SMAREGLIA, Antonio
– Nacque il 5 maggio 1854 a Pola (croato Pula), all’epoca territorio austro-ungarico, da padre italiano, Francesco, proprietario terriero di Dignano (croato Vodnjan), e da madre croata, Julija Štiglić, originaria del villaggio istriano di Ičići.
Sesto e desideratissimo figlio della coppia (i primi cinque erano deceduti infanti), ebbe un fratello minore, Giulio (1866-1935), organista, direttore, insegnante e compositore, e una sorella, Nicoletta (ignote le date; era in vita nel 1890). Le prime esperienze musicali gli vennero dal padre, dilettante di flicorno, e dalla madre, che gli cantava melodie slave: tracce del ricordo di tali canzoni si ravvisano nella scrittura vocale e nel colorito folklorico della vena lirica di Smareglia.
A Vienna e Graz, dove frequentò le scuole secondarie superiori nei tardi anni Sessanta, Smareglia riconobbe la propria vocazione musicale. Affascinato da Ludwig van Beethoven, Wolfgang Amadeus Mozart e soprattutto Richard Wagner, trascurò lo studio della matematica: prese lezioni di pianoforte e nel settembre del 1871 si stabilì a Milano per diventare compositore. Studiò con Franco Faccio e dal 1872 al 1876 fu iscritto in conservatorio. Il suo arrivo a Milano coincise con l’avvento della musica di Wagner sulle scene italiane, che infervorò un vivace dibattito critico, in particolare nell’ambiente della ‘scapigliatura’: incontrò Arrigo Boito, Emilio Praga, Ferdinando Fontana, Alfredo Catalani e altri scapigliati. Questa cerchia di intellettuali progressisti infatuati di Wagner, tesi al rinnovamento dell’arte e della cultura italiana, ben si attagliava allo spirito cosmopolitico del giovane istriano e lasciò un’impronta durevole sulle sue scelte artistiche e sulla sua carriera.
Gli esordi furono promettenti: il poema sinfonico Leonora (dalla ballata Lenore di Gottfried Augustus Bürger, Milano, 1877; è stata ripresa di recente a Zagabria, 2017) fu selezionato per l’Esposizione internazionale di Parigi del 1878. Tra gli altri suoi lavori da studente figurano la ‘scena lirica’ Caccia lontana (libretto di Giovanni Pozza, Milano, conservatorio, 19 luglio 1875) e i ‘drammi lirici’ Preziosa (Angelo Zanardini, da Henry Wadsworth Longfellow, Milano, teatro Dal Verme, 19 novembre 1879) e Bianca da Cervia (Fulvio Fulgonio, Milano, teatro alla Scala, 7 febbraio 1882). Con queste opere il musicista si assicurò una certa notorietà presso il pubblico e la critica nell’ambiente operistico milanese (si ricorda un suo diverbio con un antiwagneriano alla prima scaligera del Lohengrin, 1873) nonché il sostegno di Giovanna Lucca, titolare dell’omonima casa editrice. Meno propizi furono i contrasti con Giulio Ricordi (di cui Smareglia scontò le conseguenze per il resto della carriera) e l’inatteso insuccesso del melodramma Re Nala (libretto di Vincenzo Valle, dall’omonima trilogia drammatica di Angelo De Gubernatis ispirata al Mahābhārata, Venezia, La Fenice, 9 febbraio 1887).
Stabilitosi a Vienna – Smareglia era di casa nella cultura austriaca – si concentrò sulla composizione di due drammi lirici di soggetto storico, che gli fruttarono una serie di successi internazionali: Der Vasall von Szigeth (Il vassallo di Szigeth, libretto di Francesco Pozza e Luigi Illica, su un episodio ungherese del XIII secolo) fu dato in tedesco alla Hofoper di Vienna il 4 ottobre 1889, concertatore Hans Richter, e ripreso al Metropolitan di New York nel 1890; Cornill Schut (o Cornelius Schut; Illica), dato a Praga il 20 maggio 1893 in ceco, indi a Dresda il 6 giugno, concertatore Ernst von Schuch, fu ripreso alla Hofoper di Vienna il 23 novembre 1894, con Richter (ritoccata, l’opera fu ribattezzata Pittori fiamminghi nella ripresa triestina del 21 gennaio 1928). Negli anni del soggiorno viennese mieté recensioni e commenti lusinghieri da parte di artisti e di critici eminenti, quali Johannes Brahms, Max Kalbeck ed Eduard Hanslick, che ne apprezzò il talento di orchestratore e la fresca vena lirica.
Negli anni seguenti Smareglia continuò a muoversi tra i tre Paesi confinanti, l’Italia e l’Austria per la carriera, l’Istria per la famiglia, che per un anno circa risiedé a Dignano; dalla moglie, Maria Jetti Polla (1864-1918), ebbe cinque figli: Giulia (1886-1962), Ariberto (1889-1944), Mario (1891-1935), Maria (1892-1962) e Silvia (1894-1991). Nel 1894 trascorse in Istria un periodo più lungo, coltivando il progetto di un’opera sulla Tentation de Saint-Antoine di Gustave Flaubert, al quale volle interessare l’amico Illica, ma il librettista s’infiammò piuttosto per il pittoresco folklore della cittadina di Dignano e suggerì al compositore di optare per un soggetto d’impronta veristica. Ne risultò il dramma lirico Nozze istriane (Trieste, 28 marzo 1895), che per anni fu l’opera sua più popolare e più spesso allestita. Sebbene aderisca agli ideali del verismo italiano («L’azione si svolge a Dignano, ai nostri tempi»), la trama non indulge alle scene scandalose e truculente tipiche del genere: l’intreccio e il color locale sono pervasi da un realismo lirico che attinge dal folklore istriano e non schiva gli squarci umoristici.
Dopo il successo delle Nozze istriane la carriera di Smareglia imboccò un tornante decisivo, grazie all’incontro con il giovane poeta e scrittore triestino Silvio Benco (1874-1949). La collaborazione tra i due artisti si discostò dal gusto dominante nell’opera italiana degli anni Novanta, Giacomo Puccini in testa, e puntò su soggetti, personaggi, ideali e invenzioni poetico-musicali inusitati, cui essi diedero l’etichetta del ‘teatro di poesia’. Questo orientamento rispecchiava i mutamenti di indirizzo estetico determinati – in campo letterario e di riflesso nel melodramma – dall’avvento di Gabriele D’Annunzio, in direzione del simbolismo e del decadentismo. Il teatro di poesia, la cui concezione spettava in prima battuta al poeta e soltanto in un secondo momento coinvolgeva il compositore, si distinse per una versificazione suggestiva che alla musica, emancipata dal pedissequo assoggettamento all’azione drammatica, offriva tanto maggior spazio all’evocazione di mondi fantastici, pittoreschi e poetici.
Il primo frutto del teatro di poesia fu La Falena (Venezia, teatro Rossini, 4 settembre 1897, ripresa a Braunschweig nel 2016 e a Milano nel 2017). La «leggenda» attinge a piene mani dall’immaginario decadente, in un’atmosfera satura di malia: collocata in uno spazio e in un tempo remoti («nei primi tempi cristiani sopra una costa europea dell’Atlantico», dice il libretto), ha per protagonista una femme fatale ossessionata dall’amore per un giovane re di nome Stellio. Il linguaggio poetico indulge a immagini evocative pregne di una drammaticità interiore che attende di essere ravvivata, dice Benco, da una «musica irrequieta e bizzarra» (cfr. Le origini della “Falena”, in Benco, 1974, p. 58). L’esempio più lampante lo dà la composizione del secondo atto, là dove nel proprio tugurio la Falena ipnotizza il sovrano: dapprima «lo avvince con un amplesso furioso» (così il libretto), indi lo seduce con un calice di vino, infine intona un canto sensuale, «infinitamente carezzevole», che li assorbe in un’erotica frenesia notturna. L’intero atto – una scena compatta – intreccia su un tessuto orchestrale ininterrotto sfoghi melodici ed ariosi declamati.
Benco e Smareglia persistettero nel loro orientamento poetico, fiduciosi che potesse sfociare in un genere melodrammatico nuovo. Da una lettera del musicista al poeta (senza data, deve risalire circa al 1902) risulta addirittura che i due accarezzassero l’idea di una collaborazione con D’Annunzio su una «tragedia musicale», idealmente destinata al «teatro d’Albano» che il Vate stava allora progettando con Eleonora Duse (cfr. Ličinić van Walstijn, 2009, pp. 291-293). Infine, si concentrarono su un soggetto favoloso, la «commedia fantastica» Oceana, che a una tribù patriarcale di agricoltori mediorientali (nel primo e nel terzo atto) contrappone creature sensuali e lascive della mitologia marittima (nel secondo atto). Nel corso del lavoro Smareglia accusò disturbi alla vista che nel 1900, in seguito a un’operazione malriuscita, lo condannarono alla cecità. Ma il poema era ormai versificato ed egli ne dettò la musica ai propri allievi e assistenti, il figlio Mario e Gian Francesco Malipiero, che all’epoca gli faceva da amanuense.
La prima di Oceana fu alla Scala di Milano, direttore Arturo Toscanini (22 gennaio 1903; è stata ripresa a Pola per il centenario, l’8 novembre 2003). Il fascino straniante dell’opera, così anticonvenzionale e antiteatrale, suscitò più di una controversia, non senza un conseguente incremento di pubblicità; la critica fece ricorso a categorie descrittive inconsuete («poema lirico» lo definì Renzo Sacchetti, «continua sinfonia descrittiva» Giuseppe Pozza). In effetti in Oceana culmina il concetto stesso del teatro di poesia: Benco si ispirò ai personaggi e all’immaginario della Tempesta e del Sogno di una notte d’estate di William Shakespeare, ai versi dell’Ifigenia in Tauride di Johann Wolfgang von Goethe, e soprattutto ai dipinti marittimi di Arnold Böcklin (in particolare Il gioco delle naiadi e Tritone e Nereide). Nelle parole di Benco: «Noi vogliamo presentarci con quadri di paesaggio scenico e di musica sui quali scorra un’azione di esseri fluidi, leggeri, impregnati di una poesia che tolga loro alquanto della imponderabilità delle creature terrene, di modo che tutto sia come un riverbero lontano della vita e dia un’impressione continua di fantasmagoria in un regno di pura musica» (Il Corriere della sera, 23 gennaio 1903, cit. in Smareglia, 1934, p. 205).
Nella partitura di Oceana prevale il paesaggismo sonoro, disteso in ampie atmosfere pittoriche, coerentemente con l’interpretazione che dell’azione diede Smareglia, impegnato nel creare immagini orchestrali – come nel secondo atto il Notturno marittimo, la Danza delle ondine – evocative dell’ambiente più che dell’intreccio drammatico. A conti fatti la musica finì per assomigliare a un poema sinfonico più che a un’opera: e infatti Smareglia ricavò dall’intero secondo atto una suite strumentale (Milano, 1902), che dedicò a Hans Richter.
L’ultima opera dei due artisti giuliani fu il «dramma lirico» Abisso (Milano, La Scala, 10 febbraio 1914), che si distingue da La Falena e da Oceana per il soggetto storico – la battaglia di Legnano, 1175-76 – trattato tuttavia in termini musicali e drammatici del tutto affini alle due opere precedenti. Benco persistette nel gusto letterario fin de siècle (il libretto era stato ultimato nel 1906), insistendo sul dramma interiore, gli stati d’animo, il destino dei personaggi; dal canto suo, Smareglia sfoggiò una volta di più un sontuoso, opulento tessuto orchestrale. Ma spicca l’intenso lirismo vocale e il modo raffinato con cui il compositore intreccia e avvolge il canto nell’ordito sinfonico. L’esempio più suggestivo è offerto dall’apertura del terzo atto, concepito alla stregua di una fantasia orchestrale («Una terrazza sul torrione del castello [...] lo spazio immenso del cielo, in un limpido mattino di maggio»).
Con Abisso terminò la collaborazione con Benco, in coincidenza con lo scoppio della guerra. Negli anni successivi Smareglia visse in condizioni modeste, non senza il soccorso di benevoli sostenitori, tra cui la Casa musicale giuliana dell’editore Carlo Saiz (o Saitz, poi italianizzato Sai), che promosse la pubblicazione e la diffusione delle sue opere. Insegnò composizione nel conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste, di cui nel 1921 divenne direttore onorario. Con Vincenzo Tommasini accudì all’approntamento della partitura del Nerone, che Boito, morto nel 1918, aveva lasciato incompiuta (Milano, teatro alla Scala, 1° maggio 1924).
Morì a Grado il 15 aprile 1929.
Smareglia, cosmopolita nella vita come nella carriera, visse ed operò in città diversissime come Trieste, Milano, Venezia, Vienna, Dresda, Praga e Pola. Tenne rapporti con artisti famosi come i direttori Toscanini e Richter, compositori come Franz Lehár e Richard Strauss, letterati come Boito e James Joyce, suo vicino di casa a Trieste. Appartenne alla generazione della cosiddetta giovane scuola (compositori nati tutti fra metà anni Cinquanta e metà anni Sessanta). Il rango del suo apporto alla musica operistica, in particolare nella fattispecie del teatro di poesia creato con Benco, fu riconosciuto dai contemporanei: come ebbe a dire Joyce, «Smareglia (who lives beside me) is held by many to be the most original of the living Italian musicians» («molti considerano Smareglia il più originale dei compositori italiani del momento»; lettera del 23 dicembre 1911, in Joyce, 1966).
Fonti e Bibl.: E. Hanslick, Die moderne Oper, VI, Berlin 1892, pp. 147-154, VII, 1896, pp. 124-131; M. Smareglia, A. S. nella storia del teatro melodrammatico italiano, Pola 1934; Ariberto Smareglia, Vita ed arte di A. S., Bellinzona 1936; J. Joyce, Letters, a cura di R. Ellmann, II, London 1966, p. 294; S. Benco, Ricordi di A. S., Duino 1968; Id., Scritti musicali, a cura di G. Gori - I. Gallo, Milano-Napoli 1974, pp. 56-61, 65-69; A. Smareglia, Lettere, a cura di G. Gori - M. Petronio, Roma 1985; E. Perpich, Il teatro musicale di A. S., Trieste-Rovigno 1990; R.A. Zondergeld, S., A., in Pipers Enzyklopädie des Musiktheaters, V, München 1994, pp. 714-718; G. Salvetti, Il Novecento italiano, in Musica in scena, II, Gli Italiani all’estero, a cura di A. Basso, parte V, Torino 1996, pp. 459-475; I. Cavallini, La frontiera interiore di A. S., in Nazionalismo e cosmopolitismo nell’opera fra ’800 e ’900, a cura di L. Guiot - J. Maehder, Milano 1998, pp. 113-136; G. Novel, «Visione musicalissima» e «simbolo pittorico»: “La Falena” di S. Benco e A. S., in Cosmopolitismo e nazionalismo nella musica a Trieste tra Ottocento e Novecento, a cura di I. Cavallini - P. Da Col, Trieste 1999, pp. 17-65; S. Benco, La morte dell’usignolo e gli altri libretti per Smareglia, a cura di M. Pieri, Trento 2003; A. Sessa, Il melodramma italiano, 1861-1900, Firenze 2003, pp. 449 s. (anche su Giulio Smareglia); M. Sansone, Lettere di A. S. a Luigi Illica. Frammenti autobiografici di un musicista di frontiera, in Scapigliatura & Fin de siècle. Libretti d’opera italiani dall’Unità al primo Novecento, a cura di J. Streicher - S. Teramo - R. Travaglini, Roma 2007, pp. 389-439; J. Ličinić van Walstijn, “Teatro di poesia” in the opera house. The collaboration of A. S. and Silvio Benco, Zagreb 2009; A. Sessa, Il melodramma italiano, 1901-1925, Firenze 2014, pp. 835-839 (anche su Giulio Smareglia).