APOLLINARE ('Απολλινάριος, Apollinaris) di laodicea
È il nome di due personaggi del sec. IV, padre e figlio, il secondo dei quali ha particolare importanza nella storia del pensiero cristiano.
Ma nemmeno Apollinare il Vecchio è insignificante. Nativo di Alessandria, si stabilì, esercitandovi l'insegnamento come "grammatico", in Siria, prima a Berito, poi sulla costa, a Laodicea. Qui prese moglie, ebbe un figlio, si fece cristiano, e fu ordinato sacerdote. Non smise però la professione, e l'amore per le lettere classiche lo spinse anzi a condurre il figlio, già lettore della chiesa, alle declamazioni del retore Epifanio, dove fu recitato una volta un inno in onore di Bacco. Il vescovo Teodoto privò per questo della comunione i due Apollinari: essi erano difensori dell'ortodossia nicena, il vescovo, invece, ariano. (Poiché Teodoto morì nel 325 e Apollinare il giovine non doveva essere più un ragazzo, l'episodio permette di stabilire la nascita di lui intorno al 305). Il problema, così grave per tutti i pensatori cristiani del tempo, dei rapporti tra la cultura classica e la religione del Cristo, dovette occuparli ben presto: giacché è impossibile che scrivessero in un solo anno, o poco più, tutte le opere pubblicate da loro, quando il celebre editto di Giuliano l'Apostata (362) escluse i cristiani dall'insegnamento pubblico della retorica. Mentre Mario Vittorino, in Roma, rinunciava alla cattedra, gli Apollinari tentarono di ovviare a grave colpo, che minacciava di escludere per sempre i cristiani dal patrimonio della cultura, scrivendo per loro conto una serie di opere d'ispirazione cristiana, ma arieggianti i modelli classici: un poema in ventiquattro libri sui Giudici fino alla morte di Saul, tragedie e commedie sul fare di Euripide (ma il Cristo sofferente, Χριστὸς πάσχων, attribuitogli dal Dräseke, è in realtà molto più tardo) e di Menandro, liriche pindariche, rifacimenti dei Vangeli in dialoghi platonici. Il tentativo, benché letterariamente cosa morta (e non ci sarebbe stato probabilmente neppur bisogno della revoca dell'editto dopo la morte di Giuliano), non è privo d'interesse dal punto di vista della storia della cultura.
Quando S. Atanasio, alla morte dell'intruso Gregorio (346), poté ritornare alla sua sede di Alessandria, si fermò a Laodicea, ospite degli Apollinari, che il vescovo Giorgio, ariano, scomunicò. Non è improbabile che il figlio si mettesse allora a capo del gruppo ortodosso, del quale divenne vescovo, pur continuando a insegnare in Antiochia. Di quest'epoca sono probabilmente i suoi commenti biblici (dei Salmi, di Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Osea, dei Proverbî, di S. Matteo e di S. Giovanni, delle epistole ai Romani, ai Galati e agli Efesini), l'opera in trenta libri contro Porfirio, gli scritti teologici contro Origene, contro Marcello, contro Eunomio, oltre ad un'apologia contro Giuliano (che il Dräseke ha creduto di ritrovare nel Discorso parenetico ai Greci, λόγος παραινετικὸς πρὸς "Ελληνας, attribuito a Giustino martire). Ad ogni modo, Apollinare doveva aver già acquistato fama di teologo valente, se S. Girolamo, nel 374-75, segui le sue lezioni (epist. 84; cfr. Cavallera, Saint Jérôme, I, Lovanio e Parigi 1922, p. 56). S. Basilio, soprattutto, si rivolse ad Apollinare per avere da lui spiegazioni sul termine "consustanziale (ὁμοούσιος), usato nel simbolo di Nicea ma che, per non essere scritturale e in quanto adoperato da Paolo di Samosata, era esposto alle critiche degli ariani: Basilio stesso preferiva la frase "immutabilmente simile" (ἀπαραλλάκτως ὅμοιος) che risaliva a Luciano d'Antiochia e si trova in formule arianeggianti. Vi fu a tale proposito tra loro una corrispondenza (S. Basilio, epist. 361-364) che alcuni critici ritengono spuria, in base a dichiarazioni tardive di S. Basilio. Questi infatti stava per rompere con il suo vecchio maestro Eustazio di Sebaste, il quale gli rimproverò i suoi antichi rapporti con l'eretico, accusandolo di sabellianismo, in base ad un frammento di Apollinare, falsamente ascritto, in un'altra lettera senza dubbio spuria, a S. Basilio medesimo (questa fu pubblicata da L. Sebastiani, Epistola ad Apollinarem Laodicenum ecc., Roma 1769; anche in Loofs, Eustathius von Sebastia, p. 72). Ma non vi sono ragioni di non ritenere autentiche le altre lettere ed è comprensibile che il santo, allora anche ammalato, e dopo la dolorosa esperienza dei suoi rapporti con Eustazio, cercasse di diminuire l'importanza di quelli con Apollinare: dalle accuse poteva essere compromessa tutta la sua opera a favore dell'unità ecclesiastica. Ciò non toglie ch'egli non considerasse Apollinare come ortodosso in un'epoca precedente, e quando questi non aveva ancora manifestato le sue opinioni particolari.
Ma verso quest'epoca, egli deve avere cominciato ad esternarle. Come andassero esattamente le cose, è difficile stabilire; ma sullo svolgersi successivo degli avvenimenti ebbe grande influenza l'attività di un certo Vitale, che, fino allora, nello scisma che tormentava la chiesa antiochena, era stato seguace di Melezio. San Basilio insisteva perché i vescovi occidentali, con papa Damaso alla testa, riconoscessero questo; invece essi preferivano l'altro dei due vescovi rivali, Paolino, per il quale aveva manifestato la sua simpatia anche S. Atanasio. Dello stesso sentimento era il fratello e successore di lui, Pietro che, cacciato dall'imperatore Valente il quale aveva ripreso la politica filoariana di Costanzo, si trovava a Roma. Altri vescovi egiziani erano in esilio a Diocesarea, nella Galilea, e avevano già respinto le profferte di Apollinare, che si era valso dell'antica amicizia tra lui e Atanasio. Vitale, staccatosi da Melezio per aderire alle idee di Apollinare sull'Incarnazione, aveva accusato Paolino di sabellianismo, ed era stato accusato a sua volta di errori teologici. Il sinodo romano scrisse a Paolino per mezzo di Vitale, cercando la pacificazione; ma papa Damaso, meglio informato, sospese il suo giudizio. San Basilio intervenne e mentre Vitale organizzava in Antiochia la piccola chiesa dissidente, domandò che si prendessero provvedimenti contro Eustazio di Sebaste, Apollinare e Paolino d'Antiochia. Le idee di Apollinare si potevano ritenere già condannate dal concilio alessandrino del 362: anche Roma lo condannò ora, benché senza nominarlo. Ma le accuse di San Basilio riguardano piuttosto il millenarismo di Apollinare; il sinodo romano invece colpisce la sua dottrina dell'Incarnazione. E la condanna fu poi ripetuta da altri sinodi e dal concilio di Costantinopoli (381), benché in una forma ambigua, forse volutamente, per facilitare il ritorno dei dissidenti all'unità della Chiesa. Nel settembre del 383 Teodosio dichiarò illegale l'eresia e nel 388 furono prese contro di essa severe misure giuridiche, poi confermate. Apollinare morì intorno al 392. La sua scuola, e la setta, si disperse poco dopo, riassorbita dall'ortodossia, o confluendo nel monofisismo. Tra i seguaci, oltre Vitale, fu Timoteo vescovo di Berito, anch'egli più volte condannato e capo dell'ala estrema del partito, che sosteneva l'unità di natura e di sostanza (συνουσίωσις, onde il nomignolo di Sinusiasti) nel Cristo: ma senza dedurre le enormità che si potrebbero a prima vista supporre.
Il primo a segnalare gli errori di Apollinare fu S. Epifanio. Come più tardi nella controversia origenista (cfr. Cavallera, op. cit., I, pp. 202 segg.) il caparbio vescovo di Salamina, nella sua étroitesse d'esprit e con l'activité quelque peu encombrante qui était le revers de son zèle prese l'iniziativa. Conosceva la lettera di S. Atanasio a Epitteto di Corinto, e credette di scorgervi una confutazione di A., attribuendo per conseguenza a lui una serie di errori altrui, oltre che le dottrine di Vitale (Panarion, haer. 77). Seguirono poi S. Basilio, S. Gregorio di Nazianzo, S. Gregorio di Nissa, Teodoreto.
Non è facile definire la teologia di Apollinare, per due ordini di ragioni. Anzitutto, non ne conosciamo bene le opere; e dobbiamo ricostruire il suo pensiero attraverso citazioni di avversarî, e scritti che vanno sotto altri nomi, soltanto alcuni dei quali si possono attribuire con sicurezza ad Apollinare In secondo luogo, egli è stato vittima dell'ambiguità del linguaggio e del pensiero teologico del suo tempo, che ha pur contribuito a chiarire; vittima di quello stesso sforzo del pensiero cristiano, di trovare una posizione di equilibrio tra esigenze diverse e in contrasto, soprattutto per chi era stato educato nelle tradizioni speculative dell'ellenismo. Quando egli incominciò a diffondere le sue idee cristologiche, lo sviluppo della controversia ariana aveva già condotto a far riconoscere le due necessità, ugualmente vitali, di affermare cioè la completa divinità e la completa umanità del Cristo; con ciò, si riconosceva anche, implicitamente, la necessità di affermare la loro unione; ma in che cosa consistesse, quali fossero i rapporti tra le due nature, anzi, che cosa significassero precisamente "natura" e "persona", ancora non appariva molto chiaro. La controversia cristologica appare, dunque, lo svolgimento logico e lo sbocco naturale e necessario di quella sollevata dall'arianesimo. Nei primi tre secoli adozionismo, monarchianesimo, docetismo, sono tutte correnti ereticali che devono risolvere lo stesso problema, ma impostato in una maniera diversa (come conciliare il monoteismo con l'affermazione della divinità del Cristo) e sono quindi eresie tanto trinitarie quanto cristologiche. Con il quarto secolo, divenuto il cristianesimo religione di stato, e abbassatosi alquanto con le numerose conversioni il livello morale e il fervore religioso della massa dei fedeli, il problema rimane il medesimo. Espresso in termini speculativi, esso è quello dei rapporti tra immanenza e trascendenza, fra il mondo transeunte e l'Assoluto, Dio. Se al filosofo puro il tentativo di conciliare e ravvicinare questi termini, senza negarne uno, o riassorbirlo nell'altro, può apparire vano (ma tale non pareva ai pensatori dell'epoca, ad un Plotino o a un Porfirio), esso è un bisogno vitale per il sentimento religioso cristiano, che consiste tutto, si può dire, nell'aspettativa dell'instaurazione d'un mondo di valori assoluti (il "Regno di Dio", il "secolo venturo"), condizionata a sua volta da un fatto centrale, la Redenzione operata dal Cristo. Per poter elevare l'umanità a Dio, e per poter accogliere in sé tutti i peccati degli uomini, questi dev'essere, a un tempo, Dio e uomo. Ma se tra le due nature, l'umana e la divina, v'è antitesi (ché altrimenti la differenza è solo di grado, l'umanità cessa di essere peccatrice per natura, non ha dunque più bisogno di redenzione, ed uno dei termini del binomio è annullato): qual'è il rapporto che si stabilisce tra di esse, nell'unica persona del Cristo?
L'eresia di Apollinare si può tutta riassumere in una frase: nel Cristo, il Verbo divino ha preso il posto dell'anima umana, o, meglio, della parte superiore dell'anima. È ovvio che in questo modo non si risolveva la difficoltà, perché ciò equivale a negare al Cristo un'umanità perfetta. Ma per Apollinare, "natura" (ϕύσις) significa la stessa cosa che "persona"; parlare di "due nature" è lo stesso che parlare di "due persone". Nello stesso tempo egli teme la posizione ariana che, attribuendo al Logos la possibilità di un mutamento, gli attribuiva anche una libertà di scelta fra bene e male, per cui l'Incarnazione diveniva effetto della libera volontà di un essere finito, non dissimile, quanto a natura, dagli altri uomini. Cristo non può dunque essere un profeta, semplicemente ispirato da Dio; né in lui la divinità si può essere semplicemente sovrapposta agli elementi che costituiscono l'uomo, ché in tal caso egli non è una sola persona, ma due. Ora, per Apollinare il Logos divino è l'archetipo, il modello ideale della parte superiore dell'anima. In tutti gli uomini, pertanto, esiste un elemento divino: quando però è il Logos stesso che si incarna, si può parlare altrettanto esattamente nei suoi riguardi, di perfetta umanità, quanto di divinità.
La dottrina di Apollinare presuppone così quella tricotomia dell'uomo in "corpo, anima, anima razionale (νοῦς)" o in "corpo, anima, spirito (πνεῦμα)" che si può far risalire alla tradizione del pensiero ellenico, o a quella della Sacra Scrittura. Ed è questo un punto che ha formato, fin dall'antichità, e forma tuttora, tra gli storici del pensiero cristiano, oggetto di discussione. Ma probabilmente non è lecito ricongiungere Apollinare in maniera diretta ed esclusiva a nessuna delle due correnti: egli sembra dipendere invece dalla fusione delle due tradizioni, ch'era stata già tentata da Filone alessandrino e da Origene. In quest'ultimo, in particolare, bisogna cercare i presupposti delle teorie di Apollinare. Il quale, preoccupato di affermare l'impeccabilità del Redentore, non può quindi accordargli un νοῦς (o un πνεῦμα) umano, soggetto al peccato, e afferma pertanto che il posto di questo elemento dell'uomo è stato preso dal Verbo divino. Questo bisogno d'interpretare realisticamente l'Incarnazione costituisce il pathos della sua posizione, in quanto, nello stesso tempo, scolaro di Origene e suo avversario. Bisognava spiegare come, secondo il Vangelo (Luca, II, 52) il Cristo avesse progredito in sapienza e in statura, e come egli avesse realmente sofferto.
Gli soccorreva a questo proposito il testo classico di S. Paolo (Filippesi, II, 5 segg.) con la teoria della kénosis ("svuotamento": il Cristo "svuotò sé stesso prendendo la forma di uno schiavo": ἑαυτὸν ἑκένωσεν μορϕὴν δούλου λαβών) per cui l'Incarnazione è effetto di una libera autolimitazione di Dio. Così il Verbo incarnato è in qualche modo inferiore a sé stesso, in quanto persona della Trinità: e Apollinare può interpretare il Cristo come un termine medio tra Dio e l'uomo, non interamente Dio né interamente uomo, bensì combinazione dell'uno e dell'altro. Questo spiega altresì come il Verbo, pur nell'Incarnazione, ha potuto continuare ad essere onnipresente in tutte le cose.
Questa dipendenza da Origene, ma unita con un fortissimo senso della realtà dell'Incarnazione e della peccaminosità della natura umana, associa Apollinare ad Atanasio. Nello stesso tempo ci permette di comprendere com'egli non seguisse, nell'interpretazione delle Scritture, né il favorito metodo allegoristico, di cui Origene stesso è, nella tradizione cristiana, probabilmente il rappresentante più tipico, né quell'interpretazione realistica che contraddistingue la scuola antiochena, così vicina al pelagianismo. Ma nell'interpretare le Scritture senza violarne la lettera, egli doveva accettare anche, integralmente, i passi escatologici, che sembravano giustificare il millenarismo. Questo carattere realistico della sua escatologia lo pone di nuovo in antitesi con Origene; il millenarismo era del resto in stretta e logica connessione con la sua dottrina della salvezza. Ma, mentre Marcello d'Ancira, pur essendo millenarista, aveva, secondo quanto è lecito supporre, una concezione "economica" della Trinità, identificando la distinzione delle Persone con tre momenti della storia e del divenire cosmico, Apollinare ne combatté decisamente le idee, insistendo sul concetto che, prima e dopo l'Incarnazione, il Verbo era rimasto perfettamente uguale a sé stesso.
In questa sua posizione peculiarissima, che si potrebbe in certo modo caratterizzare come tutta negativa e polemica, volta cioè a combattere le possibili deviazioni, in tutti i sensi, da ciò che è fondamentale per l'esperienza cristiana, consiste l'importanza storica di Apollinare. Se il suo tentativo non è riuscito, malgrado il fatto che le sue opinioni, rettamente interpretate, rasentino spesso l'ortodossia, egli è in certo qual modo il simbolo vivente di quella crisi della coscienza cristiana del quarto secolo, che doveva solo più tardi trovare una soluzione definitiva nella grande sintesi agostiniana. E quello che manca ad Apollinare è appunto, oltre ad una definizione precisa dei due termini, di "natura" e di "persona", una dottrina completa della communicatio idiomatum (in lui solo adombrata), e, soprattutto, una teoria del peccato originale e della Grazia.
Bibl.: L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, II, 4ª ed., Parigi 1910, capitoli X-XII; R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, II, 3ª ed., Erlangen-Lipsia 1923, pp. 174 segg.; J. Tixeront, Histoire des dogmes, II, 4ª ed., Parigi 1912, pp. 94 segg.; Bethune-Baker, An Introduction to the Early History of Christian Doctrine, 3ª ed., Londra 1923, pp. 239 segg.; Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, II, i, Parigi 1908, pp. 21, 59-62; 220 n. 5; 222; 501 n. 1; R. O. Stählin, in W. von Christ, Geschichte der griechischen Literatur, II, ii, Monaco 1924, pp. 1444 segg. Apollinaire è stato oggetto di una serie di monografie. Segnaliamo: J. Dräseke, Apollinarios von Laodicea, sein Leben und seine Schriften, Lipsia 1892 (in Texte und Untersuchungen, ecc., VII, 3 e 4); G. Voisin, L'Apollinarisme, Lovanio 1901; H. Lietzmann, Apollinaris von Laodicea und seine Schule, Tubinga 1904. Il Dräseke e il Lietzmann si sono preoccupati, specialmente il secondo, che dà l'edizione critica dei frammenti, di fissare l'attività di Apollinare come scrittore. È congettura inedita, che si possa attribuire a lui l'omelia In sanctam Christi generationem pubblicata fra le opere di San Basilio (ed. 1722, II, p. 593) e certamente spuria (cfr. anche la dissertazione di R. Milanti, R. Università di Roma, Facoltà di filosofia e lettere, 1925). Una trattazione più completa, che inquadra Apollinare nelle controversie del suo tempo, è quella di C. E. Raven, Apollinarianism, Cambridge 1925; alle conclusioni del quale, e del Belthune-Baker, il sottoscritto in gran parte aderisce. Il Voisin sostiene il punto di vista cattolico, ma l'opera, non scevra di preconcetti, appare debole anche sotto l'aspetto critico-filologico. Inoltre: I. Flemming e H. Lietzmann, Apollinaristische Schriften, in Abhandlungen der Göttinger Gesellschaft der Wissenschaften, VII (1904); Zacharulis, in Nea Sion, VII (1908), pp. 51 segg., 249 segg., 393 segg., 843 segg.; IX (1909), pp. 96 segg., 426 segg.; R. Ganszyniec, in Byzantinische neugriechische Jahrbücher, I (1920), p. 375 segg. (sulle versioni poetiche dei Salmi); G. Furlani, in Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi, II (1921), p. 257 segg. (La dottrina trinitaria di A. di L.) e IV (1923), p. 129 segg. (I presupposti psicologici della cristologia di A. di L.) con buone osservazioni frammiste a qualche incertezza, nell'inquadratura storica; A. D'Alès, in Revue Apologétique, XLII (1926), p. 131 segg.