MERENDA, Apollonio
– Nacque a Casal di Paterno (Paterno Calabro), presso Cosenza, probabilmente nel 1498.
Giovane «di politi studi et buoni costumi» (così lo definì Girolamo Seripando ricordando il loro primo incontro, avvenuto intorno al 1540, in Amabile, p. 143), il M. arricchì la propria formazione religiosa e umanistica con la lettura di Cicerone e di Erasmo. Dal 1520 fu segretario di Pietro Bembo e corrispondente del letterato Trifone Gabriel, figura di rilievo anche per le Annotationi alla Divina Commedia; al tempo stesso avvertì il fascino di Giambattista Egnazio.
Prese gli ordini sacri nel 1522 e soggiornò ripetutamente a villa Bozza di Curtarolo, residenza di Bembo nel Padovano, dove si raccoglieva una società di intellettuali attorno a Bembo e a Giangiorgio Trissino in anni in cui era imminente l’ascesa al dogado di Andrea Gritti (1523), amico di Bembo e patrocinatore di una Academia artium a Venezia, nonché – da doge – promotore di una riforma dell’ateneo patavino.
La lettera che Gabriel inviò al M. il 1° sett. 1523 è rivelatrice di questa atmosfera e della preparazione letteraria e poetica del Merenda. Gabriel lo invita agli studi anche se il progredire della peste incute timore e afferma, con evidente riferimento a Virgilio e a Erasmo: «Diis pietas tua et musae cordi est» (Pertile, p. 40). Nella lettera emerge l’universo di intellettuali che ruotava attorno a Bembo e al M., comprendente figure come Battista da Marostica e Battista da Porto. Nel corso del 1524 nella cerchia frequentata dal M. si discusse a favore di Romolo Amaseo per un lettorato all’Università di Padova, maturato in settembre con la nomina del Senato veneziano e mentre erano in corso trattative per un suo trasferimento all’ateneo bolognese. Contemporaneamente risultano anche rapporti intrattenuti dal M. con la corte di Isabella d’Este e con Vittore Soranzo.
In questo ambiente intellettuale, ciceroniano prima del Ciceronianus di Erasmo (1527), il M. perfezionò la preparazione a segretario di accademie e di prelati.
Il 28 genn. 1525 Gabriel gli scrisse: «Quanto studio habbiate posto intorno alle cose di Cicerone, le […] mandate epistole apertamente dimostrano, Merenda car.mo. Di che quel piacer ne prendo, che al molto amor che vi porto si richiede, istimando queste ricchezze a nulla altre seconde, per il mezzo de’ quali divenirete non solamente al S.or vostro et agli amici, ma a voi stesso di giorno in giorno più caro. Perge modo, et qua te ducit via dirige gressum» (Pertile, p. 42). La lettura di Cicerone invitava a coltivare un nuovo modello di amicizia, e nella discussione sull’argomento erano coinvolti anche Giulio Avogaro, intimo di Soranzo, e Bembo, con i quali la riflessione si allargava all’idea di humanitas. E attraverso Bembo il M. riannodò i contatti con Pietro Martire Vermigli, marito della nipote Caterina Merenda.
Il M. era in procinto di lasciare la villa di Bembo per tornare al suo paese natale. In realtà il 15 sett. 1529 passò al seguito di Soranzo e si spostò da Padova a Venezia, dove incontrò Antonio Telesio che, dal 17 ott. 1527, leggeva «in humanità» ai «secretari» per ordine del Consiglio dei dieci (M. Sanuto, I diarii, XVI, Venezia 1886, col. 215). Verso la metà di ottobre Telesio e il M. si imbarcarono per Napoli. Il viaggio è raccontato in una lettera che Telesio inviò da Cosenza il 25 nov. 1529 a Benedetto Ramberti (Carmina, pp. 40-45).
Dal 1530 il M. fu segretario di Fabio Arcella, vescovo di Bisignano, presso Cosenza, e nunzio pontificio ordinario nel Regno di Napoli.
Dal 1531 viaggiò fra Roma e Bologna tenendosi sempre in contatto con esponenti della cerchia di Bembo: Flaminio Tomarozzo, Flavio Gualteruzzi e Soranzo, quest’ultimo presente a Roma nel febbraio 1532, in casa del quale il M. si trovava all’inizio del dicembre 1534 insieme con «m. Giovanni amendui et il Molza et il Soranzo et Gandolgho» e Bernardo Tasso (lettera di Gualtieruzzi a L. Beccadelli, Oxford, Bodleian Library, Ital., C.24, c. 2v). Nella lettera il M. aggiungeva un «poscritto» con la preghiera di raccomandarlo al vescovo di Fano, Cosimo Gheri, di cui Beccadelli era segretario. Nel marzo 1535 consegnò a Bembo alcuni marmi antichi: un Cupido e due satiri, acquistati a Napoli. Anche la scultura, che aveva studiato al tempo dell’Accademia di Bembo, rientrava dunque nella sensibilità culturale del Merenda.
Dal 1536 si mosse fra Roma e Napoli, dove partecipò alla vita culturale di umanisti come Giano Anisio, che nel 1536 gli dedicò alcuni versi (in Variorum poematum libri duo, Neapoli 1536, c. 85v) e attraverso il quale incontrò di nuovo Vermigli, nel 1537. Nel frattempo entrò in contatto con Juan de Valdés, anch’egli introdotto nel milieu umanistico napoletano dal 1534.
Il gruppo ben presto si allargò a comprendere Giulia Gonzaga, Gian Francesco Alois, Mario Galeota, quindi Marcantonio Flaminio, Bernardino Ochino, Pietro Carnesecchi, coltivando, fino agli inizi degli anni Quaranta, la ricerca della «illuminazione» e «interiorità religiosa». All’interno di questo circolo, che si espandeva da Napoli a Viterbo, si distinse la figura di Galeota, il quale aveva collocato il Beneficio di Cristo e la Semplice dichiaratione sopra gli dodici articoli della fede christiana di Vermigli (Basilea 1544) nella sua biblioteca ideale, pur indirizzando le sue riflessioni verso esiti calvinisti. Il M. fece proprie queste esperienze religiose, anche lui alla ricerca di un’ideale biblioteca entro cui collocare la propria «illuminazione».
Negli anni 1536-44 il M. maturò la svolta della propria sensibilità religiosa. Il 7 febbr. 1538 era nuovamente a Roma, al servizio di Fabio Arcella.
Nel giugno 1539 scrisse da Napoli a Bembo, elevato al cardinalato, chiedendo di restare nel numero dei suoi «antichi servi» e sperando di raggiungerlo a Roma per «farle la debita riverenza» (Bembo, pp. 328 s.). Con questa lettera il M. definì un intero periodo della sua vita dedicata alla «servitù» verso Bembo e la sua piccola corte e perfezionò quel nuovo processo di «illuminazione» interiore che lo aveva portato verso il gruppo valdesiano e di Vermigli. L’uomo «antico» ora combatte insieme con l’«illuminato» nella convinzione che «temerità e follia si sono fuse» (ibid.).
Nel 1540 effettuò per conto di Arcella la visita pastorale nella diocesi di Bisignano insieme con il vicario del vescovo, il gesuita Nicola Alfonso de Bobadilla, il quale raccontò che il M. si era confessato e comunicato pubblicamente ogni domenica fino a diventare per la città un esempio (sebbene poi lo stesso M. desse una versione in parte differente del proprio comportamento, cfr. Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, VI, p. 273). Il M. rimase al servizio di Arcella certamente fino al 1541.
In tre lettere di Giovanni Guidiccioni a Paolo III, rispettivamente del 6, 23, 24 maggio 1541, risulta essere a Frosinone mentre l’esercito papale combatteva contro i Colonna. Qui frequentò amici e precettori di casa Bembo come Iacopo Bonfadio, che visse a Roma e Napoli dal 1537 al 1540, e Bernardino Danieletto. Seguì contemporaneamente Giulia Gonzaga a Fondi, dove ebbe modo di frequentare Francesco Maria Molza e il segretario della nobildonna Gandolfo Porrino, che aveva trascritto uno dei quattro codici delle annotazioni di Gabriel sulla Divina Commedia.
Nel 1541, grazie ai buoni uffici di Soranzo e di Bembo, si pose al servizio del cardinale Reginald Pole, di cui divenne cappellano a Viterbo; in estate, scomparso Valdés, verso il cardinale confluirono il gruppo di Carnesecchi, di Alvise Priuli e di Avogaro. Nel novembre dello stesso anno fu il tramite dell’invio di una lettera di Giulia Gonzaga (e non Vittoria Colonna) a Flaminio, che in seguito gli consegnò le sue Meditationi et orationi formate sopra l’epistola di s. Paulo ad Romanos da recapitare alla Gonzaga.
Prese parte così alle discussioni che, prima a Napoli poi, nel 1541-42, a Viterbo, i gruppi valdesiani dedicarono alla «giustificatione per fede» e assistette alle lezioni sul Vangelo di Matteo che Flaminio tenne davanti a Pole e, tra gli altri, a Seripando, ormai entrato fra le amicizie del M. attraverso il protonotario Augusto Cocciano. Le discussioni avvenivano sulla base del Beneficio di Cristo e si affermava «che solo per lo sangue di Giesù Christo havevamo la remissione de peccati et vita eterna, et non per le opere nostre» (Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, VI, p. 267). La biblioteca del M. conferma il tema e l’orientamento delle discussioni: sono presenti le opere di Martin Lutero, Martin Butzer e Calvino, e inoltre di Valdés, l’Alfabeto cristiano e le Cento e dieci divine considerazioni, oltre alle Dimande e risposte e al Commento ai Salmi.
In tempo breve, dunque, il M. si appropriò di un diverso «abito» religioso, quello degli eretici che gradatamente rifiutarono i sacramenti, ora zwingliani, ora collegati con il calvinismo di Ginevra. Nel Compendium del processo a G. Morone viene descritto come «Apollonius Merenda sub nomine Calabri […]. Capellanus Poli per multos annos, pernitiosus in provincia Calabri […]. Haereticus et contra sacramenta: in confessione Moroni» (ibid., I, p. 180). Le deposizioni rese dal M. durante il processo subito a Roma nel 1551 esprimono come il mondo «valdesiano» fosse percorso da una molteplicità di correnti religiose nell’ambito delle quali egli si pose in una prospettiva più vicina a Vermigli e a Galeota.
I viaggi con Pole arricchirono l’esperienza religiosa del M.; dopo la missione a Trento nel 1543, dove ascoltò le prediche dell’agostiniano Andrea Ghetti da Volterra, fu a Modena in casa di Bartolomea Della Porta dove Pole parlò della «giustificatione della fede sola» (ibid., I, p. 243). Inoltre, secondo le testimonianze rese nel processo Morone (ibid., II, pp. 157-160), durante un viaggio da Roma a Napoli fu invitato da un sedicente valdesiano, ma in realtà una spia, a leggere la Dottrina antica e nuova, un libretto a stampa.
Dopo la missione a Trento il M. fu a Viterbo fino alla primavera del 1543, quindi tornò in Calabria per provvedere al sostentamento di alcuni familiari.
Da Amantea, il 31 genn. 1545, scrisse una lunga lettera per declinare l’invito a incontrare Priuli a Venezia e nella quale sottolineava i «tanti travagli, et tormenti che ho avuto et ho in Calabria» e che il viaggio a Venezia avrebbe convertito «in dolcezza ogni amaritudine», affermava di sostenere la sorella e la nipote con il marito e i figli e aggiungeva: «Et in vero di gran consolatione mi è stata questa stanza di Natale in qua, sopra il mare, dove non ho sentito anchor freddo, né mi sono mai accostato al fuoco: et nella inquietudine di questo mare, et nelli scogli dentro et fuor di esso, mi si rappresentano vari stati d’huomini, et la poca saldezza della mia fede, et così mi dà più causa di ricorrere al Signore, che esso stabilisca, che solo può farlo». Continuava le letture, «ma il mio troppo vivace Adamo non vuole in nessun modo morire, et si difende in modo, che mi travaglia più che non vorrei» (Pertile, pp. 25 s.).
Il M. era dunque ancora alla ricerca di una forma di humanitas della fede religiosa fra il dilagare degli «stati» degli uomini e la ricchezza e fluidità dei comportamenti religiosi. Anche se il mondo valdesiano lo attraeva, si apriva la nuova fase della sua vita. Attorno al 1548, dopo i moti popolari avvenuti a Napoli contro l’Inquisizione di Spagna, il S. Uffizio romano si indirizzò contro il gruppo valdesiano e contro il M.; egli abbandonò Napoli e si diresse verso Mantova e Verona alla ricerca dell’antico gruppo di casa Bembo. Lo affascinava la ricerca religiosa verso la «giustificazione» per la sola fede, proprio lui che fra i valdesiani era ritenuto «carnale» per gli amori perseguiti, e non «spirituale» (Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, VI, p. 269 n. 270).
Al suo ritorno a Napoli, nella primavera del 1551, fu arrestato dall’Inquisizione e tradotto in carcere a Roma per essere interrogato: come riferisce durante il suo processo veneziano Giulio Basalù, a denunciarlo era stato Ranieri Gualano, prima valdesiano e poi informatore dell’Inquisizione, con cui il M. era entrato in contatto al tempo del soggiorno calabrese. L’arresto fu clamoroso: la Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri (seconda edizione del 1551) menziona il M. imputato come «luterano» (cit. in De Frede, p. 198). Un altro accusatore fu il barone Consalvo Ferrante de Bernaudo, proveniente da Cosenza, il quale dichiarò che il M. in un soggiorno a Roma prima del 1551 aveva espresso «alcuni dubii in materia della messa» (Arch. di Stato di Venezia, S. Uffizio, Processi, b. 13, c. 36r). Anche Soranzo fu imprigionato e i costituti rilasciati da entrambi tra la fine del 1551 e l’inizio del 1552 richiamano l’amicizia con Carnesecchi, Giulia Gonzaga, il principe di Salerno Ferrante Sanseverino, le letture del Beneficio di Cristo, la corrispondenza con Donato Rullo. Il processo terminò nel marzo 1552 e il 19 del mese Cocciano ne scrisse a Seripando: «Messer Apollonio dicono sarà bello, incrocicchiato con quella patienza gialla et croce rossa» (Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I, p. 242).
Il M. fece parte del gruppo dei «riconciliati», tuttavia il 21 marzo 1553 vestì l’abitello con le croci nell’autodafè che si tenne a Roma. In dicembre venne reso libero dal carcere domiciliare di Roma ed esentato dall’obbligo di portare l’abitello.
Nel maggio 1555, in concomitanza con l’elezione di Paolo IV e a causa anche delle ristrettezze economiche in cui versava, il M. si diresse verso Padova e Venezia con il desiderio di raggiungere Ginevra. Forse voleva seguire gli esempi di Isabella Bresegna o del marchese di Vico Galeazzo Caracciolo, ma le memorie più profonde erano rivolte a Vermigli e a Galeota. A Venezia rivide Carnesecchi, al quale raccontò le vicende della prigionia, quindi divenne precettore a Padova di una gentildonna di casa Bollani e a Venezia di Giovanbattista Contarini. Il M. fu ricordato nel 1568 da Endimio Calandra, prete mantovano, quando, nel frequentare la casa di Carnesecchi con Pietro Gelido e Guido Giannetti, si leggevano le Historiae di Giovanni Sleidano (Johann Philippi). Al tempo stesso attraverso i Bollani il M. entrò in contatto con i mercanti lucchesi eterodossi e i vicentini Pellizzari, in particolare con Niccolò, penetrando nell’area del calvinismo di Ginevra, che divenne la sua destinazione.
Da Samedan (in Alta Engadina), nella primavera del 1557 Federico von Salis lo raccomandò a Heinrich Bullinger. Il 14 ott. 1557, dopo avere prestato giuramento, ottenne la cittadinanza ed entrò nella «sainte Réformation évangelique» della Repubblica di Ginevra. Qui, probabilmente dal 1558, divenne precettore nella casa della vedova di Francesco Micheli (che a Lucca aveva ricoperto la carica di gonfaloniere prima di rifugiarsi a Ginevra), Isabetta (Zabetta) Balbani, sorella di Niccolò, il quale diresse la Chiesa italiana a Ginevra dal 1561.
A Ginevra la presenza del M. è attestata oltre il 1566 (anno della testimonianza di Carnesecchi), dato che nel 1567 è lì documentato il suo incontro con un altro valdesiano rifugiato, Cesare Carduino. Aveva partecipato alla propaganda calvinista nella penisola (nel 1560 era stato brevemente a Venezia), e non sono solo «fantasticherie» – come le qualifica Bernini (IV, p. 495) – le sue attività come la diffusione dell’opera di Calvino – anche prima della sua fuga a Ginevra –, a Otranto, Bari e in Calabria; la pubblicazione e diffusione delle Istituzioni di Calvino in Calabria, Mantova, Verona, Trento; la propaganda dell’opera di Calvino a San Sisto, nella baronia di Castelluccio e a la Guardia; la pubblicazione a Mantova e Verona del Beneficio di Cristo.
Le informazioni sicure sul M., comunque, si fermano al 1567 e non si conoscono né la data né il luogo di morte.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Parma, Epistolario scelto, sub nomen; Oxford, Bodleian Library, Ital., C.25, cc. 271r-272v; Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede, Stanza storica, Decreta, I, cc. 5-6, 59r, 60v, 63v, 64, 65r; P. Manuzio, Lettere volgari di diversi nobilissimi uomini, Vinegia 1544-45, c. 76; M.A. Sarno, Frutto della Inquisizione, Venezia 1588; A. Telesio, Carmina et epistulae quae ab editione Neapolitana exulant, Neapoli 1808, pp. 40-45; P. Bembo, Lettere…, VII, Milano 1810, pp. 328 s.; C. Corvisieri, Compendio dei processi del S. Uffizio di Roma…, in Arch. della Società romana di storia patria, III (1880), pp. 268 s.; B. Fontana, Documenti vaticani contro l’eresia luterana in Italia, ibid., XV (1892), p. 415; Opuscoli e lettere di riformatori italiani del Cinquecento, I, a cura di G. Paladino, Bari 1913, pp. 113 s.; N.A. de Bobadilla, Gesta et scripta…, Matriti 1913, pp. 27 s.; Livre des habitants de Genève, I, a cura di P.F. Geisendorf, Genève 1957, pp. 93 s.; H. Bullinger, Korrespondenz mit den Graubündnern, a cura di T. Schiess, II, Nieuwkoop 1968, pp. 5-7; G. Guidiccioni, Le lettere, a cura di M.T. Graziosi, II, Roma 1979, pp. 354, 363 s.; Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I, Roma 1981, pp. 180, 220, 241; II, ibid. 1984, pp. 494, 542 s.; VI, ibid. 1995, pp. 266-279; L. Pertile, A. M., segretario del Bembo, e ventidue lettere di Trifone Gabriele, in Studi e problemi di critica testuale, 1987, vol. 34, pp. 9-48; I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567)…, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, I, I processi sotto Paolo IV e Pio V (1557-1561), Città del Vaticano 1998, pp. 59-63, 96 s., 116-119, 142 s.; II, 1, Il processo sotto Pio V (1566-1567), ibid. 2000, pp. 23-31, 58-65, 169-171; II, 2, ad ind.; I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo 1550-1558, a cura di M. Firpo - S. Pagano, Città del Vaticano 2004, ad ind.; D. Bernini, Istoria di tutte l’eresie, IV, Venezia 1745, pp. 495 s.; S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini, Napoli 1750, p. 75; C. Cantù, Gli eretici d’Italia, III, Torino 1865, p. 29; S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari, I, Roma 1890, pp. 63, 470; L. Amabile, Il S. Officio della Inquisizione in Napoli, I, Città di Castello 1892, p. 142; A. Ferrajoli, Il ruolo della corte di LeoneX, in Arch. della Società romana di storia patria, XXXVII (1914), pp. 454 s.; T.R. Castiglione, Il rifugio calabrese a Ginevra nel XVI secolo, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, VI (1936), p. 195; H. Jedin, Girolamo Seripando, I, Würzburg 1937, p. 469; Fontes narrativi de s. Ignazio de Loyola et de Societatis Iesu initiis, I, Roma 1943, pp. 227 s.; I. Paschini, Tre ricerche sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 106-197; D. Zangari, Fra eretici e riformatori in Calabria nel secolo XVI: A. M., in Calabria nobilissima, VII (1953), pp. 41 s.; O. Ortolani, Per la storia della vita religiosa italiana nel Cinquecento: Pietro Carnesecchi, Firenze 1963, pp. 83 s.; M. Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, pp. 436-438, 443 s.; A. Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo, Padova 1969, p. 251; Id., Utopie e velleità insurrezionali dei filoprotestanti italiani (1545-1547), in Bibliothèque d’humanisme et Renaissance, XVII (1965), p. 142 n. 4; M. Firpo, Pietro Bizzarri esule italiano del Cinquecento, Torino 1971, pp. 222 s.; C. De Frede, Un calabrese del Cinquecento emigrato a Ginevra (A. M.), in Arch. storico per le province napoletane, LXXXIX (1972), pp. 193-203; P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col S. Uffizio, Napoli 1976, pp. 138 s.; S. Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi nel Cinquecento modenese, Milano 1979, pp. 240-244; G. Moro, A proposito di antologie epistolari cinquecentesche…, in Studi e problemi di critica testuale, 1989, vol. 38, pp. 71-107; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino 1997, pp. 282, 412; P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i valdesi di Calabria (1554-1703), Napoli 1999, p. 18; A. Borromeo, Il dissenso religioso tra il clero italiano e la prima attività del S. Uffizio romano, in Per il Cinquecento religioso italiano: clero, cultura, società. Atti del Convegno internazionale di studi, Siena… 2001, a cura di M. Sangalli, Roma 2003, II, pp. 465-485; Pietro Martire Vermigli (1499-1562). Umanista, riformatore, pastore. Atti del Convegno… Padova… 1999, a cura di A. Olivieri - P. Bolognesi, Roma 2003, pp. 177-187, 389; M. Firpo, Vettore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006, pp. 26-29, 89 s.
A. Olivieri