antonomasia
. Nella retorica classica e medievale, dove compare anche nella denominazione latina di pronominatio, a. è chiamata la figura retorica consistente nella sostituzione del nome proprio con un appellativo generico tale che possa designare specificamente la persona o la cosa di cui si tace il nome.
Frequentissima nei poeti, come nota Quintiliano (VIII VI 29-30), questa figura viene particolarmente illustrata nell'Ars poetica di Gervasio di Melkley, nella parte riguardante l'idemptitas, accanto alla metonimia e alla sineddoche. Gervasio sottolinea la relazione che spesso s'istituisce fra l'a. e la forma superlativa, in quanto l'appellativo generico sostituisce il nome specifico in virtù della sua forma superlativa che può essere implicita (‛ poeta [poetarum] ' il poeta per eccellenza). Una stretta affinità può collegare spesso l'a, con la sineddoche e con la perifrasi. Nella retorica moderna, sulle orme del Vossius, la figura dell'a. è più comprensiva, perché include anche il caso contrario in cui un nome proprio sostituisce un appellativo generico in virtù del significato esemplare che quel nome può assumere. Poiché in D. l'uso della figura in questa accezione ha particolare rilievo e sviluppo, sarà opportuno rifarsi anche alla moderna terminologia.
Il tipo di a. più comune nella poesia classica, quello che designa un personaggio col nome del genitore o dell'avo, ricorre in D. in relazione con l'impegno di stile alto, sia che il poeta stesso si rivolga a un nobile personaggio, li figli di Levì (Pg XVI 132), sia che le anime degli accidiosi rievochino con eloquente brevità e stimolanti allusioni gli esempi di accidia (col figlio d'Anchise, XVIII 137), sia che si tratti dell'esordio di un canto, dove generalmente il tono è sostenuto (li figli di Latona, Pd XXIX 1). Così si spiega la presenza di una serie di antonomasie classicheggianti, la figlia di Belo, Rodopëa, Alcide (v. IX 97, 100, 101) nel discorso di Folco di Marsiglia notoriamente dominato da uno sfoggio di cultura e di oratoria poetica. Cfr. la città di Baco, in un dotto discorso di Virgilio (If XX 59). Una ragione non puramente esornativa, sebbene inclusa in un eloquente discorso, ha la designazione dei Padovani ' come ‛ discendenti di Antenore ' (in grembo a li Antenori, Pg V 75), che allude forse al proverbiale tradimento dell'eroe troiano; allo stesso modo un'a. come la donna di Brabante (VI 23) si spiega anche con l'esigenza di dare alla minacciosa raccomandazione un certo tono sibillino. La designazione degli Ebrei come la gente di Nembròt, di cui Adamo ricorda l'ovra inconsummabile (Pd XXVI 125-126) intende richiamare con un accenno particolare la vicenda biblica.
L'a. si fonda talora sulla notorietà di alcuni personaggi, sicché basta 'l Notaro per designare il famoso poeta siciliano Iacopo da Lentini (Pg XXIV 56), e 'l Guasco per indicare Clemente V (Pd XVII 82), se l'espressione non nasconde anche un tono di disprezzo. Il re giovane (If XXVIII 135) è un'a. che D. ha ricavato dalla tradizione. Così il regis... inferni per ‛ Lucifero ' (XXXIV 1) e il re de l'universo per ‛ Dio ' (V 91), come d'altronde la Vergine (Pd XIII 84), la Terra Santa (IX 125) sono formule comuni, salvo che la seconda non la si voglia inquadrare nel contesto del discorso di Francesca, nella reticenza con cui rivolge a D. quelle parole. Così la nimica podesta (VI 96) per indicare Cristo ' dipende dall'inopportunità di citare il santo nome nell'Inferno, mentre il nostro Diletto (Pd XIII 111) per indicare, ancora una volta, Cristo, riprende una figura diffusa nella letteratura religiosa. A., assunte ormai come termini tecnici, possono considerarsi ‛ Verbo ', ‛ Padre ', ‛ Figlio ', e forme di superlativo come il primo Amore, il sommo Bene, l'alto Padre, la prima virtù (o semplicemente la Virtù), Nostra Donna, Donna del cielo; cui si può aggiungere il Filosofo (Philosophus nella Monarchia), per Aristotele. Così D. evita di ripetere il nome di Virgilio, chiamandolo maestro, poeta, duca, designandolo cioè con quegli appellativi che a lui soprattutto convenivano.
Quasi delle perifrasi sono il segnor de l'altissimo canto (If IV 95) e il principe d'i novi Farisei (XXVII 85), ma riconducibili all'a., come i due coloriti appellativi nasello e nasuto (Pg VII 103, 124), e l'altra colorita immagine 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio (If XXVII 46), in cui l'a. si combina con la metafora. Una metafora tratta dal linguaggio militare, primipilo (Pd XXIV 59), è insieme un'a. (s. Pietro è il capo per eccellenza di quella milizia che è la Chiesa).
Tutta una serie di a. riguardano i ricorrenti nomi infernali e mirano a rendere più orrida la loro evocazione o a caratterizzarne il significato: l'Acheronte è chiamato il cieco fiume (Pg I 140) o il mal fiume (I 88), cui devono aggiungersi il fiero fiume (XIV 60), che designa l'Arno (chiamato altrove lo fiume real, V 122), d'altra parte il bel fiume (XXVIII 62) e il fiume sacro (XXXI 1), che designano il Lete. Dite è chiamata la città dolente (If III 1, IX 32), la città del foro (X 22), la città roggia (XI 73); la città partita è per eccellenza Firenze (VI 61). Allo stesso modo il Purgatorio è indicato talvolta come il monte per eccellenza (Pg XXVII 95, XXX 74), o il santo monte (XXVIII 12); così l'Inferno è designato come la valle d'abisso dolorosa (If IV 8), la valle buia (XII 86), la misera valle (Pg XIV 41), o semplicemente come la valle (If XXIX 9). E in Pd XVII 137 leggiamo nel monte e ne la valle dolorosa.
Interessante, perché legato ora all'esigenza del linguaggio colorito ed espressivo, ora al gusto della rievocazione dotta, è l'uso di ricorrere a nomi propri quali sostitutivi di appellativi generici. A parte l'uso di Cesare per ‛ imperatore ' (If XIII 65, Pg VI 92, Pd VI 10), o di ‛ saracini ' per ‛ infedeli ' (If XXVII 87, Pg XXIII 103) che si rifanno a una diffusa terminologia, l'a. è evidente nell'assunzione di personaggi storici nel significato consacrato dalla tradizione: un Marcel/ diventa, ecc. (Pg VI 125), il novo Pilato (XX 91), un nasce Solone e altro Serse, / altro Melchisedèch (Pd VIII 124-125), Cincinnato e Corniglia (XV 129). Non assimilabili alla più tipica a. sono i casi di If XXIX 116 (nol feci Dedalo), Pg XXXIII 69 (un Piramo a la gelsa), Pd XV 107 (non v'era giunto ancor Sardanapalo), dove tuttavia il particolare esempio mitico acquista appunto un significato più generico. Un'intenzione dispregiativa accomuna due casi in cui l'indicazione dei nomi specifici di oscuri personaggi o di nomi volgari assai comuni equivale a designare in genere la gente dappoco (una Cianghella, un Lapo Salterello, Pd XV 128; donna Berta e ser Martino, XIII 139). In un sonetto d'intonazione ‛ comica ' (Rime XCIX) pasqua è usato, secondo un uso comune, per indicare ogni festa; e frati Alberti significa ‛ abili interpreti '.