apostrofe
Originariamente collegata con l'oratoria forense (consisteva essenzialmente nel volgere le spalle ai giudici per rivolgersi al pubblico o all'imputato), l'a. fu considerata nella retorica classica e medievale particolarmente adatta allo stile alto e alla poesia per la sua carica emotiva. Poteva risolversi infatti nell'invocazione e nell'esclamazione, e, adoperata come metodo di amplificazione, approfondire la tensione del discorso o accrescere l'attenzione del pubblico. Marziano Capella ricorda il frequente impiego di essa da parte di Cicerone e la definisce " nobilis figura " (38, 523). Fu ampiamente trattata da Goffredo di Vinsauf nella Poetria nova (vv. 254-460), dove si dà preminenza al carattere esclamativo e invocativo (interessante l'esempio dell'a. a Dio), e nel De Arte versificandi (24-28), dove fra i quattro generi di a. sono notevoli per quanto riguarda D. i primi due dedicati all'esclamazione e alla conduplicatio.
In D. il genere più comune di a. risponde alle esigenze del linguaggio lirico, ovvero a quelle del discorso diretto inserito nella narrazione del poema. Nella Vita Nuova la presenza del pubblico dei ‛ fedeli d'amore ' suggerisce talora l'esplicito richiamo da parte del poeta, il quale intende partecipare la propria esperienza spirituale limitando il cerchio degli ascoltatori. E se nel primo sonetto (A ciascun'alma presa e gentil core) l'a. si nasconde sotto la formula del saluto epistolare, e nella famosa prima canzone (Donne ch'avete intelletto d'amore) l'invito all'ascolto e alla particolare attenzione richiesta è tradotto nell'enunciazione del proprio proposito, non nel consueto imperativo (i' vo' con voi de la mia donna dire, v. 2), altrove si rinnova la classica a. caratterizzata dal vibrato elevarsi del tono mediante l'invocazione: O voi che per la via d'Amor passate (VII 3 1), che riprende il versetto di Geremia dallo stesso D. citato, Voi che portate la sembianza umile (XXII 9 1), Deh peregrini che pensosi andate (XL 9 1); o si ritrova il tono elegiaco dell'accorato invito alla comprensione: Piangete, amanti, poi che piange Amore (VIII 4 1), dove quel tono affettivo è accentuato dalla duplice ripetizione, Venite a intender li sospiri miei, / oi cor gentili (XXXII 5 1). Lo stesso proposito di poetica che è al fondo della Vita Nuova, cioè l'impossibilità di parlare direttamente con la donna amata per cantarne le lodi, condiziona il limite dell'a.: infatti non è mai apostrofata Madonna se non nei versi che si fingono riferiti dalla Ballata (XII 13 25), alla quale direttamente si rivolge il poeta secondo una consuetudine seguita nelle Rime (cfr. oltre le tornate, Parole mie che per lo mondo siete [LXXXIV], O dolci rime che parlando andate [LXXXV]), o per comunicare accoratamente il proprio disappunto (Con l'altre donne mia vista gabbate, / e non pensate, donna, Vn XIV 11 1-2), o il proprio sbigottimento (Ciò che m'incontra, ne la mente more, quand'i' vegno a veder voi, bella gioia, XV 4 1-2). Nei due sonetti del cap. XXII l'a. del poeta alle donne per chiedere loro ragione della loro sembianza umile ', e l'a. delle donne a lui per chiedergli la ragione del suo pianto, rivelano più direttamente il legame con la tecnica dell'amplificazione, in quanto D. sviluppa in tal modo il tema del pianto che sfigura il volto di Beatrice, dicendo del pianto di chi l'ha veduta piangere. In tutti e due i casi l'a. si articola in un'interrogazione, nella quale sono implicite le risposte delle donne e del poeta (Vedeste voi nostra donna gentile / bagnar nel viso suo di pianto Amore?, XXII 9 5-6); Vedestù pianger lei, che tu non pui / punto celar la dolorosa mente?, 14 7-8). Si tratta in realtà di un libero adattamento dello schema della subiectio, che Goffredo di Vinsauf inseriva fra i generi di a. (De Arte versificandi, 27).
La forma dialogica frequente nella Commedia comporta spesso l'apostrofe. Non è il caso di ricordare l'appello di D. al ‛ maestro ', e quello di costui al ‛ figliuolo ', né l'invocazione dei viandanti alle anime e di queste a quelli, che pur acquistano talvolta un'enfasi particolare: O anime affannate (If V 80), 0 sol che sani ogne vista turbata (XI 91), O anime che giunte / siete a veder (XIII 139; cfr. XXVI 79, XXVII 36, XXXIII 110, Pg XIV 10, XXVI 53). Ma talora lo schema retorico acquista maggiore evidenza perché produce un'immediata spezzatura della narrazione, assumendo l'ufficio d'introdurre il personaggio che solo più tardi si rivelerà: Pg V 46 (O anima che vai per esser lieta), XX 34 (0 anima che tanto ben favelle) e soprattutto If X 22 (0 Tosco che per la città del foco / vivo ten vai). Analogamente in taluni discorsi delle anime l'a. a D. non rientra nell'ovvia consuetudine del vocativo, ma tende a concludere un discorso non direttamente rivolto a lui, richiamando energicamente la sua attenzione: in If VII 61 Virgilio riassume il concetto di Fortuna dopo aver esposto il contrapasso riservato agli avari (Or puoi, figliuol, veder la corta buffa); in Pg XXIII 97 Forese rivolge a D. un'affabile e pensosa domanda (O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica?), interrompendo il suo discorso prima di procedere alla parte più grave della sua rampogna e all'oscura profezia; in Pd XXVII 64 s. Pietro termina la sua invettiva diretta contro la Chiesa esortando D. a riferirla agli uomini (e tu, figliuol, che per lo mortal pondo). Carattere didascalico ha invece talvolta l'improvviso rivolgersi di Virgilio al discepolo nel mezzo di una lezione di filosofia: Or si spiega, figliuolo, or si distende (Pg XXV 58; cfr. l'a. di Adamo a D. per introdurre la fondamentale definizione del peccato originale: Or, figliuol mio, non il gustar del legno..., Pd XXVI 115).
Un caso notevole è quello di Pg XXXI, che inizia con un'a. fortemente evidenziata (O tu che se' di là dal fiume sacro), anche per la didascalia dello stesso narratore (volgendo suo parlare a me per punta, / che pur per taglio m'era paruto acro). Infatti il discorso rivolto da Beatrice agli angeli (Voi vigilate, ecc., Pg XXX 104) e indirettamente rivolto a D. come all'accusato, e l'improvviso rivolgersi all'accusato nel canto successivo riproducono la situazione di un dibattito giudiziario e riconducono l'a. alla sua funzione classica e al suo significato etimologico (aversio " ad reum ab iudice ").
Particolarmente sfruttata è l'a. nell'esordio dei canti. Ora è la preghiera che si apre enfaticamente con un'invocazione: O Padre nostro (Pg XI), Vergine Madre (Pd XXXIII); ora è un versetto biblico che conserva la forma originaria: ‛ Deus, venerunt gentes ' (Pg XXXIII), Osanna, sanctus Deus sabaòth (Pd VII), cui si deve aggiungere Pape Satàn, ecc. (If VII); ora è la rampogna di un vizio umano, che segna enfaticamente il tema del canto: O Simon mago (If XIX), Godi, Fiorenza (XXVI), O insensata cura de' mortali (Pd XI), O poca nostra nobiltà di sangue (XVI).
L'a. viene adoperata ripetutamente nella Commedia sotto la forma classica dell'aversio per introdurre l'invettiva morale: sconfina allora nell'imprecazione (v. la voce relativa). Talora la personificazione aggiunge immediatezza e violenza alla rampogna: La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, If XVI 73-75; Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi f d'incenerarti... ?, XXV 10-13, dove si aggiungono la conduplicatio prevista dall'insegnamento retorico e l'interrogazione, che ritorna altrove col medesimo senso (Ahi Pisa, vituperio de le genti, XXXIII 79; Ahi Genovesi, uomini diversi / d'ogne costume... / perché non siete voi del mondo spersi?, XXXIII 151-153; Ahi serva Italia, Pg VI 76; O Bretinoro, ché non fuggi via... ?, XIV 112). Talora, come anche in quest'ultimo caso, l'a. si risolve in un'esclamazione; così, ad es., nella famosa imprecazione contro la donazione costantiniana (Ahi, Costantin..., If XIX 115-117) o in quella contro la cupidigia dei mortali (Pd XXVII 121). Talora l'invettiva si attenua in un tono esortativo, quando il poeta si rivolge alla totalità degli uomini o dei peccatori: Ahi gente che dovresti esser devota (Pg VI 91); O superbi cristian, miseri lassi (X 121); o gente umana, perché poni 'l core / là 'v 'è mestier di consorte divieto? (XIV 86-87); Siate, Cristiani, a muovervi più gravi (Pd V 73); o si complica nell'ironia: Fiorenza mia, ben puoi esser contenta / di questa digression che non ti tocca (Pg VI 127-128); Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d'Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero! (XII 70-72). Uno sviluppo particolare assume l'a. ad Alberto tedesco (Pg VI 97 ss.), dove essa introduce una maledizione e si amplia attraverso l'anafora.
L'a. è anche elemento essenziale dell'invocazione, la quale può presentarsi nella forma classica del proemio, come in Pd I 113 e 22, o come un'implorazione diretta a Dio per renderlo benevolo (Pd XXXI 28-30), o per sollecitarne la vendetta: O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta... ? (Pg XX 94-96). Quest'ultima è la " invidiosa imploratio " di cui parla Quintiliano (Inst. IX Il 38), ampliata attraverso una circonlocuzione e variata dall'interrogativa.
L'a. diviene inoltre, in un buon numero di casi, un modo per variare il discorso e renderlo più vivo trasferendolo dalla terza alla seconda persona. Lo schema, già presente nella poesia classica, appare nella sua forma più semplice in If XXV 151 (l' altr' era quel che tu, Gaville, piagni), in Pd XXII 142 (L'aspetto del tuo nato, Iperïone), e ha solo la funzione di variare una perifrasi. Altrove lo stesso schema è giustificato da una ragione affettiva, come in Pg VIII 53-54 (giudice Nin gentil, quanto mi piacque / quando ti vidi non esser tra ' rei, dove l'a. ha originariamente la funzione di indicare il nome del personaggio), o in Pd IX 1 (Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza); oppure dall'esigenza di sottolineare enfaticamente l'ammirazione del poeta, come in Pg VI 61 (o anima lombarda, / come ti stavi altera e disdegnosa... !), o il suo orgoglio (Pd XXII 112-117 O glorïose stelle, o lume pregno / di gran virtù... / con voi nasceva e s'ascondeva vosco / quelli ch'è padre d'ogne mortal vita, / quand'io senti ' di prima l'aere tosco); oppure ancora dal bisogno di variare l'enumerazione delle immagini viste scolpite sulla roccia (O Niobè, Pg XII 37; 0 Saùl, v. 40; 0 folle Aragne, v. 43; 0 Roboàm, v. 46), ma ottenendo un effetto evocativo particolarmente intenso. Un esempio di questo modo di spezzare la monotonia delle enumerazioni si ha anche in Cv IV V 16 0 sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare?
La struttura didascalica del poema dantesco è la fonte di una lunga serie di a. al lettore, per cui v. APPELLO AL LETTORE.