministrativo statale conosce dopo quella data uno sviluppo imponente: oltre 50 mila funzionari nel 1871, che divengono quasi 80 mila nel 1891, per salire a 175 mila nel 1911 e attestarsi a 280 mila nel 1914. È soltanto in apparenza paradossale che l’Inghilterra faccia il suo ingresso tra i Paesi in cui “i funzionari governano” sotto la guida dei ministeri liberali nel decennio anteriore alla prima guerra mondiale. Infatti, le riforme che essi attuano in quel periodo – trasferimenti dei funzionari da un dicastero a un altro, introduzione di metodi selettivi di classificazione delle pratiche, promozioni ispirate al criterio meritocratico – devono molto alle idee sostenute dagli utilitaristi Bentham e Chadwick più di mezzo secolo prima, e dimostrano – come questi ultimi avevano affermato prima del 1830, ispirando la prima legislazione sociale a scala europea – che l’esistenza di un’efficiente amministrazione centrale è tutt’altro che incompatibile con una tradizione di autonomia degli enti locali.
In Italia l’organizzazione dello Stato unitario avviene al termine di un dibattito – peraltro riemergente a fasi alterne anche dopo il 1865 – che vede schierati i sostenitori dell’accentramento amministrativo e i fautori del decentramento. In realtà, riorganizzando già nel 1853 l’assetto dei poteri centrali nel Regno sabaudo, Cavour anticipa le conclusioni politiche di quel dibattito. Egli decide infatti di unificare le strutture amministrative fino ad allora divise in ministeri e aziende, accorpando queste ultime ai primi e concentrando nelle figure dei ministri la duplice responsabilità della direzione e dell’esecuzione.
Rispetto al modello inglese di autogoverno si tratta di una decisa preferenza per il sistema francese, al quale si affianca il referente tedesco con l’avvento di Francesco Crispi. Lo statista siciliano però, pur dando il via a una vasta opera di riordino amministrativo – attribuzioni giurisdizionali al Consiglio di Stato, maggiori controlli sugli enti locali, legislazione sanitaria – mantiene intatto l’assetto istituzionale dell’amministrazione centrale. Per ottenere provvedimenti che incidano sulla morfologia interna dell’apparato burocratico, al pari delle riforme bismarckiane in materia di assistenza sociale e di intervento statale nella sfera economica, bisogna attendere l’ascesa di Giovanni Giolitti. Si assiste allora a un duplice fenomeno: per un verso muta e si differenzia il reclutamento dei funzionari rispetto a una tendenza ultratrentennale che ha visto il Piemonte fornire da solo un quarto dei quadri superiori; per l’altro verso nascono le amministrazioni “parallele”, sia a scala nazionale (come le ferrovie e le assicurazioni) sia a livello locale (come le aziende municipalizzate). Da quel momento la burocrazia, che per tutto l’Ottocento è anche classe di governo, si avvia a diventare classe amministrativa.