STRADIVARI, Antonio (Antonius Stradivarius). – Nacque probabilmente a Cremona tra il 1644 e il 1648/1649, figlio di Alessandro (non si conosce il nome della madre)
Del cognome Stradivari (Stradivertis, Stradivertus, Stradavertis, Stradavertas) si hanno notizie a Cremona già in documenti risalenti al XII secolo (albero genealogico in Bonetti - Cavalcabò - Gualazzini, 1937, pp. 12 s.). In nessun registro parrocchiale della città è stata trovata la fede di nascita di Antonio. Negli stati d’anime – i censimenti parrocchiali redatti più o meno regolarmente in occasione della Pasqua – la sequenza dell’età indicata di anno in anno non è sempre coerente, il che lascia ampi margini circa la data di nascita: in relazione alle età indicate, potrebbe essere nato fra il 1640 e il 1649. Considerando alcune etichette presenti negli strumenti degli ultimi anni di attività del liutaio, con manoscritta l’età, i fratelli W. Henry, Arthur F. e Alfred E. Hill (1902, p. 4) stabilirono la data di nascita al 1644; Renzo Bacchetta (1937), in ragione della serie degli stati d’anime della parrocchia di S. Matteo dal 1680 al 1737, la collocò invece nel biennio 1648-49. In un solo documento (la registrazione battesimale del figlio Francesco, nel 1670) egli compare con due nomi, «Jacomo Antonio» (cfr. Pollens, 2010, p. 13).
Il 4 luglio 1667 don Pietro Guasco, parroco nella chiesa di S. Agata, celebrò il matrimonio fra Antonio e Francesca Ferraboschi. All’epoca il giovane liutaio risiedeva a Cremona nella parrocchia, poi soppressa, di S. Cecilia. Dall’unione nacquero sei figli: Giulia (1667-1707); Francesco Giacomo (6-12 febbraio 1670); Francesco Giacomo (1671-1743), liutaio; Caterina (1674-1748); Alessandro Giuseppe (1677-1732), sacerdote; e Omobono Felice (1679-1742), liutaio. Negli stati d’anime la casa nuziale, non lontana dalla parrocchia della sposa, è indicata come casa Pescaroli.
Francesco Pescaroli (1610-1679), architetto e intagliatore cremonese, esercitò la professione nel cuore della città. La sua bottega era collocata in prossimità di quella della famiglia Amati, nell’angolo del quadrilatero (insula) fra la contrada dei Coltellai e il piazzolo di S. Domenico. Lì il giovane Stradivari avrebbe appreso l’arte dell’intaglio del legno; l’ipotesi non esclude quanto è stato sostenuto in passato, quando si è voluto individuare in Nicolò Amati la figura chiave della sua formazione.
Nel 1680 Stradivari abbandonò la casa nuziale in S. Agata e acquistò casa Picenardi, la nuova abitazione, affacciata sul piazzolo di S. Domenico, nel quadrilatero dove si trovavano numerose botteghe artigiane, prime fra tutte quelle degli Amati e dei Guarneri. Nel decennio seguente numerose testimonianze comprovano il successo commerciale e l’ambizione del liutaio di far parte delle élites cittadine. Nel 1689 Stradivari fornì una cospicua dote alla primogenita Giulia, sposa di Angelo Farina, erede di una famiglia di notai. Negli stessi anni (1691) partecipò all’assemblea di un’illustre istituzione caritatevole della città, il Consorzio della Donna, i cui confratelli provenivano dalla nobiltà e dal ceto benestante della città.
Nel maggio del 1698 morì la moglie Francesca. L’anno dopo il liutaio sposò Antonia Maria Zambelli, di vent’anni più giovane di lui. Dal secondo matrimonio nacquero cinque figli: Francesca Maria (1700-1720); Giovanni Battista Giuseppe (1701-1702); Giovanni Battista Martino (1703-1727), liutaio; Giuseppe Antonio (1704-1781), sacerdote; e Paolo Bartolomeo (1708-1775), commerciante di stoffe.
Nel nuovo secolo, assunta l’insolita veste di uomo d’affari, Stradivari dimostrò una discreta disponibilità finanziaria, frutto del successo e del buon andamento della bottega. Nel 1714 partecipò con la considerevole somma di 8000 lire, pari al 50% dell’intero capitale, a una società di offelleria (dolceria), garantendosi una rendita pari al 5% degli interessi della somma investita. Nel 1726, a distanza di anni e a seguito dello sviluppo di una complicata vicenda, il liutaio fu nelle condizioni di garantire a Giuseppe, il secondo sacerdote in famiglia, una rendita annua di 6000 lire. Pochi anni prima, secondo la prassi corrente, aveva dotato di una rendita la figlia Francesca Maria, entrata nel convento di S. Giorgio a Mantova.
Il 1° novembre 1727 morì ventiquattrenne Giovanni Battista Martino, terzogenito del secondo matrimonio. In alcuni strumenti degli anni precedenti usciti dalla bottega è stata individuata una mano diversa, più fresca, presumibilmente appunto quella del figlio morto giovane, che avrebbe dunque affiancato i fratelli consanguinei Francesco e Omobono nell’attività della bottega.
Il 24 gennaio 1729 Stradivari iniziò a stilare testamento. La prima stesura fu modificata più volte: si conoscono infatti quattro versioni dell’atto, di cui l’ultima resa ufficiale il 6 aprile 1729 nel convento dei padri annesso alla chiesa di S. Agostino in Cremona. Nello stesso anno, a riprova di un ruolo sociale ormai affermato, il liutaio acquisì in perpetuo il sepolcro della famiglia Villani nella cappella del Rosario in S. Domenico, nella quale peraltro aveva già trovato sepoltura Giovanni Battista Martino, due anni prima.
Il 16 febbraio 1733 Stradivari stipulò un contratto con il mercante Lorenzo Berti (Berzio) per esercitare una «società di mercatura». Davanti al notaio comparve anche il figlio Paolo affinché sapesse che le 20.000 lire di moneta di Cremona, aumentabili a 50.000 dopo tre anni, dovevano servire esclusivamente a fargli imparare il mestiere, senza nulla sottrarre a quanto a lui destinato in eredità. L’atto legale del contratto per la società di mercatura, composto da 19 articoli, reca in calce la firma autografa di Antonio Stradivari (cfr. Bonetti - Cavalcabò - Gualazzini, 1937, p. 101). L’anziano liutaio portò così a compimento il desiderio di vedere il figlio più giovane aggregato al ceto mercantile della città, ulteriore conferma della ricchezza e del prestigio sociale acquisiti nell’arco di una lunga vita.
Morì a Cremona il 18 dicembre 1737. Il 19 dicembre, come annotato nel libro dei morti della parrocchia di S. Matteo, fu seppellito nella cappella del Rosario. In marzo era morta la moglie Antonia Maria Zambelli.
Il liutaio, divenuto ben presto celebre in Italia e in Europa, costruì strumenti ad arco da braccio e da gamba (non si conoscono contrabbassi) e a corde pizzicate (liuti, arpe, chitarre, mandolini e mandole). È stato calcolato che abbia realizzato circa 1116 strumenti (cfr. Hill - Hill - Hill, 1902, p. 226); fra questi, un migliaio di violini. Il primo violino attribuito a Stradivari, che sull’etichetta si dichiara «Alumnus Nicolaij Amati», è datato 1666 (collezione privata). In assenza di altri documenti d’archivio, quel cartiglio incollato all’interno dello strumento è l’unica testimonianza circa la formazione di Antonio.
L’opera di Stradivari non compare d’improvviso in un contesto cittadino dove, da tempo, erano attive le botteghe Amati, Rugeri e Guarneri; ed è certamente un frutto di quanto fatto dai liutai cremonesi fin dal secolo precedente. Nei suoi primi anni di attività gli strumenti richiamano per dimensioni la forma piccola di Nicolò Amati del periodo 1660-70, un modello che Antonio utilizzò fino al 1684, sebbene si trovino alcune eccezioni, come il bellissimo violino intarsiato del 1679, denominato Hellier (Cremona, Museo del violino). Nel 1672 realizzò la prima viola di taglia contralto, l’unica da lui costruita con questa forma: dal 1690, infatti, utilizzò un nuovo modello con cassa armonica più stretta nella parte superiore e inferiore, e dimensioni che si ritrovano negli strumenti di questa taglia prodotti negli anni successivi. Fra questi una viola del 1731, conosciuta anche come Mendelssohn, appartenuta a Niccolò Paganini (Akasaka, Tokyo, Nippon Music Foundation). Negli anni precedenti al 1680 costruì i primi violoncelli di grande formato, utilizzato fino a fine secolo: un esempio tipico è il Mediceo del 1690 (Firenze, Galleria dell’Accademia, Museo degli strumenti musicali).
Da questo periodo in poi Stradivari ottenne importanti commissioni (documentate nell’Accademia de’ pittori cremonesi di don Desiderio Arisi del 1720, in una tardiva copia manoscritta onusta di errori: Biblioteca statale di Cremona, AA.2.21; edita in ...e furono liutai in Cremona, 2000, pp. 220 s.). Nel 1682 un banchiere veneziano, Michele Monsi, ordinò un intero concerto di strumenti, per farne dono a Giacomo II Stuart (poi re d’Inghilterra dal 1685 al 1688). Tre anni più tardi Bartolomeo Grandi, detto il Fassina (Fassena), violinista alla corte del duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, commissionò tutto il concerto per il futuro re di Sardegna. Ancora nel 1685 il liutaio fu richiesto di un violoncello e due violini da parte del cardinale Pietro Francesco Orsini (in religione Vincenzo Maria, poi papa Benedetto XIII) da inviare in Spagna; la patente di famigliare rilasciatagli l’anno dopo testimonia la stima e la riconoscenza dell’allora arcivescovo di Benevento (Mandelli, 1903, pp. 97 s.). Nello stesso anno costruì un violoncello per Francesco II, duca di Modena, e nell’agosto del 1686 il marchese Michele Rodeschini gli ordinò un violoncello per la corte di Spagna.
Negli anni 1684-85 si ebbe un nuovo sviluppo: i violini assunsero dimensioni maggiori, più prossimi al modello grande impiegato da Nicolò Amati negli anni 1640-50. A partire dal 1688 Stradivari iniziò a tingere di nero lo smusso del profilo della testa dei suoi strumenti, una caratteristica costante nei lavori degli anni successivi, con sporadiche eccezioni fra il 1690 e il 1703. Nei primi anni Novanta avviò un ulteriore processo di innovazione nella forma dei violini, le proporzioni, la costruzione, elaborando il modello oggi correntemente denominato tra i liutai long Strad (modello Stradivari lungo). In quest’epoca il liutaio raggiunse la piena maturità. Gli strumenti costruiti negli anni immediatamente precedenti (1686-90) rimangono per molti aspetti insuperati: esempio unico e inimitabile è il violino detto Toscano del 1690 (Roma, Accademia di Santa Cecilia, Museo degli strumenti musicali). Gli strumenti costruiti fino all’introduzione del modello lungo sono storicamente classificati come amatisés, per l’evidente influenza del lavoro di Nicolò Amati: il che non significa che li si debba considerare semplici copie. Se in questi anni la vernice era più vicina alla colorazione degli strumenti di Amati, approssimandosi gli anni Novanta il colore si fece vieppiù intenso e caldo. Il formato lungo venne abbandonato nei primi anni del Settecento, quando Stradivari tornò alle proporzioni di prima degli anni Novanta, con chiari riferimenti alle caratteristiche del modello Amati del quinto decennio. Negli anni 1699-1700 sperimentò una nuova forma di violoncello, di dimensioni inferiori rispetto ai precedenti: lo testimonia lo strumento conosciuto come Stauffer, ex-Cristiani (Cremona, Museo del violino).
All’inizio del nuovo secolo Stradivari diventò il protagonista assoluto sulla scena della liuteria cittadina: iniziò così il periodo considerato aureo. L’affermazione artistica e commerciale edificata negli anni precedenti grazie alle numerose e importanti committenze trova indiscussa conferma in una lettera del 1690 del marchese Bartolomeo Ariberti (riportata da Arisi): il nobile cremonese, dopo aver donato a Ferdinando de’ Medici due violini e un violoncello, visto l’entusiasmo del granprincipe commissionò a Stradivari l’urgente costruzione di due viole, contralto e tenore, che completassero l’intero concerto. La viola tenore Medicea (Firenze, Galleria dell’Accademia, Museo degli strumenti musicali) è uno di pochissimi esemplari costruiti, e l’unica oggi nota di questa taglia, conservata in condizioni inusitatamente inalterate.
Nel 1707 Stradivari produsse nuovi violoncelli, secondo un nuovo modello oggi denominato forma B, di dimensioni ancora minori: il liutaio espresse così la sua abilità nel coniugare resa sonora, bellezza, equilibrio e giusta proporzione. Nello stesso anno il marchese Giorgio Clerici, presidente del Magistrato ordinario nel Ducato di Milano, gli commissionò sei violini, due viole e un violoncello per conto della corte barcellonese di Carlo d’Asburgo, il pretendente al trono spagnolo divenuto poi imperatore (cfr. Arisi, cit.; il documento ordinativo è in D. Lipp, «Este es vuestro Carlos, este es vuestro Rey»: representation of political propaganda in musical life at the Habsburg court in Barcelona during the war of Spanish succession (1705-1713), in Music in art, XLII (2017), pp. 98 s., 106). Il violoncello Duport del 1711, appartenuto al violoncellista francese Jean-Louis Duport, che lo suonò fino alla fine dei suoi giorni (1819), e che in anni recenti accompagnò Mstislav L. Rostropovič nella sua fulgida parabola di concertista, rappresenta una delle massime espressioni dei violoncelli costruiti secondo la forma B (collezione privata).
Il 1710 segnò l’inizio del decennio in cui il liutaio costruì, e in numero cospicuo, gli strumenti che sono oggi visti come il massimo traguardo raggiunto sotto il profilo della resa acustica. Stradivari aveva superato i sessant’anni: l’eleganza giovanile lasciò spazio a una maggiore ampiezza e robustezza. Tratti forti, vigorosi, virili sostituirono la leggerezza che aveva distinto i lavori dei primi decenni; e tali caratteristiche si riscontrano anche nel corso degli anni successivi. Il 1715 fu un’annata particolarmente feconda. Il 10 giugno giunse a Cremona Jean-Baptiste Volumier (Woulmyer), maestro dei concerti nella cappella di corte dell’elettore di Sassonia, Augusto II di Polonia, e ci restò tre mesi in attesa che Stradivari ultimasse ben dodici violini, commissionati per l’orchestra di Dresda. Di quest’anno si conoscono strumenti di straordinaria qualità come i violini Gillot (collezione privata), Alard (collezione privata) e Cremonese (Cremona, Museo del violino); dell’anno successivo il Messia (Oxford, Ashmolean Museum, collezione Hill), esemplare unico quanto allo straordinario stato di conservazione, appartenuto al conte Ignazio Alessandro Cozio di Salabue, il più famoso collezionista e studioso degli strumenti stradivariani tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
La mano di Stradivari si coglie ancora nei lavori successivi al 1720, anni in cui gli strumenti persero nel profilo della cassa la continua rotondità del passato, piegando verso linee più squadrate. Dal 1725 diminuì il numero di strumenti costruiti e il lavoro iniziò a tradire l’avanzare dell’età. Gli strumenti mostrano sempre più spesso la mano dei figli Francesco e Omobono, e in qualche caso di Carlo Bergonzi. Nel 1726 l’inesausta creatività di Stradivari generò due nuovi modelli per la costruzione di violoncelli di dimensioni ancor più contenute rispetto alla forma B , mentre un altro modello ancora, di lì a pochi anni, presentò un’ulteriore riduzione della cassa armonica. Gli strumenti del periodo 1730-37 mostrano un aspetto meno omogeneo. Si può ritenere che con l’avanzare dell’età il contributo di Stradivari all’attività della bottega si sia progressivamente ridotto, ma il gesto della sua mano è ancora presente in numerosi strumenti: traspare per esempio in dettagli come i bordi tremolanti nei fori di risonanza (le cosiddette effe) del violino Habeneck del 1736 (Londra, Royal Academy of music), o l’irregolarità del filetto, tagliato dalla mano insicura di un uomo anziano, del violino Muntz del 1736 (Akasaka, Tokyo, Nippon Music Foundation). Vi si legge la caparbia tenacia di chi persiste nel lavoro di una vita.
Da una lettera del figlio di Paolo Stradivari a Giovanni Michele Anselmi Briata (20 agosto 1775; in Cozio di Salabue, 1950, pp. 362 s.) si apprende che i violini lasciati dal padre Antonio e dal fratello Francesco erano ben 91, oltre a due violoncelli e viole, e il concerto decorato che fu poi venduto alla corte di Spagna; l’anziano erede specificava come tutti gli strumenti fossero, all’epoca, nuovi. Furono appunto l’ultimogenito, Paolo, e i di lui figli a esitarli nel corso dei decenni successivi. Si valuta che sul totale degli strumenti costruiti, stimato in 1116, la maggior parte (825) sia stata completata negli anni dal 1684 al 1725. Oggi si conoscono alcuni strumenti a pizzico: cinque chitarre, due mandolini, un’arpa. I reperti provenienti dalla bottega di Stradivari (conservati a Cremona, Museo del violino) provano del resto la costruzione di liuti, viole da gamba, viole d’amore, pochettes, archi e custodie per gli strumenti.
Nel corso della sua lunga attività Stradivari utilizzò almeno tre tipi di etichette incollate sul fondo dello strumento in prossimità della fascia, visibili dal foro di risonanza dal lato delle corde basse. Tutti i cartigli furono stampati a caratteri mobili. In alcuni esemplari anteriori al 1700 «Antonius» è scritto «Antonins»: un evidente refuso. La più antica etichetta è datata 1666. Le prime tre cifre della data erano incise nel cliché, mentre l’ultima veniva aggiunta a penna. Questo procurò qualche problema nei decenni successivi, quando fu ancora utilizzata la medesima matrice. Dal 1670, infatti, Stradivari raschiò o corresse a penna il secondo 6 della data, sostituendolo con il 7 o modificandolo in 8 o 9. Dal 1698 al 1729 utilizzò una nuova etichetta, a caratteri più grandi, con a stampa la sola cifra 1 e aggiunte a penna le rimanenti tre. Occasionalmente, fino a fine secolo, si trova ancora negli strumenti l’etichetta precedente. Nel 1729 realizzò un terzo cartiglio, stampato con lettere di dimensioni maggiori, dove la lettera u corsiva di «Stradiuarius» è sostituita con il carattere tondo v. Solo eccezionalmente è ancora presente negli strumenti degli anni 1730-31 il secondo tipo di etichetta.
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