CALDERINI, Apollinare
Nacque a Ravenna in data non precisabile. Appartenente ad una famiglia legata da tempo ai Farnese - per il tramite del cardinal Ranuccio, vescovo di Ravenna dal 1549 al 1564 (che aveva ricompensato i servigi dei Calderini con canonicati e altre dignità ecclesiastiche) - si trasferì a Milano, dopo aver compiuto nella sua città natale studi umanistici, per vestirvi l'abito dei canonici regolari di S. Salvatore e qui pubblicò nel 1597 i Discorsi sopra la Ragione di Stato del Signor Giovanni Botero. Dedicato al duca di Parma e Piacenza Ranuccio Farnese, il lavoro del C. intendeva far opera di divulgazione e "chiarimento" del trattato del Botero comparso qualche anno prima, a Venezia nel 1589.
In questo senso, l'autore si riprometteva di pubblicare - dopo i primi ventisei "discorsi" compresi nell'opera in questione - una seconda e terza parte del lavoro, per altri settantacinque "ragionamenti" se "approvati dai dotti e reputati degni di essere letti". Progetto che non ebbe seguito, dal momento che l'opera del C. ricomparve negli stessi termini della prima stesura, salvo qualche aggiunta, anche nelle successive edizioni (a Milano e Bologna) del 1609 e (a Milano) del 1615. Dopo un proemio in cui il C. esprime la sua ammirazione per la dotnina politica del Botero, "che consolida i Principi e li lega in dolce armonia alla Chiesa e al popolo", il discorso si svolge - attraverso una serie di esemplificazioni tratte dai classici e da alcune recenti vicende politiche degli Stati italiani - sul filo e sul canovaccio tradizionale del più vieto e corrivo tacitismo. Sicché - egli osservava pur giustificandosi con un richiamo ai "buoni fini" - il principe "non deve mai fidarsi né di parentadi, né di alleanze, né di fede datagli".
Non peggiore né migliore fra i vari commentatori del Botero (anche se il trattato dello scrittore pofitico piemontese finiva inevitabilinente, attraverso questa come altre versioni dei suoi epigoni, per perdere molto del suo vigore originale e della sua vastità di interessi e di orizzonti), il C. riprende alcuni spunti boteriani sulle condizioni della popolazione, sulle finanze, sullo stato delle città, delle scienze e delle arti, senza peraltro svilupparli nell'ambito di un'analisi organica della fisionomia e dei mutamenti dello Stato moderno, ma accentra soprattutto la sua attenzione sulle forme e sui criteri del "buon reggimento" politico.
Anche sotto quest'ultimo, profilo il risultato è pur sempre quello ricorrente in altri numerosi scrittori dell'età barocca, impegnati a conciliare legge morale e prassi utilitaria. Di qui il tono predicatorio e paludato dell'opera e una massa pletorica, e abbastanza raffazzonata, di consigli e di ammaestramenti che - sotto il pretesto di giustificare la ragion di Stato in funzione del raggiungimento del bene collettivo (ma senza l'enfasi idealistica di uno Scipione Ammirato, i cui Discorsi sopra Tacito erano pur presenti al C.) - tutto riduce a gretto e mediocre cinismo e ad un reabsino stanco e disincantato, privo di vero intuito e acume politico. Delle pagine dell'opera di C. vale la pena, semmai, di ricordare quelle che lasciano trasparire il disegno più immediato dello scrittore ravennate in relazione alla situazione politica della penisola, e a quella dei Farnese in particolare, il cui governo era certo - fra gli Stati indipendenti minori - il più intimamente legato alla Spagna. Non a caso, il C. concludeva i suoi "ragionamenti" giustificando queste e altre condizioni di vassallaggio con l'interesse per "uno Stato debole" ad appoggiarsi preferibilmente ad un "principe gagliardo ma lontano".
Altro non si conosce del C., se non che fa aggregato a Milano all'Accademia degli Inquieti, e che svolse per il resto della sua vita opera attiva di dottrina e predicazione religiosa nella sua qualità di canonico lateranense. Ignota è anche la data della sua morte. D'altra parte l'opera del C. - appena ricordata dalla critica storica della seconda metà dell'Ottocento - fu tratta fugacemente dall'ombra solo per motivi municipalistici e del tutto strumentali durante il periodo fascista, quando Luigi Rava, illustrando il XXIII "discorso", volle vedere nel passo che riferiva il proposito del condottiero trecentesco Alberico da Barbiano di non accettare "nessuno nel numero dei suoi soldati che non fosse italiano, o non havesse il padre e l'avo italiano" il segno anticipatore di un sentimento patriottico e di una coscienza nazionale ("che anche nei politici del Seicento cominciava a germogliare") e nel piccolo signore romagnolo una sorta di precursore della "Milizia nazionale italiana".
Fonti e Bibl.: S. Tomai, Storia di Ravenna, Ravenna 1640, p. 175; C. Rosini, Lyceumlateranense, Cesena 1649, I, pp. 41-42; P. P. Ginanni, Mem. storico-crit. degli scrittori ravennati, Faenza 1769, II, pp. 151-153; G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici ital., Milano 1862, p. 388; F. Cavalli, La scienza polit. in Italia, II, Venezia 1991, pp. 130-131; L. Rava, La"Ragion di Stato" di A. C. e Alberico da Barbiano, in Il Comune di Ravenna, 1930, n. 3, pp. 41-47; T. Bozza, Scrittori politici ital. dal 1550al 1650, Roma 1949, p. 89.