GENTILI, Antonio Saverio
Nacque a Roma il 9 febbr. 1681, secondogenito dei marchesi Nicola e Teresa Durso, di Camerino.
La sua fortuna dipese dalla buona sorte del padre, esponente di una famiglia della nobiltà provinciale che, entrato al servizio del vescovo di Camerino Emilio Altieri, allorché questi diventò papa Clemente X poté seguirlo a Roma col grado di cameriere segreto ed essere da lui beneficato e arricchito.
Avviato alla carriera ecclesiastica, il G. studiò giurisprudenza a Roma, laureandosi nel 1699, dopodiché iniziò il consueto cursus honorum della Camera apostolica: da referendario della Segnatura ad abbreviatore, fino a luogotenente auditore nel 1715. Si astenne però dal prendere i voti fino all'età di 46 anni, quando, il 1° genn. 1727, vi fu praticamente obbligato, essendo in vista per lui il conferimento di un vescovato. Infatti il 17 marzo Benedetto XIII lo nominò, con le dispense del caso, vescovo di Petra, consacrandolo il 23 successivo.
La diocesi araba, in partibus infidelium, costituiva solo un titolo onorifico, ma ad essa si accompagnò subito una veloce progressione di carriera con la carica di vescovo assistente al soglio pontificio e, nell'anno seguente, di segretario della congregazione del Concilio e di quella dei Vescovi e regolari. Inoltre, il 28 luglio 1730 ottenne un canonicato a S. Maria Maggiore e il 17 maggio 1731, per mano di Clemente XII, la nomina a datario. Si trattava, solitamente, di un grado cardinalizio e infatti lo stesso papa, appena quattro mesi dopo, il 24 settembre, lo creò cardinale del titolo di S. Stefano Rotondo.
Il G. era stato abile: mostrandosi sottomesso e duttile, si era accattivato la benevolenza del potente cardinale nipote di Clemente XII, Neri Corsini, il quale vigilava che nessuna personalità in grado di oscurarlo potesse raggiungere i vertici della S. Sede, controllandone quindi tutte le carriere. Il Corsini arrivò a concedere qualche confidenza al G. e servirsene in alcuni casi come proprio portavoce. Utilizzando le opportunità offertegli, il G. tentò di mettersi cautamente in luce, insieme con M. Passerini, occupandosi di politica estera, vista la scarsa autorità che possedeva il segretario di Stato Giuseppe Firrao. La sua poca conoscenza degli affari esteri rese però sostanzialmente vano il tentativo, che fu messo in atto nel 1737, quando il G. fece parte della congregazione cardinalizia incaricata di trattare il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con la Spagna, un nuovo concordato e l'investitura di Napoli per Carlo III; la questione fu risolta dopo molte trattative, che il Corsini affidò ad altri alla fine di settembre. Ciò comunque non dovette interrompere la carriera del G., perché già dal 20 marzo era diventato prefetto della congregazione del Concilio.
Nel campo dell'arte al G. si deve un restauro della cappella dei Ss. Primo e Feliciano in S. Stefano Rotondo, in cui fece riporre le reliquie di quei martiri dopo la solenne traslazione dell'11 giugno 1736, e soprattutto la costruzione di villa Gentili (dal 1738 al 1748) presso porta S. Lorenzo, per opera dell'architetto Filippo Raguzzini. La critica concorda sull'attribuzione al Raguzzini dell'importante edificio e sul fatto che la villa fu commissionata dal marchese Filippo Gentili per conto del fratello cardinale, il quale avrebbe fatto costruire dallo stesso architetto pure il palazzo gentilizio di via in Arcione, da altri fatto invece risalire al tempo del marchese Nicola.
Già dopo la laurea, il G. aveva aperto la sua casa per conferenze di giovani dotti in materia di legge e riti ecclesiastici, favorendo così la diffusione di quella fama di erudito e mecenate che gli aprì le porte dell'Accademia degli Infecondi, progenitrice dell'Arcadia, di cui divenne più tardi protettore.
Durante il conclave del 1740 il cardinale Annibale Albani inserì anche il nome del G. nella lista degli eleggibili aderenti alla sua parte. Fu eletto papa Prospero Lambertini, Benedetto XIV, che del G. aveva comunque una buona opinione e cui non lesinò ulteriori promozioni.
A partire dal 1741, e per i nove anni seguenti, il G. fu visitatore dell'ospedale romano di S. Spirito, deputato al controllo dei suoi cospicui finanziamenti e dell'edificazione di una nuova ala nel 1744, oltre che all'amministrazione dei sacramenti ai ricoverati.
Il 22 genn. 1742 divenne tesoriere generale del S. Collegio e nello stesso anno, perseverando nel suo interesse per la politica estera, fece parte della commissione di dieci cardinali che raccomandò al papa il riconoscimento dell'elezione imperiale del duca Carlo Alberto di Baviera (1742) durante il conflitto per la successione austriaca. Nel marzo del 1746 si interessò poi dei negoziati per la successione borbonica a Parma.
Risultato insoddisfacente dette il suo lavoro nella congregazione per la Riforma del breviario romano, costituita nel 1744, il cui elaborato finale fu giudicato dal papa troppo influenzato dalle tendenze liturgiche francesi e avocato a sé, senza avere però il tempo di portarlo a compimento prima della morte.
Ebbe invece esito migliore l'attività del G. nella formazione religiosa e nell'amministrazione economica: nella prima fu un attivo protettore degli olivetani, dei trinitari e dei betlemiti, nonché sovrintendente dei seminari papali per le missioni di Douai, Lovanio, Colonia, Avignone e dell'Isola tiberina. In ambito economico, in qualità di commendatore del Banco di S. Spirito, il 15 luglio 1744 firmò un contratto con lo zecchiere O. Lopez per la coniazione di 20.000 scudi in quartini d'oro, al fine di cercare di ridurre la cronica mancanza di circolante e l'eccesso di cedole del banco che affliggevano da anni lo Stato pontificio.
Il 18 apr. 1746 il G. fece parte - insieme con Silvio Valenti Gonzaga, Domenico Riviera e Girolamo Colonna - della nascente congregazione economica che avrebbe dovuto curare l'adempimento della riforma finanziaria appena avviata da Benedetto XIV.
Inizialmente la congregazione fu impegnata nell'esame delle moltissime petizioni di privati, enti e Comunità che chiedevano più libertà per le esportazioni di seta e grano e lamentavano la pesantezza dei pedaggi interni sul commercio. La conclusione che ne derivò fu unanimemente pessimistica: i cardinali si dimostrarono concordi sull'opportunità di abolire le restrizioni al commercio, ma dubitavano della capacità dell'amministrazione pontificia di imporsi ai localismi e agli interessi di chi dai pedaggi traeva rendite e privilegi. Comunque, nel 1747 la congregazione si espresse in favore della libertà di commercio del grano, eccettuato il periodo estivo, quando avrebbe dovuto essere obbligatoriamente destinato all'approvvigionamento interno. Il papa accolse il suggerimento, proclamando nel 1748 la libertà di commercio del grano, sia pure escludendo Avignone, Benevento, Roma, la Sabina, Viterbo e Civitavecchia; ma, come previsto, quando cercò di intaccare i pedaggi interni incontrò resistenze troppo forti e la riforma si arenò.
In riconoscimento di questa attività, però, il 10 apr. 1747 il G. fu nominato cardinale vescovo di Palestrina, una prestigiosa diocesi suburbicaria che gli permise di conservare tutte le rendite, rinunciando al solo precedente titolo di S. Stefano.
Gli ultimi anni del G. sono noti grazie agli accenni su di lui contenuti nelle Lettere di Benedetto XIV al cardinale de Tencin. Dopo aver ripreso a occuparsi della questione della diocesi di Breslavia e delle ingerenze su questa da parte del re di Prussia Federico II, verso il 1750 il G. cominciò a perdere l'uso delle gambe. Cercò di occultare le sue condizioni di salute vivendo ritirato nella sua villa e in un possedimento presso Rieti, dove villeggiava, ma tra il 1751 e il 1752 la malattia lo intaccò anche nelle facoltà mentali. Il papa lo vide così circondarsi di "metafisiche cautele" e, a causa dei ripetuti colpi apoplettici, "attonito" nell'espressione e nei discorsi, sempre più rari. Benedetto XIV se ne dolse molto, scrivendo al Tencin che il G., sano, "poteva annoverarsi fra i soggetti non affatto inutili, anzi fra gli utili" (Lettere, p. 529). Resosi conto di essere prossimo alla fine, il 12 febbr. 1753 fece testamento, riservandosi l'usufrutto della villa, da passare post mortem alla nipote Costanza Giori, mentre la proprietà sarebbe andata alla primogenita di questa, Margherita Sparapani.
Il G. morì appena un mese dopo, il 13 marzo 1753, nel suo palazzo romano per un altro colpo apoplettico.
Il giorno 16 fu celebrato il suo funerale in S. Ignazio, dopodiché fu sepolto nella chiesa di S. Venanzio dei Camerinesi, in una tomba, erettagli dalla nipote, che andò dispersa ancor prima che i lavori di isolamento del colle capitolino, nel 1929-30, causassero la demolizione di quell'edificio.
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