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ANTROPOMORFISMO

di Alberto Pincherle - Enciclopedia Italiana (1929)
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ANTROPOMORFISMO (dal gr. ἄνϑρωπος "uomo" e μορϕή "forma")

Alberto Pincherle

È la tendenza (da alcuni considerata connaturale all'uomo) ad attribuire figura umana specialmente agli oggetti della credenza religiosa.

Tale tendenza incomincia a manifestarsi nelle forme elementari della religiosità, sebbene rappresenti già un certo progresso nella concezione del divino, consistente nel passaggio dalla nozione impersonale di forza magica (mana) a quella di esseri divini personali. In tale concezione si viene successivamente riflettendo la coscienza via via più chiara che l'uomo acquista della sua personalità. In una fase o in un ambiente in cui l'uomo ancora non si sente profondamente differenziato dall'animale (totemismo), egli tende a concepire gli oggetti del suo mondo religioso principalmente in forma animale, oppure ibrida, di animalità e umanità. L'animismo, sviluppando l'idea di "spirito", concorre alla formazione di una più elevata coscienza della personalità umana, e quindi - di riflesso - anche al perfezionamento della concezione antropomorfica degli esseri divini.

Dei popoli civili dell'antichità non tutti spogliarono la loro religione d'ogni traccia del primitivo teriomorfismo: presso gli Egiziani le rappresentazioni della divinità conservarono sempre una quantità di elementi animaleschi, per cui furono oggetto di derisione, da parte specialmente degli Ebrei. In altre religioni, l'antropomorfismo si sviluppò scarsamente: cosi nella romana, fatto che è in relazione anche con il più scarso sviluppo delle arti figurative.

Fortissima fu invece la tendenza all'antropomorfismo nella religione dell'antica Grecia: e raggiunse il culmine nella creazione di tipi divini ideali, opera della grande statuaria dei secoli V e IV a. C. Già nei poemi omerici troviamo un mondo di figure divine, personalità complesse e piene di vita: anche epiteti, che sembrano testimonianze di una concezione teriomorfica di certe divinità (Era βοῶπις "dal viso di mucca", Atena γλαυκῶπις "dal viso di civetta") sono usati da Omero in un senso prettamente umano. L'arte fu la grande alleata dell'antropomorfismo greco: da una parte, la poesia epica e lirica con la sua libera elaborazione del materiale mitico, con i tentativi di fissare anche la genealogia, le attribuzioni, il carattere degli dei; dall'altra, l'arte figurativa, e soprattutto la plastica, che fissò i tipi iconografici. E invano i pensatori del sec. VI, Empedocle, Eraclito, Senofane, combatterono aspramente l'antropomorfismo della religione popolare; invano, ad opera dei loro successori, si predicò lo scetticismo, o l'interpretazione allegorica dei miti, oppure si cercò di diffondere una più elevata concezione della divinità: l'antropomorfismo rimase una caratteristica della religione popolare greca, e, con il prevalere dell'ellenismo in Italia, si applicò poi anche alla religione romana.

Anche in una religione monoteistica come quella d' Israele si rilevano tracce di antropomorfismo: più numerose nelle parti più antiche della Bibbia. Se in nessun passo della Scrittura si trova attribuito a Dio un corpo (ebr. bāṣār "carne"; gr. σῶμα), si parla però di viso, labbra, bocca, occhi, orecchie, braccia, mani e piedi; Dio parla, vede, ascolta, scrive, siede, riposa, si sveglia, ride, passeggia nel suo giardino; ama e odia, desidera e si pente, gioisce e si addolora, attende e s'impazienta, pensa e si ricorda, prevede e dimentica. Certo, molte di queste sono frasi fatte; e di contro a simili espressioni antropomorfiche sta la protesta dei profeti contro l'idolatria (alla quale l'antropomorfismo viene assimilato) e il divieto assoluto di ogni rappresentazione figurata della divinità. L'esegesi rabbinica si studiò di spiegare (cioè di cancellare), o addirittura di sopprimere, ogni traccia di antropomorfismo; l'interpretazione allegorica, applicata da Filone all'Antico Testamento e continuata dai Padri della Chiesa, mirò allo stesso scopo, aiutandosi anche con la dottrina che, nel rivelarsi agli uomini, Dio ricorre al linguaggio umano, e si adatta all'umano intelletto. Se ne ha un'eco anche in Dante (Parad., IV, 43-45).

Per questo la Scrittura condiscende

a vostra facultade, e piedi e mano

attribuisce a Dio, e altro intende.

Non mancarono però gli eretici (antropomorfiti), che interpretarono le espressioni antropomorfiche in senso letterale.

Se l'antropomorfismo fisico può ritenersi superato, non così è di quello morale, che alla divinità attribuisce sentimenti, intelligenza, volontà. È questa un'esigenza dello spirito umano, che si pone come un problema per la filosofia. Ma, a meno di rinunciare ad ogni rappresentabilità o rappresentazione di Dio e addirittura a concepire il divino come personale, sembra difficile si possa prescindere da una specie di antropomorfismo morale, per quanto d'ordine superiore, e compatibile con un'elevata speculazione metafisica sulla natura dell'universo.

Bibl.: F. B. Jevons, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, I, Edimburgo 1908, p. 573 segg.; F. Vigouroux, in Dict. de la Bible, I, Parigi 1912, col. 662 segg.; A. Chollet, in Dict. de Théol. cathol., I, ii, col. 1367 segg.; R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica, Bologna [1921], pp. 50 seg., 165, 184 seg., 189, 252.

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