SMANCINI, Antonio
– Nacque il 6 dicembre 1766 a Gera di Pizzighettone, nel Cremonese, da Giuseppe e da Giulia Muzzi.
Compiuti studi giuridici, esercitò l’avvocatura a Cremona, entrando poi nella magistratura come luogotenente della pretura di Pizzighettone. Schierato fin dall’arrivo dei francesi per i nuovi ideali rivoluzionari, nell’agosto del 1797, nell’ambito della Repubblica Cisalpina, gli fu affidata la carica di commissario del potere esecutivo per il dipartimento dell’Alto Po, che mantenne sino al 1° ottobre di quell’anno. Passò quindi a membro dell’amministrazione centrale, struttura esecutiva collegiale elettiva. Da questa carica fu destituito dall’ambasciatore del Direttorio parigino Claude-Joseph Trouvé, nel settembre del 1798, nel quadro di un drastico ridimensionamento della presenza democratica nel governo cisalpino voluto da Parigi. Il successivo 19 ottobre il generale in capo Guillaume-Marie-Anne Brune, democratico-radicale, procedette a una sorta di contro colpo di Stato, con eliminazione sistematica dalle cariche dei soggetti voluti da Trouvé. Smancini, che Brune aveva personalmente conosciuto quando era commissario del potere esecutivo a Cremona, e che si diceva avere «poussé plus que bien d’autres le général dans cette circonstance» (Parigi, Archives Nationales, AF III, b. 71, Rivaud al Direttorio francese, 23 frimale a. VII; 13 dicembre 1798), fu posto nella carica più elevata, come membro del Direttorio cisalpino. La reazione di Parigi non tardò. Fu inviato a Milano François Rivaud quale nuovo ambasciatore e allo stesso tempo commissario del governo col compito di rendere nulle le nomine di Brune. L’8 dicembre Smancini fu così sollevato dall’incarico.
A seguito della sconfitta francese a Cassano d’Adda del 17 aprile 1799, che consentì alle truppe della seconda coalizione comandate dal generale Aleksandr Vasil′evič Suvorov di raggiungere Milano, Smancini si rifugiò a Genova, dove tra giugno e luglio si concentrarono non meno di 40.000 profughi delle varie aree d’Italia. Ma a fine luglio il generale in capo francese Jean-Victor Moreau impose, di conserva con il Direttorio ligure, che i forestieri lasciassero la città. Così, al seguito del generale François de Chasseloup-Laubat, il 16 agosto Smancini partì per Parigi insieme, tra gli altri, agli amici Marco Alessandri, Leopoldo Cicognara e Giuseppe Giulio Cesare Tassoni. Il 19 agosto Luigi Bossi, ministro plenipotenziario della Repubblica Cisalpina presso la Repubblica Ligure, segnalava all’ambasciatore cisalpino a Parigi, Galeazzo Serbelloni, che erano partiti per Parigi alcuni rifugiati noti per il loro radicalismo e ostili a quel Direttorio, e tra questi nominava Smancini.
Nella Francia bonapartista gli esuli italiani furono oggetto di attento controllo poliziesco, nel timore che potessero dare luogo a una nuova stagione di complotti rivoluzionari. Smancini, che continuava a vedersi riconosciuto un ruolo politico di primo piano tra gli esuli, firmò con altri trentanove patrioti il 25 febbraio 1800 una petizione indirizzata al primo console e pubblicata sul Journal des hommes libres, in cui gli si chiedeva di fermare gli eccessi degli austriaci in Italia, perpetrati in spregio del trattato di Campoformio e successive capitolazioni. Dopo la vittoria di Marengo il 14 giugno 1800 si sarebbe riaperta, quanto meno per i cisalpini, la prospettiva del rientro e Smancini subito ne profittò.
Il ritorno nella ricostituita Repubblica Cisalpina portò Smancini a rioccupare cariche di vertice. Già il 24 giugno il primo console lo aveva nominato membro della consulta legislativa. Il 27 settembre fu nominato ministro della Giustizia e Polizia generale. Nel quadro della intensa ripresa della progettualità politica indipendentista che caratterizzò quel momento, il ministero diretto da Smancini, che volle al suo fianco come segretario centrale l’amico Pietro Custodi, si rivelò un vero e proprio ‘laboratorio programmatico’. Si trattò comunque di una breve stagione, in quanto Smancini finì rapidamente nelle mire del generale in capo dell’Armée d’Italie Bon-Adrien Jeannot de Moncey, noto per le scarse simpatie verso i democratici, che lo accusò «d’avoir toujours levé le couteau révolutionnaire» (Sani, 2007, p. 418) e ne chiese la rimozione. Smancini si dimise immediatamente, nel luglio 1801, allontanandosi da Milano.
Fu nominato alla consulta straordinaria di Lione in quanto membro della consulta legislativa. Il 20 gennaio 1802 fu eletto, con cinquantasei voti, nel Comitato dei trenta, vale a dire l’assemblea ristretta cui sarebbe toccata in gran parte la nomina delle cariche del nuovo Stato italico e che sarebbe stata investita del vero oggetto di scontro politico, cioè la decisione sulla presidenza della Repubblica da conferire a un italiano o, come era volontà francese, allo stesso Napoleone Bonaparte. Smancini fu tra i nove che resistettero alle pressioni francesi e votarono contro la presidenza Bonaparte, ma rientrò comunque in patria come membro del corpo legislativo e del Collegio elettorale dei dotti.
Se Bonaparte fu dunque presidente della nuova Repubblica Italiana, vicepresidente vi fu nominato Francesco Melzi d’Eril, patrizio milanese moderato, ma filounitario. Toccò a Melzi la scelta degli uomini della nuova amministrazione e la linea adottata fu di limitare l’immissione negli apparati di governo di elementi democratico-radicali, pur nella consapevolezza che la massiccia presenza di costoro nella seconda Repubblica Cisalpina obbligava a compromessi. Smancini era certo tra i soggetti più in vista della componente democratico-radicale di sentimenti unitari. Il 26 maggio 1802 Melzi scriveva di un «partito di Smancini e di Ruga, quello, cioè, dell’antico governo, legato [...] in oggi coi patrioti esaltati» (I carteggi di Francesco Melzi d’Eril duca di Lodi, a cura di C. Zaghi, I, Milano 1958, p. 356) ribadendo il 17 giugno successivo che «quanto ai partiti il solo temibile per i suoi fili è quello dell’antico governo, a cui molti accaniti senosi riuniti: Smancini fa da capo» (p. 432). In effetti, Smancini, massone fin dalla gioventù, godeva fama di essere entrato a fare parte delle società segrete unitarie formatesi con l’arrivo dei francesi, a partire dai Raggi di origine bolognese, riconoscendosi poi nella Società di astronomia platonica, che dopo Marengo, ripetendo gli ideali della società bolognese, «filava un piano diretto a scacciarne i francesi. Visconti, Smancini appartenevano specialmente in Milano a questo corpo» (Melzi a Ferdinando Marescalchi, 26 luglio 1802, ibid., II, p. 160). Ma al di là del radicalismo politico, un altro fattore incideva, e non poco, nella scelta di Melzi di lasciarlo da parte: Smancini infatti si era legato al ‘partito bolognese’ di Antonio Aldini. Attorno alla sua persona si era così costruito un ‘partito cispadano’, politicamente alternativo a quello ‘olonista’ coagulatosi intorno a Melzi.
Escluso quindi dalle cariche di governo e amministrative, Smancini restava membro del corpo legislativo, al quale era stato nominato a Lione con tredici preferenze, al secondo posto per voti nel dipartimento dell’Alto Po e in genere tra i più votati in assoluto.
Nel corpo legislativo, del quale tenne anche la presidenza, Smancini era presente alla seduta in cui la legge di finanza per il 1805-06 fu respinta dall’assemblea, determinando con quel voto la scelta di Bonaparte di non convocarla più e con ciò il tramonto dell’ultima espressione di assemblea elettiva della Repubblica Italiana. A quel punto, senza ruoli pubblici, fatto salvo il suo essere membro del Collegio elettorale dei dotti, Smancini si dedicò prevalentemente alle proprie attività professionali.
Nel 1803 effettuò una scelta che avrebbe non poco condizionato il suo successivo impegno pubblico. In quell’anno si era infatti caricato della fideiussione, per conto dei fratelli Peroni, del loro affitto del vasto latifondo di Corana, in Lomellina, di ragione della mensa arcivescovile di Milano. I fittabili si erano rivelati però a breve insolventi, con il che Smancini, per non rimetterci il patrimonio, si era impegnato in prima persona, con il suo socio Andrea Bellerio, ad amministrare la tenuta. Attività la cui sostenibilità economica sarebbe rimasta sempre incerta, costringendolo a un lavoro a tempo pieno.
Intanto sul piano politico la situazione era radicalmente mutata. Il passaggio dalla Repubblica al Regno d’Italia aveva significato anche la transizione dal predominio del ‘partito olonista’ a quello del ‘partito cispadano’, con Aldini nella posizione di segretario di Stato a Parigi, massima carica di governo per un italiano. Per Smancini ciò significava il rientro nella politica e nell’amministrazione.
Il 20 dicembre 1807 ottenne la nomina a consigliere di Stato nel Consiglio degli Uditori. Ma le diffidenze sul suo profilo politico non erano cessate, se è vero che, essendo stato proposto quale possibile candidato per la carica di senatore nel 1808, il viceré Eugenio di Beauharnais ne aveva accompagnato il nome nel rapporto a Bonaparte annotando che «Smancini ne manque pas de moyens et de capacité, mais il est très renard et la tête souvent échauffée d’idées républicaines» (Veggetti, 1933, p. 116). Tuttavia nel 1809, quando la difficile situazione internazionale impose a Napoleone di cercare la collaborazione di uomini di provata fiducia e capacità, Smancini venne chiamato al delicatissimo incarico di prefetto nel dipartimento veronese dell’Adige.
Infatti, l’attacco austriaco del 10 aprile 1809 alla Baviera, alleata dei francesi, era stato accompagnato dall’insurrezione capeggiata da Andreas Hofer in Tirolo, territorio che, comprensivo del Trentino italiano, era appunto stato posto sotto il dominio bavarese. Il dipartimento dell’Adige, confinante con le terre insorte, era dunque in una posizione delicatissima, che imponeva che in quella prefettura vi fosse una mano tanto energica quanto affidabile. La prefettura dell’Adige era di prima classe, tra le più importanti del Regno, mentre Smancini era prefetto di prima nomina. Si trattò pertanto di una nomina laboriosa, portata a effetto solo per precisa volontà governativa: infatti Smancini con energia aveva cercato di sottrarsi all’incarico, a causa degli obblighi cui lo costringeva l’amministrazione del latifondo di Corana. Invece, non solo non gli fu concesso di rinunciare, ma quando dopo qualche mese, nel settembre del 1809, si trovò nella necessità di sottoporre al diretto superiore, il ministro dell’Interno Ludovico Giuseppe di Breme, la grave situazione in cui si trovava la gestione del latifondo, con la mensa arcivescovile che stava adendo a vie legali per sua morosità, l’affare fu posto in discussione nel Consiglio dei ministri e dietro intervento congiunto dello stesso di Breme e del ministro della Giustizia Giuseppe Luosi, e con pressione diretta sul cardinale Giovanni Battista Caprara Montecuccoli, si riuscì provvisoriamente a stabilizzare la situazione così da consentire a Smancini di restare a Verona.
Nella difficile congiuntura Smancini gestì la prefettura con grande fermezza ed «extrême activité», meritando gli elogi governativi «pour la sagesse et la promptitude des mésures [...] pour prévenir ou réparer au désordre que le insurgences du Tirol et les malvaillants dans l’intérieur avaient excité» (Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 5, di Breme al viceré Eugenio di Beauharnais, 16 agosto 1809). A conferma di ciò il 18 maggio 1810 gli fu affidata anche l’impegnativa missione di organizzare il nuovo dipartimento dell’Alto Adige, e pure questa volta seppe dare ottima prova di sé.
L’ultima conferma della considerazione di solido amministratore e affidabile sostenitore della causa italica che aveva saputo conquistare la si ebbe tra il 1813 e il 1814, al momento della disperata difesa e poi del crollo dello Stato italico. Nel novembre del 1813 come prefetto si impegnò febbrilmente a munire Verona e Legnago per sopportare un assedio e nel gennaio del 1814, per volontà dello stesso Eugenio di Beauharnais, fu nominato commissario straordinario per l’approvvigionamento dell’esercito. Nei concitati giorni dell’aprile del 1814 era a Mantova ed Eugenio pensò a lui per una missione a Parigi insieme al generale Achille Fontanelli.
Alla caduta del Regno, Smancini non trovò ovviamente alcuna possibilità di impiego sotto il governo austriaco, e forse neppure la cercò, non avendo per nulla abiurato ai suoi ideali indipendentisti. Riprese le attività professionali e nel 1817 l’amico Custodi lo volle suo procuratore nella transazione amichevole avviata con i fermieri della ferma mista del Ducato di Parma e Piacenza, con i quali Custodi aveva operato come rappresentante del governo ducale con la carica di intendente generale. La collaborazione finì presto nel peggiore dei modi, con un lungo strascico giudiziario.
Nei moti del 1821 il nome di Smancini tornò alla ribalta, in quanto la polizia austriaca lo trovò tra quelli dei componenti la giunta provvisoria di governo preparata dai cospiratori e nelle deposizioni del marchese Giovanni Battista Canonici di Ferrara, di Pietro Borsieri e di Carlo De Castillia ai processi carbonari a Venezia fu segnalato tra gli affiliati. In una anonima Relazione del viaggio in Lombardia, inviata il 16 ottobre 1822 da un ignoto informatore al principe di Metternich, veniva segnalato come una delle persone più pericolose in Milano (Haus-, Hof- und Staatsarchiv Wien, Provinzen L-V, 39). Non furono comunque presi provvedimenti nei suoi confronti.
Smancini era stato nominato barone del Regno l’8 ottobre 1809 e il 10 aprile 1816 si era avuta la conferma del titolo. Fu insignito anche della commenda dell’Ordine del merito civile di Massimiliano Giuseppe di Baviera e del cavalierato della corona di ferro.
Morì celibe a Milano nella notte tra il 23 e il 24 giugno 1831.
Fonti e Bibl.: Dati sulla carriera di Smancini e sulla fideiussione per il latifondo di Corana in Archivio di Stato di Milano, Uffici e tribunali regi, p.m., c. 640. Numerose lettere sono rinvenibili nei seguenti fondi: Bergamo, Biblioteca civica A. Maj, Archivio famiglia Custodi; Parigi, Bibliothèque nationale de France, Manuscrits italiens-Collection Custodi. Note biografiche nella Necrologia del barone A. S., in Gazzetta di Milano, 28 luglio 1831. Profili biografici sono in: F. Coraccini, Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia, Lugano 1823, p. CXXVI; T. Casini, Di alcuni cooperatori italiani di Napoleone I, in Ritratti e studi moderni, Milano-Roma-Napoli 1914, pp. 417 s.; U. Da Como, I Comizi nazionali in Lione per la costituzione della Repubblica italiana, III, Bologna 1940, pp. 123 s.; V. Sani, Un punto di luna curioso: l’opposizione alla presidenza Bonaparte nei Comizi di Lione, in Da Brumaio ai Cento giorni. Cultura di governo e dissenso politico nell’Europa di Bonaparte, a cura di A. De Francesco, Milano 2007, pp. 404 s., 411, 418 s., 437-439. Notizie sull’attività politica e pubblica in: E. Veggetti, Note inedite di Eugenio di Beauharnais sui candidati al Senato del Regno italico, in Rassegna storica del Risorgimento, XX (1933), 1, p. 116; A. Alberti, Elenchi di compromessi o sospettati politici (1820-1822), Roma 1936, p. 93; A. Ottolini, La carboneria dalle origini ai primi tentativi insurrezionali (1797-1817), Modena 1936, passim; Un diario inedito di Pietro Custodi, a cura di C.A. Vianello, Milano 1940, p. 64; R. Soriga, Pietro Custodi cospiratore, in Le società segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza, a cura di S. Manfredi, Modena 1942, pp. 141 s.; R. Fasanari, Il Risorgimento a Verona (1797-1866), Verona 1958, pp. 87-91; L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna 1983, ad ind.; A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli 1992, p. 191; C. Zaghi, Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, II, Battaglie costituzionali e colpi di stato, Roma 1992, p. 858.