appagare [appaghe, II singol. pres. indic.]
" Dare appagamento ", " soddisfare pienamente " (dal latino pacare, a sua volta denominale di pax). Con tale valore il verbo è usato o per esprimere l'acquietarsi dell'animo prima turbato da un dubbio (Com'io voleva dicer ‛ Tu m'appaghe ', Pg XV 82) o il placamento della tensione legata a un forte desiderio (" O anima ", diss'io, " che par sì vaga / di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda, / e te e me col tuo parlare appaga ", XXIV 42) o la completa soddisfazione degli appetiti mondani (qual meco s'ausa, / rado sen parte; sì tutto l'appago!, XIX 24).
In una gradazione più intensa significa l'appagamento di esigenze spirituali, come nelle parole di Lia, che alludono anche a Rachele: lei lo vedere, e me l'ovrare appaga (Pg XXVII 108); e addirittura quella pace totale e assoluta che solo Dio può dare alle anime (la verace luce che le appaga, Pd III 32; Oh trina luce che 'n unica stella / scintillando a lor vista, sì li appaga!, XXXI 29).
Quattro volte il verbo, in costruzione intransitiva pronominale, ha il senso di " accontentarsi ", " trovarsi soddisfatto ", sia che si riferisca a cose materiali come le ricchezze (Cv IV XII 8), sia che riguardi attività dello spirito (in Cv III XIII 5 la speculazione, de la quale s'appaga lo 'ntelletto e la ragione; vedi anche la gran bellezza di veder m'appago, in Rime dubbie VIII 6). Generico il valore di a. in Pd XXIII 15 quei che disïando / altro vorria, e sperando s'appaga.