Vedi APELLE dell'anno: 1958 - 1994
APELLE (v. vol. I, p. 456)
È superato lo scetticismo sulla possibilità di restituire l'iconografia dei dipinti del maestro. Nelle sintesi sulla personificazione dell'«Inganno» (v. apate, vol. 1, p. 456; G. G. Belloni, in LIMC, I, pp. 875-876, s.v. Apate) non viene ricordata la circostanza che essa appariva nell'allegoria della «Calunnia», secondo la descrizione di Luciano (Cal., 5), mentre è certo che il capolavoro di A. ha trovato seguito anche nelle figure di contorno. Apate ritorna infatti nella produzione del Pittore di Dario e del Pittore di Medea, cioè di ceramografi apuli contemporanei del pittore. In particolare nel cratere dei Persiani, Apate è munita di fiaccole (v. vol. I, fig. 625), così come la Calunnia agitava una face nel quadro di Apelle. Per un'idea d'insieme della scena, possiamo ricorrere al fregio su fondo nero nel triclinio della Villa Farnesina, al Museo Nazionale Romano: nel secondo scomparto della parete sinistra, vediamo una piccola folla di personaggi davanti al sovrano che sta seduto col braccio destro proteso, come interlocutore della Calunnia. Il vario atteggiarsi delle figure trascinate, sospinte, prostrate ai piedi del giudice, risente dell'invenzione di Α., come i rapidi tocchi di luce derivano dallo splendor profuso nei suoi quadri.
Un'eco della ritrattistica di A. si coglie inoltre nella ricerca d'identità sociale, psicologica, morale, che il Pittore di Dario e i suoi seguaci realizzano in un'animata serie di personaggi realistici: re, principi, messaggeri, guardie, servi, comunque ispirati alla pittura monumentale. È facile constatare che anche la struttura tripartita in senso orizzontale, adottata nel vaso di Dario e in altre ceramiche di grandi dimensioni, dipende da modelli prestigiosi, poiché si ripete con i medesimi valori simbolici nel Cammeo di Francia (v. vol. II, figg. 432-433): in basso i sudditi, al centro le personalità della corte, in alto allegorie e divinità. Archetipo comune, sia ai decoratori apuli, sia all'incisore romano, sarebbero stati i trionfi di Alessandro dipinti da Α., forse per il carro funebre del sovrano (Diod. Sic., xviii, 26-27), e che Ottaviano aveva portato da Alessandria a Roma (Plin., Nat. hist., xxxv, 93-94; v. BELLUM, POLEMOS). Collocate nel Foro di Augusto, queste tavole occupavano le grandi cornici di marmo tuttora conservate nell'aula del colosso (v. ROMA, vol. VI, p. 821 a). La forma pressoché quadrata delle specchiature trova analogia con le sponde del carro funebre di Petosiris, quale appare in un rilievo da Tuna el-Ğebel, presso Hermopolis, datato attorno al 330 a.C. Si noterà infine che tanto le scene a tre fasce sovrapposte della ceramica apula, quanto quella del cammeo alla Bibliothèque Nationale, s'inscrivono idealmente in un quadrato.
A conferma di tale ricostruzione sta la triplice distinzione del campo nell'affresco da Ercolano con Eracle e Telefo (v. ERCOLANO, vol. III, p. 404, fig. 496), che rappresenta una delle copie meglio accertate da un'opera di Α., citata da Plinio a Roma nel Tempio di Diana sull'Aventino come Hercules aversus (Plin., Nat. hist., xxxv, 94). La fascia inferiore è occupata dagli animali e dal piccolo Telefo, quella superiore dai busti di Pan e di Parthenos (o Nike), affacciati alle quinte di roccia, mentre i protagonisti, Eracle e Demetra (o personificazione di Arcadia), occupano variamente col corpo il registro inferiore e quello centrale e raggiungono col capo la zona più alta. La sapiente disposizione salva l'isocefalia dell'eroe rispetto alla divinità, pur nella diversa proporzione delle figure, e diventa occasione per esplicitare il rapporto tra gli elementi più lontani. La giovinetta alata indica dall'alto il miracolo della cerva che ha luogo nell'angolo inferiore, e un'altra diagonale allinea la testina faunesca con quella della dea continuando attraverso i drappeggi e la gamba destra della figura femminile fino all'estremo opposto del quadro, toccato dal piede di Eracle. Ogni volto, gesto, espressione, moto di membra si ripercuote in un'altra zona, ora per diretta somiglianza, ora per riflesso speculare, o per semplice accenno. E come nel disegno, così nelle note cromatiche le immagini si richiamano e si oppongono l'una all'altra, in una trama che ha pur sempre nel fondamento la struttura geometrica.
L'accostamento di una figura stante in appoggio (qui Eracle sostenuto dalla clava) a una seduta di maggiori dimensioni, si ritrova nel mosaico con Charis appoggiata alla colonna, insieme ad Akmè su di un trono di roccia, proveniente da Biblo, al Museo Nazionale di Beirut. La personificazione della «Grazia», ideale estetico di Α., appare qui vestita di chitone, come la ricorda Pausania nel dipinto dell'artista all'Odèion di Smirne (Paus., IX, 35, 6): l'ombra proiettata dalla fanciulla sul fusto di marmo risulta correttamente ridotta dalla superficie convessa: è un livello di esperienza ottica comparabile a quello manifestato nel persiano morente riflesso dallo scudo nel mosaico di Alessandro da Pompei (v. philoxenos, vol. VI, fig. 141). Per l'attribuzione ad A. dell'originale, valgono non solo le osservazioni sulla complessità dell'allegoria espressa dalle due figure femminili e dal giovane Kairos (v. AKME), ma l'assoluta analogia d'impostazione della personificazione seduta con l'Alessandro in trono della Casa dei Vettii a Pompei, impropriamente considerato Giove (v. vol. III, fig. 1135). Si tratta invece di un affresco che soddisfa pienamente le descrizioni letterarie dell'Alessandro col fulmine, eseguito da A. a Efeso nel 334, per gli straordinari riverberi della folgore sul corpo del sovrano in apoteosi, fino al dettaglio delle dita del piede che sporgono in piena luce verso lo spettatore: digiti eminere videntur et fulmen extra tabulam esse (Plin., Nat. hist., xxxv, 92; cfr. Plut., Alex., 4; Mor., 360D).
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