VENERI, Antonio
VENERI, Antonio. – Nacque a Reggio Emilia il 19 aprile 1741, da Domenico e da Domenica Sarti.
Di famiglia civile, mostrò precoce propensione per gli studi scientifici, tant’è che completò «non ancora ventenne, il corso delle scienze matematiche, [dando] prova di singolare ingegno» (Manzini, 1878, p. 97). Piccolo possidente terriero e amministratore dei propri beni, si segnalò presto per la preparazione nelle scienze finanziarie e nella ragioneria, ottenendo sin dalla giovane età incarichi di rilievo. Mostrò presto anche uno spiccato senso degli affari, che lo spinse a operazioni azzardate: nel quadro della politica di soppressione di enti religiosi avviata nel Ducato estense dal 1768, che condusse a incamerare i beni sequestrati in due enti, l’Opera pia generale dei poveri in Modena e la Congregazione generale delle opere pie in Reggio, entrambe a controllo sovrano, Veneri, con due soci, ottenne nel 1771 a livello circa 1430 ettari per un lungo periodo, settantacinque anni, a condizioni straordinariamente favorevoli, L. 123.400 di Reggio. La cosa creò notevole scalpore nell’ambiente reggiano, tant’è che la concessione venne presto revocata (Rombaldi, 1979, pp. 56 s.).
Di lì a poco ottenne un incarico importante: fu infatti nominato dal duca Francesco III agente nell’amministrazione dell’annona di Reggio, compito condiviso con Andrea Davalli e Giovan Battista Rasponi. Su di loro, per motivi non chiari, cadde però l’accusa di grave malversazione nei compiti d’ufficio, tant’è che mentre si trovavano in Modena, nel 1774, i tre furono arrestati e sottoposti a processo. La vicenda ebbe grande risonanza. Il processo evidenziò che alla base vi era stata una denuncia mirante a compromettere Veneri, opera dell’abate Giuseppe Fattori, che sarebbe stato per questo bandito dai territori del Ducato. Denuncia che Tommaso Casini (1897) attribuisce al fatto che Veneri fosse noto per nutrire sentimenti liberali.
In realtà la questione era più complessa, in quanto il processo era stato demandato a un’apposita deputazione creata all’interno del massimo tribunale del Ducato, il Supremo Consiglio di giustizia, che però nella vicenda processuale avrebbe dato spazio a distorsioni di non poco conto. In particolare Antonio Nanini, giudice e docente di diritto criminale all’università, si sarebbe macchiato «di irregolarità e di ‘prevaricazioni’ nei confronti degli inquisiti», al punto di dover ricorrere alla fuga per sottrarsi all’arresto comandato dal duca (Tavilla, 2000, pp. 326 s.).
L’esito della vicenda fu favorevole a Veneri: agli inizi di maggio del 1775 i tre arrestati furono rimessi in libertà; il 24 settembre 1776 furono formalmente scagionati con risoluzione ducale con la quale, preso atto che dal processo «non risultava alcuna reità contro la loro amministrazione, ma che al contrario era stata una maligna cabala di alcuni malevoli», si stabiliva che fosse «circoscritto il processo, che il Sommario stampato [fosse] bruciato per mano del carnefice, che i predetti agenti [fossero] reintegrati ne’ loro posti, e che con pubblica notificazione [fosse] resa giustizia alla loro innocenza» (Gazzetta universale, 1° ottobre 1776, n. 79, corrispondenza da Modena del 26 settembre 1776). Benché si sia scritto che «su la fama di quegli amministratori rimase sempre un punto oscuro» (U. Bassi, Reggio nell’Emilia alla fine del secolo XVIII (1796-1799), Reggio Emilia 1897, p. 15), in realtà Veneri ebbe più del reintegro nel ruolo, perché negli stessi giorni del proscioglimento, con chirografo del 23 settembre, fu promosso ragionato ducale presso il Consiglio d’economia. In questo ruolo ebbe modo di farsi definitivamente conoscere per le competenze amministrative e finanziarie. Ne è prova che nel 1785 fu chiamato nel Ducato di Parma per dare ordine a quella amministrazione finanziaria. Operazione che, a detta dei suoi biografi, compì con sollecitudine e con soddisfazione dei committenti.
Nei giorni dei sommovimenti politici che accompagnarono la fuga di Ercole III d’Este da Modena, il 7 maggio 1796, pochi giorni prima dell’arrivo di Napoleone a Milano, Veneri era a Reggio. Sin dalla giovinezza su posizioni liberali, si era schierato a favore dei francesi e degli ideali di cui erano portatori. Il Senato di Reggio, dopo la fuga del duca e la creazione di una reggenza a Modena, aveva assunto una posizione conflittuale verso il governo di Modena. La composizione del massimo istituto reggiano era stata parzialmente riformata e vi erano entrati alcuni degli esponenti di primo piano del gruppo filofrancese della città: Filippo Re in una lettera l’aveva definito ironicamente «consiglietto» (ibid., p. 38). Non risulta che Veneri fosse stato chiamato a fare parte del Senato, tuttavia rientrava certo in questo gruppo, accanto a Giovanni Paradisi, Jacopo Lamberti, Antonio Re, Francesco Cassoli (ibid., p. 52), nel quale si identifica la componente reggiana di quella «borghesia illuminata che prese la testa del movimento rivoluzionario emiliano per moderarlo e dirigerlo» (Pingaud, 1914, p. 92). Peraltro nelle turbinose vicende politiche reggiane di quei giorni Veneri appare sempre in posizione defilata, raramente ricordato dai commentatori.
Il 5 ottobre 1796 l’intero Ducato fu occupato dai francesi e vennero immediatamente attivate le istituzioni democratiche: Veneri, membro della municipalità democratica, fu nominato in un comitato di provvidenza pubblica, incaricato di gestire le spese straordinarie. Decisa da Napoleone la convocazione a Modena di un congresso dei rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, la municipalità di Reggio procedette all’elezione dei suoi otto rappresentanti, e fra questi vi fu Veneri. Il successivo 18 ottobre il commissario francese Pierre-Anselme Garrau impose però che Modena e Reggio fossero nuovamente riunite in un’unica entità politica, e il 21 ottobre fu fissata un’Amministrazione centrale formata da nove modenesi e otto reggiani, della quale Veneri era parte. Riconvocato poi il nuovo congresso cispadano a Reggio, si procedette all’elezione dei deputati, effettuata con votazione per gradi, e il 22 dicembre Veneri risultò tra i ventidue eletti.
Nelle sedute del Congresso di Reggio, tra il dicembre del 1796 e il gennaio del 1797, Veneri si mantenne, come sempre, defilato. Prese la parola il 31 dicembre in tema di revisione dei conti, con susseguente sua nomina nella commissione all’uopo istituita; il 1° gennaio relazionò come presidente di detta commissione; il 2 gennaio fu nominato nella commissione incaricata di stimare il credito della Repubblica verso l’ex duca Ercole III; il 6 gennaio risultò il più votato per l’elezione del Comitato di finanza; il 7 gennaio relazionò in merito alle necessità finanziarie della giunta di difesa. Al di là dunque dell’indubbia adesione politica, anche in questa circostanza si conferma il profilo marcatamente tecnico che Veneri assumeva in tutte le uscite pubbliche.
Nell’elezione per le cariche costituzionali della Repubblica Cispadana Veneri risultò eletto tra i nove membri reggiani del Consiglio dei sessanta. Ma di lì a pochi giorni, il 19 maggio, l’ex Ducato fu scorporato dalla Cispadana e unito al Milanese, in vista della formazione di quella che il 29 giugno sarebbe diventata la Repubblica Cisalpina. Il 19 luglio Veneri fu nominato nell’appena costituita Amministrazione centrale del dipartimento reggiano del Crostolo. Fu anche eletto tra i seniori del Gran Consiglio il 9 novembre 1797, ma quasi subito, l’11 febbraio 1798, ottenne le richieste dimissioni, in quanto riconfermato come amministratore centrale.
Quando, caduta la Cisalpina, ai primi di maggio del 1799 entrarono in Reggio gli austriaci, fu tra coloro che accettarono di ritrattare il giuramento alla Repubblica e per questo non subì persecuzioni. Del resto, se aveva occupato cariche e si era esposto politicamente, il suo profilo marcatamente tecnico aveva fatto sì che rimanesse in seconda fila. Neppure era venuta meno la propensione agli affari e alla speculazione che già aveva mostrato in età giovanile. Il suo nome compare infatti tra i maggiori acquirenti di beni nazionali nel dipartimento del Crostolo, collocandosi sedicesimo, per estensione di terreni acquistati, su trecentonove censiti (Rombaldi, 1979, p. 95).
Con il ritorno dei francesi non ebbe immediatamente incarichi. Pur non partecipando ai Comizi nazionali di Lione, in quella sede il suo nome non fu ignorato: il Comitato dei trenta nel preparare una lista di eleggibili da sottoporre a Napoleone, nella seduta del 22 gennaio 1802 indicò Veneri quale possibile ministro del Tesoro. Il successivo 26 gennaio Napoleone lo inserì nel Consiglio legislativo, istituto di primaria importanza della nuova Repubblica Italiana.
Portatosi perciò a Milano, Francesco Melzi d’Eril, assumendo la carica di vicepresidente, mostrò subito di riconoscere e stimare le sue competenze in materia di finanza. Fu, con Daniele Felici e Carlo Testi, incaricato di fare il punto sull’eredità che la seconda Repubblica Cisalpina lasciava alla nuova Repubblica. Il rapporto, di mano quasi certamente di Veneri, dava un quadro disastroso della situazione, non rinunciando a qualche frase a effetto: «Questa importante amministrazione sembra a guisa della selva oscura di Dante» (Archivio di Stato di Milano, Vicepresidenza Melzi, Rapporto senza data [ma febbraio 1802], c. 7).
Veneri rientrò nella ristrettissima cerchia di persone cui Melzi si rivolse per la carica di ministro delle Finanze. La risposta fu negativa, come scrisse il vicepresidente a Napoleone con riferimento alla proposta da lui fatta a Veneri e ad Ambrogio Forni, perché «ni l’un, ni l’autre veulent se charger de la responsabilité d’être ministre en chef. L’état des choses les effraient» (lettera del 26 febbraio 1802, in I carteggi di Francesco Melzi d’Eril duca di Lodi, Milano 1958, I, n. 41). Il problema fu aggirato grazie all’adozione del modello, che si stava introducendo in Francia nello stesso periodo, di ripartire le competenze del ministero delle Finanze in due ministeri. In una prima fase, con decreto del 28 febbraio, si optò provvisoriamente per una Direzione speciale, affidata a Giuseppe Prina, Forni e Veneri, in cui a quest’ultimo restava affidato il Tesoro, in quanto «intende meglio il giro dei fondi ed a parità degli altri la contabilità» (lettera a Marescalchi, 1° marzo 1802, ibid., n. 46). Il 20 aprile si sarebbe avuto il definitivo assetto in due ministeri, delle Finanze e del Tesoro pubblico, il primo con una valenza eminentemente politica, il secondo marcatamente tecnico, con il compito di gestire riscossioni, pagamenti e gestione del debito pubblico. Veneri ebbe la nomina a ministro del Tesoro, carica che avrebbe mantenuto ininterrottamente sino al 9 luglio 1811, e poi, dopo due anni, avrebbe nuovamente gestito dal 5 novembre 1813 alla caduta del Regno, benché nel contempo, il 9 agosto 1813, fosse stato nominato anche presidente del Senato, istituto del quale era entrato a fare parte sin dal 10 ottobre 1809, pur continuando nella sua attività di ministro del Tesoro.
Nell’attività di ministro ebbe numerosi apprezzamenti. Melzi lo definiva «laboriosissimo, spicciativo, esatto e di idee assai chiare ed ordinate» (lettera a Marescalchi, 19 agosto 1802, ibid., II, n. 485), e del suo operato diceva: «Tout y est sur le jour; les payements s’y sont constamment faits à vue; le plus grand ordre y est suivi» (lettera a Napoleone, 15 ottobre 1802, ibid., n. 610).
Presiedette le due sedute del Senato del 17 e 20 aprile 1814, allorché si consumò inutilmente l’estremo sforzo per far sopravvivere il Regno d’Italia. La sua condotta, in linea con il personaggio, fu di assoluta correttezza formale, senza alcun tentativo di indirizzare il dibattito. Tant’è che non ebbe problemi personali neppure nei trambusti politici della giornata del 20 aprile, nella quale si consumò l’eccidio del ministro Prina, con il quale condivideva le responsabilità della gestione finanziaria del regno, e ciò sebbene fosse noto il suo orientamento a favore della mozione Melzi, da lui stesso in qualità di presidente letta ai senatori nella seduta del 17 aprile, che chiedeva un pronunciamento a favore della continuità di un regno indipendente con al vertice Eugenio di Beauharnais.
Il 28 aprile in qualità di ex presidente del Senato presentò, unitamente al cancelliere Diego Guicciardi, formale istanza di protesta al commissario plenipotenziario austriaco Annibale Sommariva per la chiusura dell’assemblea. Continuò interinalmente come ministro del Tesoro nel governo provvisorio sino al 29 luglio 1814. Si ritirò quindi a vita privata nella casa di Milano, dove morì per una polmonite il 19 febbraio 1820.
Ebbe i riconoscimenti di cui beneficiarono gli alti esponenti del notabilato napoleonico: conte del regno nel 1809 e poi decorato dell’Aquila d’oro della Legion d’onore e gran dignitario della corona di ferro, il tutto accompagnato da laute prebende.
Ugo Foscolo fu frequentatore di casa Veneri e a più riprese ebbe modo di esprimere, nella corrispondenza, giudizi di stima personale verso il ministro. Corrispondente di Foscolo fu anche la figlia Marianna. Ebbe certamente anche un figlio maschio, del quale non si conosce il nome.
Fonti e Bibl.: Notizie in Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 664. Un carteggio relativo alla processura nella causa dell’Annona di Reggio (30 novembre 1774-10 luglio 1775) si conserva in Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Carteggio di referendari, consiglieri, cancellieri e segretari, b. 131.
Profili biografici in F. Coraccini, Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia, Lugano 1823, pp. CXXXI s.; L. Bosellini, Elogio del conte cavaliere Luigi Valdrighi recitato nella inaugurazione..., Modena 1863, pp. 50-52; E. Manzini, Memorie storiche dei reggiani più illustri..., Reggio Emilia 1878, pp. 97-101 (ampiamente debitore dal precedente); T. Casini, I deputati al congresso cispadano..., in Rivista storica del Risorgimento italiano, II (1897), pp. 138-210 (erroneamente pone Veneri tra i partecipanti ai Comizi di Lione); A. Pingaud, Les hommes d’État de la République italienne, Paris 1914, pp. 91-94. Notizie sulla concessione di beni di enti religiosi soppressi in O. Rombaldi, L’economia dei territori nei ducati estensi, in Reggio e i Territori estensi dall’Antico Regime all’Età napoleonica, a cura di M. Berengo - S. Romagnoli, I, Parma 1979, pp. 56 s. Per la vicenda processuale in cui fu implicato, C.E. Tavilla, Riforme e giustizia nel Settecento Estense. Il Supremo Consiglio di giustizia (1761-1796), Milano 2000, pp. 326-341. Un necrologio si trova in Gazzetta piemontese, 26 febbraio 1820.