TATÒ, Antonio
– Nacque a Roma il 5 novembre 1921, da Francesco, pubblicista proveniente dalla Puglia, e da Ebe Cossio.
Il padre, di idee liberali e vicino alle posizioni di Francesco Saverio Nitti, rifiutò di iscriversi al Partito nazionale fascista (PNF) e ciò ne compromise le possibilità di lavoro; il bilancio familiare poté reggersi solo grazie ai sacrifici della madre, artigiana in una bottega di paralumi: «Si può intuire [...] come Antonio abbia preso dal padre la straordinaria capacità di comunicare e di agire, che poi dimostrò nella sua attività politica e sindacale, sia a livello di vertici sia di “massa”; dalla madre la serietà, la dirittura morale, lo spirito e il comportamento di disinteressato servizio» (Tranquilli, 2001, p. 11).
Nella capitale Antonio compì gli studi secondari presso una scuola cattolica, il liceo classico S. Apollinare, in un ambiente assai poco favorevole al fascismo e alle sue pulsioni totalitarie. Attivo nell’associazione studentesca Dante e Leonardo, iniziò a maturare una visione del mondo pienamente alternativa a quella propugnata dal regime. Attraverso i contatti con l’altro gruppo giovanile cattolico della Scaletta ebbe modo di conoscere Franco Rodano, che svolse un ruolo chiave nel passaggio da un’opposizione culturale all’antifascismo militante, avvenuto nel corso del 1939. L’entrata in guerra dell’Italia lo rinsaldò ancor di più nella sua scelta cospirativa. Nel marzo del 1941 venne chiamato alle armi: frequentò dapprima il corso per allievi ufficiali a Spoleto, per poi entrare in servizio come sottotenente a Chaberton, nei pressi di Susa. Anche in divisa proseguì l’attività antifascista: sappiamo, ad esempio, che nell’inverno del 1942 partecipò a un incontro clandestino a Superga, insieme a ex dirigenti del Partito popolare (Bedeschi, 1974, p. 70).
Alla fine del 1942, fatto ritorno a Roma, in un periodo di convalescenza si sottrasse ai controlli medici e passò in clandestinità. Militante del Partito comunista cristiano (PCC, fondato nell’estate di quell’anno sulla base della precedente esperienza del Partito cooperativista sinarchico, al quale pure aveva aderito), entrò in relazione con il gruppo comunista romano, formato da giovani come Pietro Ingrao e Mario Alicata. Il 18 maggio 1943 venne arrestato dalla polizia fascista e deferito al Tribunale speciale insieme ad altri dirigenti del PCC. La caduta di Benito Mussolini lo salvò dalla fucilazione. Durante l’occupazione tedesca di Roma, operò nella Resistenza come dirigente del neocostituito Movimento dei cattolici comunisti e responsabile per suo conto della V Zona militare della città. Dopo l’arrivo degli angloamericani, contribuì al dibattito sulla costruzione della democrazia scrivendo per Voce operaia, testata che dal settembre del 1944 divenne l’organo del Partito della sinistra cristiana (PSC). Tatò aderì alla nuova formazione, nella cui sigla, su pressione della S. Sede, era stato tolto il riferimento al comunismo, ma continuò a definirsi «cattolico comunista». I suoi articoli, spesso firmati con il diminutivo che poi divenne abituale di Tonino, erano pezzi molto vivi in cui esortava le masse popolari a porsi alla guida del processo di rinascita democratica. Emergeva la sua sensibilità verso le lotte dei lavoratori e le questioni sindacali.
Nell’estate del 1944 si unì in matrimonio con Erminia Romano, compagna di militanza politica, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanna, Carla, Franco e Paola. Il matrimonio terminò nel 1960 e in seguito Tatò si risposò con Giglia Tedesco.
Nell’estate del 1945 assunse l’incarico di segretario della federazione milanese del PSC, ma già alla fine di quell’anno, in sintonia con Rodano, fu un convinto sostenitore dello scioglimento del partito e della confluenza dei suoi iscritti nel Partito comunista italiano (PCI), dopo che Palmiro Togliatti aveva fatto cadere ogni pregiudiziale di tipo religioso. Entrato quindi nel Partito comunista, iniziò subito a lavorare nella Commissione centrale sul lavoro di massa, applicandovi le idee maturate intorno all’importanza della mobilitazione popolare, che andava sollecitata e orientata dopo i lunghi anni della dittatura. Pienamente inserito nel «partito nuovo», conservò i suoi legami con il gruppo dei cattolici comunisti, nella prospettiva che essi potessero fornire un contributo specifico e rilevante al programma del PCI. Quando il gruppo si divise, non ebbe dubbi sulla necessità di continuare a militare attivamente nel movimento operaio. Dopo il 1947, sua precipua preoccupazione fu che il ripiego della guerra fredda non facesse arenare il progetto togliattiano della «democrazia progressiva».
Nella difficile fase successiva alla scissione sindacale del 1948 iniziò la sua ventennale stagione di lavoro nella Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), prestando servizio presso il suo Ufficio stampa e propaganda. Gli venne assegnato anche l’incarico di corrispondente per la Federazione sindacale mondiale. Al principio del 1951 divenne direttore del Notiziario della CGIL, nel quale profuse le sue doti giornalistiche e comunicative, volte a orientare i quadri confederali sui principali temi della vita economica e sociale del Paese. Alla cessazione del bollettino (novembre 1955) passò alla guida di Rassegna sindacale, della quale fu direttore o vicedirettore fino all’aprile del 1968.
In forte sintonia con Giuseppe Di Vittorio, difese la contrattazione collettiva, il principio di solidarietà tra le diverse categorie di lavoratori e tra Nord e Sud della penisola. Seppe però anche leggere i limiti di tale impostazione, partecipando alla metà degli anni Cinquanta al dibattito su errori e manchevolezze denotate dalla CGIL dinanzi ai cambiamenti e alla modernizzazione dell’apparato produttivo. La sua visione di una «subordinazione dialettica» del sindacato rispetto al sistema capitalista si pose come alternativa sia all’aziendalismo della Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL), sia all’assegnazione di compiti direttamente rivoluzionari ai sindacati. I suoi interventi tra il 1955 e il 1956 sul Dibattito politico, settimanale diretto da Mario Melloni e Ugo Bartesaghi, testimoniano il mantenimento di legami stretti con la riflessione di Franco Rodano.
A partire dal 1960, lo spessore teorico degli scritti di Tatò si accentuò ancor di più, conferendo ad alcuni di essi un respiro saggistico. La sua voce fu presente in tutte le discussioni che riguardarono i grandi temi dell’azione sindacale, considerata da lui sempre in rapporto con le vicende generali del Paese.
Eccolo dunque interrogarsi sui particolari caratteri assunti dalla modernizzazione italiana e sul permanere di gravi limiti nella borghesia nazionale; sugli effetti del progresso tecnologico in termini di affrancamento ma anche di inedite forme di alienazione sperimentate dai lavoratori; sul rapporto fra sindacato, classi lavoratrici e partiti politici in quella che veniva percepita come una nuova fase della storia nazionale. Non a caso Tatò fu tra i primi a porre l’esigenza di storicizzare la figura di Di Vittorio in modo serio, di là dai pur legittimi intenti commemorativi. Nel decennale della scomparsa del leader sindacale, da lui partì l’idea di dedicargli una corposa raccolta antologica, che curò, in tre volumi, per l’Editrice sindacale italiana (Di Vittorio: l’uomo, il dirigente, I-III, Roma 1968-1970). Egli – come ricordò in seguito il collaboratore e amico Bruno Roscani – fece del cammino di Di Vittorio «il paradigma della faticosa presa di coscienza, da parte delle masse popolari e lavoratrici italiane, di quali siano le condizioni sindacali e politiche necessarie per incidere sulla realtà e per divenire forza storica concretamente trasformatrice» (Tranquilli, 2001, p. 200).
Serrato fu il confronto stabilito da Tatò con le nuove prospettive aperte dal centro-sinistra, dalla politica di programmazione alle grandi riforme strutturali. Profonda attenzione riservò sempre a quanto si muoveva nel mondo cattolico, con l’obiettivo di favorire una ritrovata unità sindacale. Un riconoscimento del suo ruolo di studioso giunse nel 1968, quando la segreteria della CGIL gli affidò la direzione di un Centro studi sindacali, con l’obiettivo di favorire ricerche sulle trasformazioni in atto a livello nazionale e internazionale. Collaborò inoltre con la Scuola centrale della CGIL, inaugurata nel 1966, per la quale tenne una serie di conferenze.
Nel luglio del 1969 Enrico Berlinguer, da poco divenuto vicesegretario del PCI, lo chiamò alla guida della sua segreteria personale. «I primi rapporti fra i due non furono facilissimi; raramente si erano visti vicini due caratteri così diversi: introverso Enrico, estroverso al massimo Tonino; portato al pessimismo l’uno, sempre ottimista l’altro. Ma una volta scattata l’amicizia e la stima reciproca, fu proprio questa diversità a rendere preziosa la collaborazione di Tatò» (Barca, 1992). La nomina scaturì anche dall’attenzione di Berlinguer per i problemi e gli orientamenti del mondo cattolico. Tatò mantenne questo ruolo per un quindicennio, sino alla morte del dirigente comunista (1984), divenendone braccio destro e consigliere fidato.
«La sua corrispondenza con il leader del PCI ci rivela ora i tratti di una personalità forte: un intellettuale e un analista politico di spessore incaricato di missioni politiche delicatissime e allo stesso tempo autore di riflessioni impegnative sui problemi di fondo della politica e dell’identità comunista» (Gualtieri, 2003, pp. 277 s.). Tatò aderì alla concezione del «compromesso storico» elaborata da Rodano, il quale vide nella proposta berlingueriana non una semplice alleanza fra partiti per fronteggiare un’emergenza, bensì l’apertura di una fase rivoluzionaria che, attraverso una profonda trasformazione della Democrazia cristiana (DC), avrebbe prodotto un incontro di quest’ultima con il PCI tale da far nascere una nuova formazione unitaria e avviare il passaggio dal capitalismo al socialismo. In tale quadro, Tatò si pose al fianco di Berlinguer nella sua ambizione che il PCI potesse dare una scossa cruciale al mondo cristallizzato della guerra fredda. «Se noi comunisti italiani – gli scrisse nel marzo del 1976 –, con la nostra politica di ampia unità nel nostro paese e in Europa, riusciamo a mettere in moto un cambiamento in direzione del socialismo della nostra società e di quelle dell’occidente capitalistico, avvieremo un processo che può anche avere ripercussioni di portata effettivamente mondiale: nel senso che, da un lato, imprimeremo una spinta allo sviluppo verso le libertà politiche, sindacali, artistiche, culturali dei paesi, degli Stati, dei sistemi socialisti dell’Europa orientale, ed eserciteremo una spinta allo sviluppo verso il socialismo del restante mondo capitalistico ed essenzialmente, quindi, degli stessi Stati Uniti. Ecco perché mi sono permesso di dire che la tua linea politica, oggettivamente, ha una funzione di respiro mondiale» (Caro Berlinguer..., 2003, p. 45).
Nelle analisi di Tatò si delineava una «sorta di “neoguelfismo” comunista» (cfr. Gualtieri, 2003, p. 285), che individuava nella doppia peculiarità italiana – unicità del percorso intrapreso dal PCI e del ruolo del cattolicesimo nella società – una risorsa strategica su cui fare leva. Tuttavia, la collaborazione con la DC sortì solo in minima parte gli effetti auspicati.
Quando si chiuse la stagione della solidarietà nazionale e il PCI ripiegò all’opposizione, Tatò fu un appassionato elaboratore delle ragioni della nuova linea di alternativa democratica, imperniata sul principio della diversità comunista rispetto al resto del sistema politico. In stretta sintonia con l’ultimo Berlinguer, si schierò contro chi – dentro e fuori il Partito comunista – auspicava una omologazione della sinistra italiana ai canoni del socialismo occidentale. Irriducibile fu dunque la sua avversità a qualsiasi idea di socialdemocratizzazione del PCI e alla politica del leader socialista Bettino Craxi. La sua prospettiva rimase la fuoruscita dal capitalismo, nel solco del ciclo storico apertosi con il 1917.
La morte di Berlinguer segnò il rapido declino dell’influenza di Tatò nell’ambito del partito. Continuò a far parte del comitato centrale del PCI e, fedele alla sua antica vocazione giornalistica, nel 1987 fondò l’agenzia di stampa parlamentare Dire, di cui fu direttore. Sostenne la linea della segreteria di Achille Occhetto nel passaggio dal PCI al Partito democratico della sinistra (PDS) divenendo presidente della commissione di garanzia del nuovo partito.
Morì a Roma il 5 novembre 1992, nel giorno del settantunesimo compleanno.
Opere. Riflessi del progresso tecnologico sulle componenti della retribuzione, sull’inquadramento professionale dei lavoratori e sull’articolazione organizzativa e contrattuale dei Sindacati della CGIL, in Il progresso tecnologico e la società italiana, IV, Lavoratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, a cura di F. Momigliano, Milano 1962, pp. 319-376; Di Vittorio: l’uomo, il dirigente, a cura di A. Tatò, I-III, Roma 1968-1970; Laicità del partito e della politica, in Critica marxista, 1985, n. 2-3, monografico: Gli anni di Berlinguer, pp. 201-216.
Fonti e Bibl.: Necrologi: L. Barca, L’ottimismo di Tonino, in l’Unità, 6 novembre 1992; M. Mafai, Quel cattolico comunista, in la Repubblica, 6 novembre 1992. Si vedano, inoltre: L. Bedeschi, Cattolici e comunisti. Dal socialismo cristiano ai cristiani marxisti, Milano 1974, ad ind.; C.F. Casula, Cattolici comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Bologna 1976, ad ind.; G. Tassani, Alle origini del compromesso storico. I cattolici comunisti negli anni ’50, Bologna 1978, ad ind.; F. Malgeri, La sinistra cristiana 1937-1945, Brescia 1982, ad ind.; C. Valentini, Berlinguer. Il segretario, Milano 1987; M. Mustè, Franco Rodano. Critica delle ideologie e ricerca della laicità, Bologna 1993; F. Barbagallo, Il PCI dal sequestro Moro alla morte di Berlinguer, in Studi storici, 2001, n. 4, pp. 837-883; V. Tranquilli, A. T.: la Resistenza, il sindacato, Roma 2001; P. Craveri, L’ultimo Berlinguer e la “questione socialista”, in Ventunesimo secolo, 2002, n. 1, pp. 143-192; R. Gualtieri, Il PCI tra solidarietà nazionale e “alternativa democratica” nelle lettere e nelle note di A. T. a Enrico Berlinguer, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, IV, Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa - G. Monina, Soveria Mannelli 2003, pp. 277-297; Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di A. T. a Enrico Berlinguer (1969-1984), Torino 2003.