PALEARIO, Aonio
PALEARIO, Aonio (Antonio della Pagliara). – Nacque a Veroli nel 1503, o forse l’anno seguente, da Matteo della Pagliara e da Clara Jannarilli. Fu lui stesso ad adottare la forma latinizzata del suo nome, secondo la moda umanistica.
Il padre, originario di Salerno, era un artigiano o un commerciante di successo, mentre la madre, di condizione agiata, discendeva da una delle famiglie più in vista di Veroli.
Scarne le notizie sui suoi primi anni di vita; è certo che il giovane fu affidato a un amico del padre, il notaio Giovanni Martelli, perché ricevesse un’educazione umanistica. Grazie a Martelli, apprese non soltanto la grammatica e la poesia in volgare, ma anche il latino, e forse il greco. Probabilmente su consiglio del maestro, decise di proseguire gli studi a Roma, ove rimase dal 1520 al 1529.
La mancanza di fonti non consente di ripercorrere nel dettaglio il decennio romano, che fu certamente denso di molteplici stimoli culturali. Grazie al suo amico e concittadino Ennio Filonardi, vescovo di Veroli dal 1503, Paleario entrò in contatto con ambienti assai vivaci, quali quelli dell’Università e dell’Accademia romana. A partire dal 1523 frequentò infatti i corsi di eloquenza di Piero Valeriano, e dal 1525 le lezioni di filosofia di Ludovico Boccadiferro, allora impegnato nella disputa sull’immortalità dell’anima e schierato su posizioni opposte a quelle di Pietro Pomponazzi. Suoi maestri furono anche Pietro Alconcio, uno dei più noti traduttori cinquecenteschi di Aristotele, e Lazzaro Bonamico, anch’egli valente grecista. Tra le figure che ebbe l’opportunità di frequentare in quel periodo merita ricordare ancora il cardinale Alessandro Cesarini, presso la cui dimora Paleario svolse mansioni di bibliotecario, Cengio Frangipane, Marcello Cervini (poi papa Marcello II) e soprattutto l’amico e compagno di studi Bernardino Maffei, che lo avrebbe aiutato in occasione del primo processo per eresia del 1542.
A causa di uno screzio con il cardinale Cesarini per il presunto furto di un manoscritto, alla fine del 1529 Paleario si allontanò da Roma per recarsi a Perugia, ove rimase circa un anno ospite di Filonardi. Il 27 ottobre 1530 giunse a Siena e si legò ad alcune delle famiglie più in vista della Repubblica, come i Bellanti, gli Spannocchi e i Tolomei; si trattenne in città fino alla partenza per Padova nel marzo-aprile 1532. Dopo il soggiorno patavino – durante il quale conobbe, tra gli altri, Pietro Bembo e Benedetto Lampridio – nel 1533 rientrò a Siena per difendere Antonio Bellanti, coinvolto in un processo per violazione della legge salaria; per l’occasione compose l’orazione Pro Bellante che, oltre a dimostrare l’innocenza dell’imputato, gli guadagnò la stima e l’ammirazione di molti notabili senesi. Paleario entrò infatti al servizio di Bellanti come precettore dei figli, alla cui educazione si sarebbe dedicato sino al 1546, nonostante la morte del capofamiglia avvenuta nel 1536. In quei mesi, inoltre, frequentò le riunioni dell’Accademia senese, alle cui attività parteciparono anche alcuni protagonisti del dissenso religioso italiano, come Ludovico Castelvetro e Lattanzio Ragnoni (entrambi esuli religionis causa), e Bartolomeo Carli Piccolomini, autore della Regola utile e necessaria a ciascuna persona che cerchi di vivere come fedele e buon cristiano (Venezia 1542), opera che testimonia la precoce diffusione di manoscritti di Juan de Valdés nel territorio senese.
Durante il secondo soggiorno patavino – circoscrivibile tra la primavera del 1534 e l’11 febbraio 1536 e intervallato da brevi viaggi a Siena – Paleario si dedicò non soltanto allo studio della filosofia aristotelica, ma anche all’approfondimento degli scritti di Erasmo, di Melantone e di Lutero. Sollecitato dall’elezione di Alessandro Farnese al soglio pontificio e dalla ventilata convocazione del concilio, si rivolse direttamente a Erasmo in una lettera inedita scritta da Siena il 5 dicembre 1534.
In questo scritto l’ammirazione per le Declarationes ad censuras Lutetiae vulgatas sub nomine facultatis Parisiensis dell’umanista olandese si unisce all’aspirazione per un concilio generale in cui i teologi tedeschi, guidati da Erasmo, contribuiscano alla riforma della Chiesa.
Sensibile alle molteplici sollecitazioni dell’ambiente patavino e veneziano nonché in rapporto, tra gli altri, con Paolo Manuzio, Vincenzo Maggi, Bartolomeo Ricci, Daniele Barbaro, Marcantonio Flaminio, Alvise Priuli e, per suo tramite, con il cardinale Reginald Pole, Paleario si avvicinò alle proposte politiche e religiose del partito riformatore che, all’indomani dell’elezione di Paolo III, fu investito di nuove e delicatissime responsabilità. A Padova, tra la fine del 1534 e l’inizio del 1535, portò a termine il De animorum immortalitate Libri III (s.d., ma ante 1536; ed. priva dell’indicazione dello stampatore), un poema filosofico di ispirazione neoplatonica intriso delle letture di Erasmo, Lutero e Melantone.
Dedicata al re dei Romani Ferdinando d’Asburgo, l’opera rappresenta la prima riflessione teologica di Paleario sulla redenzione dell’umanità in virtù del sacrificio di Cristo in croce. Una copia di questo trattato, destinato a un discreto successo in Italia e Oltralpe, fu inviata da Lazzaro Bonamico, professore di retorica molto legato al cardinal Pole, al vescovo di Carpentras Iacopo Sadoleto. Entusiasta dello scritto, di cui aveva apprezzato l’eleganza e la dottrina, quest’ultimo ne patrocinò un’edizione più corretta (Lione, Sébastien Gryphe, 1536).
L’11 ottobre 1537 Paleario siglò l’atto di matrimonio con Marietta Guidotti, appartenente a una famiglia di piccoli possidenti di Colle Valdelsa, che gli avrebbe portato in dote 600 fiorini, con i quali egli acquistò una proprietà a Cecignano; dal matrimonio nacquero cinque figli, Aspasia, Sofonisba (che, presi i voti, scelse il nome di Aonilla), Lampridio, Fedro e Sofonisba.
Verso la fine del 1538 la fama di valente poeta latino gli attirò le attenzioni di alcuni personaggi vicini all’entourage di Cosimo de’ Medici, come Pier Francesco Riccio e Francesco Campana, entrambi impegnati nella segreteria ducale; grazie a quest’ultimo Paleario instaurò un’intensa amicizia con il dottissimo Piero Vettori, con il filosofo Francesco Verino e con il ricco mercante Bartolomeo Panciatichi.
Al di là degli stretti legami con questi personaggi, membri dell’Accademia fiorentina e protagonisti in varia misura di percorsi religiosi dissonanti con l’ortodossia romana, le fonti non consentono di chiarire il ruolo di Paleario all’interno del dibattito religioso e politico che animava il mondo culturale fiorentino di quegli anni.
L’influenza esercitata dall’umanista sull’élite intellettuale della Repubblica di Siena, sul finire degli anni Trenta travagliata da un gravissima crisi politica e percorsa da forti tensioni religiose, alimentate dalle omelie di Bernardino Ochino, di Agostino Museo e dal movimento pauperistico dei giovannelli, non sfuggì al teologo domenicano Vittorio da Firenze, che nella quaresima del 1540 predicò a Colle Valdelsa scagliandosi contro i seguaci dei novatori. Paleario replicò alla polemica con un’apologia inviata a Bembo, a Vettori, a Campana e a fra Vittorio; quest’episodio, apparentemente sopito, riemerse in occasione del processo per eresia del 1542. Fu raggiunto dalle accuse nel febbraio di quell’anno, mentre era ospite di Maffei a Roma e, grazie all’aiuto di Cervini, che ne informò il maestro del Sacro Palazzo Tommaso Badia, al sostegno di Bembo, di Pole, di Sadoleto e di Filonardi – «viros optimos et sanctissimos» (Epistolarum Lib. III, X, p. 526) – uscì indenne dalla vicenda. Il 12 dicembre, infatti, il tribunale ecclesiastico presieduto dall’arcivescovo di Siena Francesco Bandini Piccolomini, assolse l’imputato per insufficienza di prove.
Composta subito dopo tali avvenimenti, nel 1543 o nel 1544, l’orazione Pro se ipso costituisce una matura riflessione sia sulle proprie vicissitudini processuali, sia e soprattutto sulla libertà di coscienza e sui valori fondamentali dell’umanesimo cristiano.
In questo scritto l’elogio degli autori d’Oltralpe è accompagnato dalla condanna per le dispute teologiche e le sommosse popolari scoppiate nel mondo riformato. L’autore si scaglia inoltre contro la censura ecclesiastica e contro la prassi del neonato tribunale dell’Inquisizione, citando significativamente l’attacco al Commentarius in Pauli epistolam ad Romanos di Sadoleto, accusato di sostenere tesi erasmiane, e la convocazione a Roma di Ochino nel luglio 1542 per sospetta eterodossia. L’orazione consente di conoscere per sommi capi il contenuto dell’opera Della pienezza, satisfazione et sofficienza del sangue di Cristo, composta in volgare per ribattere alle affermazioni di stampo pelagiano di uno dei capi della setta dei giovannelli, il reatino Mariano Vettori; questo trattatello, la cui versione originale manoscritta è andata perduta, ha alimentato la confusione circa la paternità del Beneficio di Cristo, fino all’inizio del Novecento attribuito per l’appunto a Paleario.
Sollecitato dall’imminente convocazione del concilio a Trento e dalle speranze per una riconciliazione ai suoi occhi ancora possibile, Paleario indirizzò una missiva a Lutero, Melantone, Butzer e Calvino datata 20 dicembre 1544.
Addolorato per le controversie che stavano lacerando anche il mondo riformato, vi espose il progetto discusso con alcuni «fratres» (forse gli amici senesi o fiorentini) per la convocazione di un concilio «sacrum, solemne, integrum, incorruptum» (cit. in Caponetto, 1979, p. 222), i cui rappresentanti fossero liberamente eletti dal popolo dei credenti e non designati esclusivamente dai vertici curiali.
L’eco del processo del 1542 fu probabilmente all’origine della mancata assegnazione della cattedra di letteratura latina nello Studio senese, cui fece seguito il 28 luglio 1546 l’elezione a professore di lettere umane nelle scuole superiori di Lucca con uno stipendio di 200 fiorini. I nove anni trascorsi nella Repubblica lucchese, anch’essa percorsa da fermenti ereticali e tensioni politiche che ne avrebbero minato la sopravvivenza, sono avari di testimonianze. Oltre al Dialogo intitolato il Grammatico overo delle false essercitationi delle scuole (Venezia, Francesco Franceschini, 1567), composto probabilmente in questo periodo benché pubblicato durante il periodo milanese, le fonti principali per ricostruire la sua attività e il suo pensiero sono le 9 orazioni pronunciate tra il 1546 e il 1550 in occasione della consegna dei gonfaloni nei mesi di marzo e settembre.
Tali composizioni (Orationes ad Senatum, populumque lucensem, Lucca, Vincenzo Busdraghi, 1551) sono dedicate al principe di Salerno Ferrante Sanseverino, cui l’autore guardava con fiducia quale possibile futuro patrono, e risentono di suggestioni erasmiane e melantoniane nel richiamo ai principi della concordia, libertà e alla giustizia sui quali modellare la vita del cittadino e dello Stato.
Nell’estate del 1555 Paleario lasciò Lucca per ritornare a Colle Valdelsa dopo la caduta della Repubblica di Siena avvenuta il 17 aprile. La consapevolezza della fine di un’epoca, segnata dalla scomparsa degli antichi protettori, dalla fuga Oltralpe di numerosi amici lucchesi e dall’inasprirsi della repressione inquisitoriale gli suggerirono la composizione del trattato Dell’economia o vero del governo della casa.
In questo dialogo, inedito, mutilo del I libro dedicato al governo della città, Paleario rievoca con nostalgia le conversazioni tenute anni prima nella dimora senese di Bellanti sui temi della famiglia, del matrimonio e dell’educazione dei figli, discostandosi dalla tradizionale trattatistica per la giustificazione etico-religiosa data al vincolo coniugale, di derivazione erasmiana, e per l’importanza attribuita all’istruzione delle giovani donne, che la Chiesa da sempre aveva voluto mantenere in una condizione di ignoranza e inferiorità.
Le difficoltà economiche dovute all’acquisto di immobili e terreni, tra cui una casa a Colle Valdelsa, e i debiti contratti per sistemare la dimora di Cecignano, indussero Paleario a cercare un nuovo impiego. Nonostante le pressioni di Riccio perché si recasse a Ferrara, dove poteva contare su numerosi amici vicini alla corte di Renata di Francia, egli accettò infine di ricoprire la cattedra di umanità a Milano, resasi vacante nell’aprile 1555.
La nomina era stata fortemente caldeggiata da alcuni membri del Senato i quali, benché probabilmente informati sui trascorsi dell’umanista, lo avevano giudicato il candidato più idoneo per un incarico così prestigioso. Del resto, alcuni senatori, come Primo Conte e Annibale Della Croce, erano stati in passato sensibili al magistero di Erasmo e fors’anche vicini alle proposte spirituali di Paleario.
Nella capitale lombarda Paleario trovò nuovi amici e autorevoli protettori, quali il poeta Publio Francesco Spinola e il cardinale Cristoforo Madruzzo (governatore dall’inizio del 1556 al giugno 1557). Il 29 ottobre 1555 egli pronunciò l’orazione inaugurale De ratione studiorum in S. Maria della Scala che, insieme con il già ricordato dialogo Il grammatico, con alcuni carmi d’occasione e con un’esercitazione composta da due allievi, costituisce la sola testimonianza della sua attività milanese, protrattasi per 12 anni.
Grazie alla favorevole posizione geografica di Milano Paleario intensificò i rapporti con il mondo riformato, e in specie con Celio Secondo Curione suo corrispondente sin dal 1551, con Theodor Zwinger e con gli stampatori basileesi Bonifacio e Basilio Amerbach, Giovanni Oporino e Tommaso Guarino che pubblicarono diverse edizioni delle sue opere.
Il 13 gennaio 1559 il suo antico avversario fra Vittorio da Firenze, di passaggio a Milano, lo denunciò all’inquisitore; le indagini però non confermarono le accuse. Il 6 dicembre fu lo stesso umanista a presentarsi dinanzi al tribunale per chiarire quanto accaduto 20 anni prima. Il tentativo ebbe successo e il 23 febbraio 1560 l’inquisitore fra Angelo da Cremona lo assolse. Tuttavia, l’inasprirsi della repressione inquisitoriale dopo la fine del concilio di Trento (1563) e l’insediamento in diocesi di Carlo Borromeo (1565) resero più difficili i contatti e i commerci con i cantoni svizzeri. Consapevole dei rischi concreti cui andava incontro, Paleario affidò a Zwinger l’Actio in pontifices Romanos, cui lavorava sin dal 1536, accompagnata da un’accorata lettera in cui riaffermava la necessità di superare le controversie dottrinali concentrandosi sui dogmi fondamentali e ribadiva la sua fiducia per la futura unità delle Chiese nel nome del Vangelo.
L’Actio, che sarebbe stata pubblicata soltanto nel 1600 per iniziativa dell’esule locarnese Taddeo Duno, consta di 20 tesi; si apre con l’appello ai principi perché diventino i nuovi difensori della verità evangelica contro la tirannide papale. I papi e le gerarchie ecclesiastiche hanno infatti oscurato la verità del beneficio di Cristo con i precetti, innestando nei cristiani false credenze come il Purgatorio o la dottrina della transustanziazione: «Eius evangelium conversum et confusum vieti miserum in modum, beneficium sanguinis Christi velatum atque obtectum, infirmis male consultum, onus grave innumerabilium praeceptorum super humeros fidelium gentium et nationum impositum» (cit. in Caponetto, 1979, p. 149).
Nel 1567 per Paleario, ormai anziano e abbandonato dalla famiglia, trasferitasi nuovamente a Colle Valdelsa nel 1561 forse per sfuggire al clima di sospetto di cui il capofamiglia era oggetto, si aprì il secondo processo per eresia.
Il primo interrogatorio si svolse il 19 aprile 1567 di fronte all’inquisitore milanese che, per ragioni non chiare, decise di esaminare una nuova edizione della Pro se ipso per verificare se fossero stati eliminati i passi più compromettenti; di lì a poco, il 20 agosto, partì l’ingiunzione del S. Uffizio affinché si recasse a Roma per giustificarsi. Paleario riuscì a rinviare la partenza fino al 2 maggio successivo, quando arrivò un nuovo ordine di comparizione; il 16 settembre 1568 fu interrogato per la prima volta dai giudici romani. Terminata la fase inquisitoria, il 1° luglio 1569 gli inquisitori gli concessero 15 giorni per organizzare la difesa. Di fronte al rifiuto dell’imputato, il tribunale lo fece rinchiudere nel carcere di Tor di Nona e incaricò due teologi di provare a convincerlo degli errori. Il 10 aprile 1570 , convocato dai giudici per confermare quanto scritto nel memoriale che i teologi avevano consegnato loro, dichiarò di averlo scritto sotto dettatura e di non volerlo quindi riconoscere.
Il 14 giugno gli inquisitori gli ordinarono l’abiura formale; il 30 giugno venne pronunziata la sentenza definitiva. Paleario rifiutò di rinnegare la propria fede e all’alba del 3 luglio fu giustiziato.
Opere: Aonii Palearii Verulani Epistolarum Lib. IV. Eiusdem orationes XII, De animorum immortalitate Lib. III, Lyon, Sébastien Gryphe, 1552; Praefatio De ratione studiorum, Milano, Francesco e Simone Moscheni, 1555; Dialogo intitolato il Grammatico overo delle false essercitationi delle scuole, Venezia, Francesco Franceschini, 1567; Aonii Palearii Verulani Actio in pontifices Romanos et eorum asseclas, Heidelberg, ex officina Voegeliniana, s.d. (ma 1600).
Per gli scritti di Paleario compresi in raccolte antiche si rimanda alla bibliografia contenuta in E. Gallina, A. P., I, Sora, 1989. Ed. moderne: Aonii Palearii Verulani Opera, Amsterdam 1696; Dialogo intitolato Il grammatico ovvero delle false essercitazioni delle scuole, Perugia 1717, Venezia 1726; F.A. Hallbauer, Aonii Palearii Opera, Jena 1728; Atto di accusa contro i papi di Roma ed i loro seguaci formulato da A. P. da Veroli ed indirizzato all’imperatore de’ Romani, ai re, ai principi cristiani ed ai presidenti del concilio generale di Trento, trad. a cura di L. De Sanctis, Torino 1861; A. Ronchini, Due lettere inedite di A. P., in Atti e memorie delle R.R. Deputazioni di storia patria per le province modenesi e parmensi, VII (1874), pp. 335-341; A. Della Torre, Una lettera e sette poesie inedite di A. P., in La rivista cristiana, I (1899), pp. 117-132; Actio in pontifices Romanos, a cura di G. Paladino, in Opuscoli e lettere di riformatori italiani del Cinquecento, II, Bari 1927, pp. 1-68; Dell’economia overo del governo della casa, testo, introduz. e commento a cura di S. Caponetto, Firenze 1983.
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